“La Fabariota” di Anna Di Mauro

La Fabariota di Anna Di Mauro

@Agata Motta, 13 luglio 2025

Chi non si è mai ritrovato a scrivere qualche pagina di diario per fissare un ricordo, per fare chiarezza sui propri tumulti interiori, per analizzare persone e situazioni? Anna Di Mauro nell’originale e trascinante romanzo La Fabariota, Carthago edizioni, inserisce questa modalità narrativa non tanto o non soltanto per restituire dignità letteraria a un genere poco frequentato ma soprattutto per un bisogno di esplorazione della scrittura in quanto tale, la scrittura che è “luce feconda che non si spegne mai”, quella che salva e monda, quella cui aggrapparsi nei momenti di sconforto e di disperazione, quella cui si affidano umori e sapori di una vita spesso insufficiente a contenere gli sconfinamenti dello spirito. Sì, perché la dualità insita nell’uomo, intesa come conflitto tra ragione e sentimento o come compresenza di corpo e anima, è ben presente nel testo e ne costituisce uno dei tratti caratterizzanti.

Abbiamo dunque un Osservatore celeste, un tempo umano e dotato di chiaroveggenza, che viene affiancato a una giovane donna in piena crisi sentimentale e professionale, per contenerne gli impulsi suicidari o semplicemente per raddrizzare il timone di una perigliosa navigazione attraverso una singolare forma di “assistenza empatica”. Non può materialmente intervenire, quindi si danna e si dispera o cerca di stemperare la tensione con piglio ironico. Scrive un diario per “registrare fedelmente il tempo trascorso con la sua cavia”. Un angelo custode non ancora del tutto maturo per il suo compito che si attrezza culturalmente rimpinzandosi di libri, un angelo custode simpatico nella sua imperfezione che usa un linguaggio ampolloso e se ne compiace come se le esuberanze stilistiche, le arditezze lessicali, le ridondanze aggettivali potessero contribuire all’accelerazione del suo percorso di uscita dalla zona grigia in cui si trova. La finalità del suo diario è pertanto di perlustrazione non solo della creatura sotto la sua tutela ma anche di se stessa (perché in realtà di un’osservatrice si tratta e non è un caso l’attenzione maggiore riservata al “femminile”) e del proprio livello di affinamento.

Ed ecco la protagonista terrestre, Alessia Alibrandi, archeologa che tenta di ricostruire la storia dei Sicani e di dimostrare come questa popolazione abbia avuto rapporti con la civiltà minoica. Durante la sua caparbia ricerca, ostacolata da ruspanti intimidazioni mafiose, si imbatte però in un’affascinante leggenda legata alla figura della Fabariota (la donna di Favara, la prima “fimmina scrittora”) che in epoche remote scriveva a uso e consumo delle donne che andavano a consultarla nel suo antro misterioso. Che non sia solo leggenda sarà chiaro sin dall’inizio, perché la grottesca rappresentazione al teatro Valle (momento iniziale e conclusivo della vicenda che assume pertanto un andamento circolare) ha per oggetto proprio il contenuto dei manoscritti ritrovati. Anche lei scrive un diario, ma con finalità inconsciamente terapeutica. “Pochi sanno ascoltare veramente”, afferma Alessia, “Invece la pagina riceve la confidenza docilmente. È rispettosa”. La paralisi della volontà – che tanto la avvicina allo sveviano Zeno Cosini – la depressione, i conflitti con le figure parentali pian piano emergono, prendono forma e ricevono voce, il meccanismo della terapia psicanalitica viene affidato alla scrittura. Anche il linguaggio di Alessia non disdegna certe raffinatezze e magniloquenze, anzi sembra quasi che nei diari prenda corpo uno stile che deliberatamente si contrappone a quello più fluido, incalzante, a tratti fortemente paratattico della narrazione onnisciente, nella quale prevale il punto di vista della protagonista cui si affiancano le incursioni dirette dell’Osservatore celeste che giudica, svela le menzogne autoassolutorie della sua pupilla, freme nell’impossibilità di deviare il corso degli eventi perché il libero arbitrio, facoltà umana incontestabile, deve comunque essere garantito.

L’autrice insomma gioca con le molteplici possibilità espressive, se ne avverte l’ironia pungente e il tangibile divertimento a conferma di quanto, al di là dell’affasciante storia e dei tanti personaggi tratteggiati con finezza, sia proprio alla scrittura che dedica la sua maggiore cura. Una diffusa leggerezza permea le pagine quasi a voler dimostrare che anche le tematiche più serie e dolorose possono essere filtrate da un intelligente distacco capace talvolta di scovarne il lato comico. E risulta spontaneo intravedere il suo sorriso sornione dietro le parole dell’Osservatore celeste che in fondo, pur avendo una sua identità che si svelerà solo alla fine, non è pretestuoso considerare un alter ego, così come è semplice ipotizzare che nei luoghi teatro delle azioni – Roma, Agrigento, Favara, Sperlonga, Venezia – abbia seminato pezzi del proprio cuore.
Ambientato negli anni Sessanta – riconoscibili grazie ad accenni politici quali la presidenza di J.F. Kennedy ma soprattutto attraverso i riferimenti cinematografici, dalla morte di Marylin alla via Veneto delle celebrità – il romanzo è intriso di riferimenti letterari, filosofici e artistici che costituiscono l’ossatura della formazione umana e culturale dell’autrice, probabili stelle polari della sua visione della vita. Sfilano così sotto gli occhi del lettore Pirandello nella moltiplicazione del proprio sé, nella taciuta pazzia di zia Tecla e nel concetto di famiglia trappola, Freud nelle continue tessiture sui sogni, Sartre nella nausea esistenziale, Kierkegaard nel necessario dramma della libertà di scelta, e ancora Marx, Dostoevskij, Dante, Sciascia, Vittorini, Caravaggio, Modigliani e altri ancora, una polifonia di rimandi e citazioni cui Di Mauro dà sostanza in quanto sostanza di una vita di studi e riflessioni.

I personaggi, i cui nomi e cognomi sono spesso rivelatori – Alibrandi, ali per volare, brando per combattere; Narcisi, il bellimbusto capace di amare solo se stesso – vengono talvolta individuati con epiteti temporaneamente calzanti allo stato d’animo e alla situazione. Attraverso i loro vissuti l’autrice accende i riflettori sulle grandi tematiche universali come la malattia, la morte, l’immortalità dell’anima, l’amore, la memoria, le radici. Su tutto si distende l’ala instancabile del tempo sovrano, che sa essere anche “nemico e ingannatore”. Gli scavi ne sviscerano i segreti per restituirli al presente e al presente giungono le parole intessute dalla Fabariota, parole tese a consolare e sostenere un universo femminile da sempre afflitto.

La consapevolezza sarà l’attrezzo fornito dall’Osservatore celeste all’incespicante e titubante Alessia, la consapevolezza dei propri bisogni, delle proprie emozioni, dei propri conflitti, la consapevolezza dell’importanza del passato, indispensabile a chi, come lei, vi scava dentro per mestiere, e infine la capacità di distinguere “ciò che fa star bene da ciò che fa star male”, un’arte che solo chi sa vivere pienamente possiede.

La Fabariota
Anna Di Mauro
Carthago edizioni
pp.298
20,00 €

https://www.scriptandbooks.it/2025/07/13/la-fabariota-di-anna-di-mauro/

Recensione “Raccoglievamo le more”

Raccoglievamo le more di Agata Motta – Edizioni Kalòs

@Anna Di Mauro, 11 aprile 2025

Raccoglievamo le more opera prima della giornalista e scrittrice siciliana Agata Motta, è un romanzo della memoria e dell’appartenenza, ispirato a una storia vera, strutturato in un puzzle di quadri in successione, di cui solo il prologo e l’epilogo appartengono al presente. Aurelio Vitale, attore girovago e ribelle, nel 2002 ritorna alla terra natia e alla sua casa natale che con dolore vede svuotare dei suoi arredi carichi di memorie prima di passare in mani estranee. Mentre in cerca di antichi sapori siede al bar della piazza si sente chiedere dal cameriere “A cu’ appatteni?”. “No sacciu” risponde, ma la domanda sulla sua appartenenza scatena un’orda incessante di ricordi nello “straniero” che si fermerà solo nell’ultimo quadro del romanzo, emozionante epilogo che chiude il cerchio di una storia ambientata in Sicilia negli anni ’40, anni cruciali per la famiglia Vitale protagonista della vicenda e per il paese dove essi vivono.

Presentazione del libro con l’autrice e Costanza DiQuattro

L’Italia fascista e poi belligerante sono lo sfondo drammatico su cui si innestano le vite degli abitanti di quel piccolo mondo, microcosmo nel macrocosmo, disegnato con passione dall’autrice, in una raffinata prosa a tratti poetica, a tratti asciutta e cruda, nitida fino ad essere spietata nei ritratti dei personaggi e nelle ambientazioni, ricca di suggestioni metaforiche e stilemi, succulente sollecitazioni per il palato del lettore, invitato a gustare ciò che solo la penna può creare. La storia della famiglia Vitale scorre come un fiume in piena attraverso il racconto diretto o indiretto dei suoi protagonisti, in un vivace alternarsi della voce narrante, alzando il velo sull’intimità di una casa dove regna l’amore tra i coniugi Giovanni, impiegato alle Poste, e Maria con i loro cinque figli Rodolfo, Annamaria, Antonio, Emma, Palmina, attorniati dall’autorevole zio arciprete, l’affezionata domestica Lucia, la famiglia Crisafulli e tanti altri personaggi, tratteggiati con cura nella loro personalità e nei rapporti familiari e sociali.

Tra vizi e virtù, guerra e pace, i ragazzi crescono prendendo strade diverse, affrontando ciascuno a suo modo il periodo storico che attraversa le loro giovinezze a passi infuocati tra dittature ed eventi belligeranti, cercando come Aurelio di riappropiarsi del passato e ritrovare l’appartenenza ad affetti importanti che ti forgiano e ti segnano per tutta la vita, che ti porti addosso come una seconda pelle, che sono forza e debolezza insieme, che ti identificano, che ti confortano, che ti imprigionano, che ti salvano. È da tutto questo che violentemente l’ultimo nato di casa Vitale si era distaccato, per quel terribile senso di colpa che aveva segnato la sua vita e quella della sua famiglia, alla quale ora ritorna per ricordare e colmare il vuoto di un’assenza di cui è stato inconsapevole vittima e carnefice.

Il nostos dell’uomo che apre e chiude il romanzo è il ritorno a una preziosa vita perduta, mai vissuta, immaginata e ricostruita per bisogno, capace di rinnovare attraverso la magia della scrittura un’appartenenza che neanche la morte può appannare, perché i legami d’amore sono più forti, perché amare è ricordare e rendere eterno ciò che passa e si dilegua sul selciato, ma non nel cuore.
La forza di questo aspro e struggente romanzo sta nella complessità e ricchezza dei sentimenti, veicolati dall’attenta e amorevole ricostruzione di un “come eravamo”, offerto in un linguaggio elegante che ci tocca e coinvolge con il suo carico di evidente tenerezza per quel prezioso tessuto di odori, sapori, oggetti, abitudini, sentimenti, sogni, che la brutalità della guerra aveva interrotto, ma non distrutto, perché quest’uomo, simbolo della rinascita, è ancora capace di amare e sognare, di attingere alle radici per andare lontano, mentre la speranza accende il suo volto, il volto di chi coltiva la memoria. Ricordare in quest’opera diventa un atto sacro e un canto alla vita.

https://www.scriptandbooks.it/2025/04/11/raccoglievamo-le-more-di-agata-motta-edizioni-kalos/