Recensione di Lucia Accoto

Recensione di Lucia Accoto su Raccoglievamo le more
“La vita si spezza e si ricompone. Rimetterla in piedi costa fatica. I cocci avranno il nome del confine che passa tra il prima e il dopo. L’intervallo che definisce lo spazio del tempo misura la portata di luci e ombre. Disordine, ordine, compiutezza ed entusiasmo sono le fenditure tra una linea e un’altra lungo le quali prendono posto la rassegnazione e la rivalsa. Due poli opposti che non conoscono legami, che sono parole e opere di sudore e di sangue. Quando si frantumano gli anni più belli si fa sentire l’aria polare che ghiaccia il respiro rendendolo faticoso. L’instabilità comporta una sospensione che mette a soqquadro la spinta verso la normalità. I frammenti di una vita rotta da fatti che non hai potuto controllare nemmeno nelle circostanze in cui godevi di un minimo di autonomia si scagliano in un presente che è la somma di tutte le ore. Il passato lo conosci e il futuro lo temi. L’esistenza così sfilacciata esaurisce l’orizzonte, incrina le spalle e allontana la vista delle lapidi che scuriscono l’intraprendenza dell’ambizione.
In Raccoglievamo le more di Agata Motta conosci la storia di una famiglia che ha conosciuto le ferite in un’epoca in cui il fascismo impera e la guerra è vicina. Sicilia, anni Quaranta. I Vitale sono uniti, sono numerosi. Il loro è un guscio forte, almeno in apparenza. Poi, le cose cambiano anche per loro. I rapporti si incrinano e le aspettative di vita anche. Scoppia la Seconda Guerra mondiale investendo l’esistenza di tutti. I fatti che sono stati assorbiti da una quotidianità sbiadita e composta da schegge di piccole storie che attraversano il vissuto della famiglia proiettata verso la speranza.
Qualcuno, però, non sa più a chi appartiene. Adesso che anche l’ultima persiana della casa dei Vitale è stata chiusa, si ritrova spettatore della fine di un ciclo di storia.
Il romanzo ingoia il passato per superare l’inferno in cui il futuro deve, poi, orientarsi per forza per respirare La storia, un vero gioiello della narrativa, è l’immagine riflessa di vite che si ritrovano sparse come bambini alle giostre. La scrittura è affascinante, travolgente, vera. È l’esatto richiamo al mondo di fuori che straripa quando quello fatto di inchiostro è così pieno che vorresti solo essere uno dei personaggi così ben “pittati” che diventano tuoi amici, confidenti, compagni e fratelli”.
La mia recensione su:

Recensione su Magma Magazine di Serena Votano

MAGMA MAGAZINE
Eruzioni letteraria
La memoria che inciampa in un verbo imperfetto

«Raccoglievamo le more» di Agata Motta

7 minuti di lettura

“A cu’ appatteni?” è una domanda che, al Sud, viene posta per capire qual è la famiglia nella quale si è nati. Chi sono i genitori, o i nonni. Il cognome, di per sé, segna un’appartenenza: una casa in cui tornare. Illumina un’intera generazione, dall’ultimo nato al primo di cui si ha memoria, attraverso ramificazioni tortuose e, a volte, sussurrate come segreti scomodi e inconfessabili. È la domanda che viene fatta al protagonista di questo romanzo, l’attore Aurelio Vitale, che nel 2002 ritorna nella sua terra natia e osserva la sua casa svuotarsi degli arredi. Si siede al bar della piazza e il cameriere gli chiede, appunto, “A cu’ appatteni?”, “No sacciu” risponde.

Aurelio prova a riannodare il filo della storia della sua famiglia nella Sicilia degli anni ’40, dove l’Italia fascista e la guerra sono un presente drammatico per Rodolfo, Annamaria, Antonio, Emma, Palmina, la mamma Maria, il padre Giovanni, lo zio arciprete, la domestica e un maestro di musica. Ognuno con i suoi sogni, aspirazioni e opinioni politiche.

Raccoglievamo le more (edito da Kalós, 2025), esordio notevole di Agata Motta, è un romanzo corale in cui le voci dei personaggi si alternano, invitando il lettore nell’intimità di una casa che rappresenta le molte vite comuni negli anni della Seconda guerra mondiale, un periodo storico che infrange la giovinezza e imprigiona il presente.

E se ci abituassimo al male? Se cominciassimo a pensarlo come una cosa normale? Che strada imboccherà il genere umano e cosa significherà umanità in quest’era nuova in cui il sangue si potrà versare come vino dentro i calici panciuti dei potenti?

Agata Motta è una giornalista e scrittrice catanese, nonché docente di Lettere a Palermo. Dopo aver pubblicato testi teatrali e saggi, firma il suo primo romanzo, classificatosi nel 2017 tra i dodici inediti finalisti del Premio Neri Pozza.

Il puzzle di una famiglia nella Sicilia del fascismo

L’autrice ha scelto di dare voce a tutti i suoi personaggi – attraverso una prosa raffinata, quasi poetica, e al contempo cruda – senza eleggere un vero protagonista. Sono infatti i frammenti di queste microstorie, come tessere di un puzzle restituito dal passato, a ricomporre le paure e le speranze di un’altra epoca, di una famiglia e di una nazione intera.

Il prologo e l’epilogo di questo romanzo – dove a parlare è appunto Aurelio – mostrano la necessità di recuperare quella vita perduta, solo immaginata, ma tanto amata e dunque ricostruita. Aurelio, mentre osserva quella casa svuotarsi, sta in realtà vedendo sfumare l’ultima possibilità che ha di ricostruire quel passato e quegli affetti, una seconda pelle che, come il cognome, ti identifica e salva.

La chiave di questo romanzo si cela dietro l’imperfetto utilizzato nel titolo, un tempo verbale che rivela un senso di nostalgia verso quegli odori, sapori, abitudini, sogni, un bisogno di ricostruire una nuova identità. Un titolo che riesco il passato e apre una parentesi nel presente tortuoso – quello del romanzo, come quello che stiamo vivendo – restituendo ai piccoli personaggi di questa storia una vana possibilità di essere ancora bambini e gioire dell’inaspettato.

Raccoglievamo le more tra i cespugli spinosi e spesso c’era chi si graffiava fino a sanguinare, ma le sfide sono sfide e vinceva chi riempiva in meno tempo la tazza, piena, fino all’orlo. Ci disperdevamo su sentieri diversi e il primo che finiva dava l’avviso salendo sul muretto della chiesa sconsacrata a gridare la propria vittoria.

Motta racconta delle piccole sfide tra bambini che, anche in tempi di guerra, non si lasciano sfuggire l’occasioni di sfidarsi nella raccolta delle more. Un gesto che evoca il bisogno di strappare ancora un attimo di infanzia, goderselo fino alla fine, lontani dallo sguardo affranto e timoroso degli adulti.

Un esordio narrativo dedicato alla memoria

Non avevo mai considerato la faccenda dell’appartenenza, non mi ero posto il problema. Si appartiene a un luogo, a una famiglia, al lavoro, agli amori, agli amici, agli ideali? O solo a sé stessi, ai propri pensieri, ai propri meschini interessi?

Arrivati al dunque, Aurelio non ha ancora una risposta all’“A cu’ appatteni?”, non l’avrà mai perché ha perso l’occasione di sentirsi famiglia. Un’energia mancante e un vuoto presente. Ma questo romanzo è una sospensione necessaria, prima di ripartire. Permettere a questi fantasmi di esistere ancora una volta è l’unico modo che ha a disposizione per andare avanti, «scomparire per farvi risorgere».

Raccoglievamo le more (acquista) è un romanzo aspro e struggente, che riaccende il bisogno di recuperare le proprie radici per ricostruire una storia universale, simbolo di rinascita. E per riaccendere la speranza, anche in tempi in cui la guerra sembra tornare minacciosa all’orizzonte.

È dedicato a chi è riuscito ad andare lontano, pur portando con sé i ricordi — anche i più dolorosi — di un tempo complesso e carico di sentimenti. A chi coltiva la memoria come fosse l’ultima preghiera della sera.

https://www.magmamag.it/la-memoria-che-inciampa-in-un-verbo-imperfetto/

“Kairos” di J. Erpenbeck

Il Dio dell’attimo fortunato. “Kairos” di J. Erpenbeck, ed. Sellerio

@ Agata Motta, 16 giugno 2025

Un senso di estenuante agonia pervade sin dall’inizio le pagine di Kairos di Jenny Erpenbeck, edito da Sellerio, romanzo colto, raffinato, complesso, vincitore dell’International Booker Prize 2024. Una storia d’amore nella Berlino est a ridosso della caduta del muro, questo in estrema sintesi il contenuto, ma un universo si muove dietro l’apparente semplicità dell’enunciato.

Il linguaggio è il primo elemento del romanzo che colpisce e spiazza perché si porge come elemento di rottura attraverso un progressivo disgregarsi e riorganizzarsi intorno a un flusso di coscienza che cede e si alterna alla più tranquillizzante stabilità della narrazione esterna. Continui slittamenti di punti di vista gettano luci diverse sugli episodi narrati, mentre la simultanea presenza dei dati oggettivi che si incorporano con naturalezza su quelli speculativi rendono la struttura robusta e a tratti destabilizzante. È insomma un linguaggio che, nell’efficace restituzione della traduzione di Ada Vigliani, si ingorga, esplode, diventa sontuoso o persino insopportabile con dialoghi che si sottraggono alla disciplina delle virgolette, espediente ormai comune ma non per questo meno seducente, o con periodi di intricata ipotassi che si arrendono alla fulminea rapidità delle frasi asciutte e mitragliate. Alcuni passaggi risultano magici in questo gioco complesso di parole, concetti e sensazioni, come il primo amplesso della coppia protagonista sulle note del Requiem di Mozart in un continuo rincorrersi di Eros e Thanatos che imprime già una fatale direzione alla passione appena sbocciata.

L’amore tra Hans, scrittore cinquantenne sposato e padre di un adolescente, e la giovane Katharina, solare studentessa in cerca della sua strada nel mondo, si espande arioso e travolgente, ma brevi allontanamenti e piccole aperture a diverse ipotesi di relazioni mettono a dura prova l’unione, della quale si celebrano ossessivamente anniversari e momenti topici, e neanche la tirannia della passione salverà la coppia dal tragico balletto delle accuse e delle recriminazioni, del dolore inflitto e subìto, del bisogno di punire e di ricevere il proprio castigo che assume a tratti una valenza strettamente sessuale, della consapevolezza della deriva segnata da reiterati brevi addii e da ripartenze sempre più lontane da qualsiasi vaga sembianza di felicità. I due personaggi sono diversissimi ma uniti nella carne e nella mente. Hans, che ha un passato che affonda le sue radici nella gioventù nazista e un percorso di disillusione politica e culturale, si butta a capofitto sulle giovani energie della ragazza di cui si rende amorevole pigmalione e persecutorio controllore. Il periodo di collaborazione alla Stasi sembra riverberarsi nel metodo di indagine utilizzato per analizzare il tradimento di Katharina, una specie di interrogatorio affidato a nastri che la ragazza dovrà ascoltare per fornire convincenti motivazioni al proprio agire. Katharina è disponibile alla vita e alle varie espressioni dell’amore, si lascia condurre in un’esperienza nuova di felicità da abitare, si lascia plasmare dalla forte personalità di un istruttore tanto eccezionale, si lascia catturare da quel corpo che le accende i vigili sensi, impara a guardare le opere d’arte e ad ascoltare la musica con i suoi occhi e le sue orecchie, ma non rinuncia alle proprie sacche di libertà e di esplorazione, il richiamo dell’altra parte del muro in lei ha valenze fisiche e metaforiche, com’è naturale che sia per la sua generazione. Il loro passato fluttua ed emerge di tanto in tanto in modo scomposto e disordinato ad ammonire che non è possibile essere ciò che si è senza ciò che siamo stati.

Inserita su uno sfondo neutro e anonimo, la narrazione sarebbe stata scontata e persino banale, non dissimile da tante altre storie di amore tossico sviscerate con perizia e certosino scavo psicologico, ma l’autrice ha collocato i suoi protagonisti dentro un’altra agonia, quella di un luogo simbolico del ventesimo secolo e di un intero sistema geopolitico e valoriale. Hans e Katharina non avrebbero potuto essere tali al di fuori di Berlino est, città della quale la Erpenbeck restituisce atmosfere decadenti e vive allo stesso tempo, Pian piano i due amanti si aggireranno su porzioni di città che stenteranno persino a riconoscere quando la luce o la condanna di un ovest opulento intento a cancellare le tracce di un passato scomodo da disinfettare dilagherà sugli spazi del loro amore calpestati dai passi frenetici dei turisti in cerca di oggetti da acquistare a poco prezzo come testimonianza del proprio passaggio nella grande storia. Il fantasma di una città, di un sistema chiuso e di un pensiero politico cammina al fianco della coppia, gli eventi esterni non possono non avere ripercussioni involontarie ma fortissime nel privato. Neanche fumo, caffè e spumante, i rituali del loro rapporto sembrano trovarvi più una giusta collocazione. Il cielo diviso di Christa Wolf, autrice alla quale sicuramente la Erpenbeck ha guardato, si riunisce ma non si compatta, non sono amalgamabili due azzurri tanto diversi, almeno non in tempi brevi e senza fare i conti con le ferite del passato. Il prologo e l’epilogo costituiscono infatti la cornice del dispiegarsi della memoria. Katharina, ormai sposata e lontana, non andrà al funerale del suo amante nonostante glielo abbia promesso, ma ascolterà la sua musica e aprirà gli scatoloni che contengono il passato di una coppia ma soprattutto di un popolo, di uno Stato, di un pensiero forte divenuto debole, di una fetta di storia che si apre ancora a diverse discussioni e interpretazioni.

Nell’insieme si avverte la cerebralità della grande narrativa tedesca ed è talvolta difficile seguire i percorsi tortuosi della scrittura che a tratti divaga e tracima in citazioni e riferimenti che abbassano l’asticella dell’attenzione. Ma un romanzo di grandi pretese deve sapere sfidare il suo lettore, educarlo ad un livello maggiore di concentrazione anche a costo di esigere uno sforzo aggiuntivo.

Benvenuto Kairos, dio dell’attimo fortunato, che tutti almeno una volta possano afferrare il tuo ricciolo e immergersi nel flusso inebriante delle vite potenziali che spesso non si riescono a scorgere nemmeno in piena luce.

Jenny Erpenbeck, Kairos, Sellerio editore, pp.393, 18.00 €

https://www.scriptandbooks.it/2025/06/16/il-dio-dellattimo-fortunato-kairos-di-j-erpenbeck-ed-sellerio/