Recensione di Lucia Accoto

Recensione di Lucia Accoto su Raccoglievamo le more
“La vita si spezza e si ricompone. Rimetterla in piedi costa fatica. I cocci avranno il nome del confine che passa tra il prima e il dopo. L’intervallo che definisce lo spazio del tempo misura la portata di luci e ombre. Disordine, ordine, compiutezza ed entusiasmo sono le fenditure tra una linea e un’altra lungo le quali prendono posto la rassegnazione e la rivalsa. Due poli opposti che non conoscono legami, che sono parole e opere di sudore e di sangue. Quando si frantumano gli anni più belli si fa sentire l’aria polare che ghiaccia il respiro rendendolo faticoso. L’instabilità comporta una sospensione che mette a soqquadro la spinta verso la normalità. I frammenti di una vita rotta da fatti che non hai potuto controllare nemmeno nelle circostanze in cui godevi di un minimo di autonomia si scagliano in un presente che è la somma di tutte le ore. Il passato lo conosci e il futuro lo temi. L’esistenza così sfilacciata esaurisce l’orizzonte, incrina le spalle e allontana la vista delle lapidi che scuriscono l’intraprendenza dell’ambizione.
In Raccoglievamo le more di Agata Motta conosci la storia di una famiglia che ha conosciuto le ferite in un’epoca in cui il fascismo impera e la guerra è vicina. Sicilia, anni Quaranta. I Vitale sono uniti, sono numerosi. Il loro è un guscio forte, almeno in apparenza. Poi, le cose cambiano anche per loro. I rapporti si incrinano e le aspettative di vita anche. Scoppia la Seconda Guerra mondiale investendo l’esistenza di tutti. I fatti che sono stati assorbiti da una quotidianità sbiadita e composta da schegge di piccole storie che attraversano il vissuto della famiglia proiettata verso la speranza.
Qualcuno, però, non sa più a chi appartiene. Adesso che anche l’ultima persiana della casa dei Vitale è stata chiusa, si ritrova spettatore della fine di un ciclo di storia.
Il romanzo ingoia il passato per superare l’inferno in cui il futuro deve, poi, orientarsi per forza per respirare La storia, un vero gioiello della narrativa, è l’immagine riflessa di vite che si ritrovano sparse come bambini alle giostre. La scrittura è affascinante, travolgente, vera. È l’esatto richiamo al mondo di fuori che straripa quando quello fatto di inchiostro è così pieno che vorresti solo essere uno dei personaggi così ben “pittati” che diventano tuoi amici, confidenti, compagni e fratelli”.
La mia recensione su:

Recensione su Magma Magazine di Serena Votano

MAGMA MAGAZINE
Eruzioni letteraria
La memoria che inciampa in un verbo imperfetto

«Raccoglievamo le more» di Agata Motta

7 minuti di lettura

“A cu’ appatteni?” è una domanda che, al Sud, viene posta per capire qual è la famiglia nella quale si è nati. Chi sono i genitori, o i nonni. Il cognome, di per sé, segna un’appartenenza: una casa in cui tornare. Illumina un’intera generazione, dall’ultimo nato al primo di cui si ha memoria, attraverso ramificazioni tortuose e, a volte, sussurrate come segreti scomodi e inconfessabili. È la domanda che viene fatta al protagonista di questo romanzo, l’attore Aurelio Vitale, che nel 2002 ritorna nella sua terra natia e osserva la sua casa svuotarsi degli arredi. Si siede al bar della piazza e il cameriere gli chiede, appunto, “A cu’ appatteni?”, “No sacciu” risponde.

Aurelio prova a riannodare il filo della storia della sua famiglia nella Sicilia degli anni ’40, dove l’Italia fascista e la guerra sono un presente drammatico per Rodolfo, Annamaria, Antonio, Emma, Palmina, la mamma Maria, il padre Giovanni, lo zio arciprete, la domestica e un maestro di musica. Ognuno con i suoi sogni, aspirazioni e opinioni politiche.

Raccoglievamo le more (edito da Kalós, 2025), esordio notevole di Agata Motta, è un romanzo corale in cui le voci dei personaggi si alternano, invitando il lettore nell’intimità di una casa che rappresenta le molte vite comuni negli anni della Seconda guerra mondiale, un periodo storico che infrange la giovinezza e imprigiona il presente.

E se ci abituassimo al male? Se cominciassimo a pensarlo come una cosa normale? Che strada imboccherà il genere umano e cosa significherà umanità in quest’era nuova in cui il sangue si potrà versare come vino dentro i calici panciuti dei potenti?

Agata Motta è una giornalista e scrittrice catanese, nonché docente di Lettere a Palermo. Dopo aver pubblicato testi teatrali e saggi, firma il suo primo romanzo, classificatosi nel 2017 tra i dodici inediti finalisti del Premio Neri Pozza.

Il puzzle di una famiglia nella Sicilia del fascismo

L’autrice ha scelto di dare voce a tutti i suoi personaggi – attraverso una prosa raffinata, quasi poetica, e al contempo cruda – senza eleggere un vero protagonista. Sono infatti i frammenti di queste microstorie, come tessere di un puzzle restituito dal passato, a ricomporre le paure e le speranze di un’altra epoca, di una famiglia e di una nazione intera.

Il prologo e l’epilogo di questo romanzo – dove a parlare è appunto Aurelio – mostrano la necessità di recuperare quella vita perduta, solo immaginata, ma tanto amata e dunque ricostruita. Aurelio, mentre osserva quella casa svuotarsi, sta in realtà vedendo sfumare l’ultima possibilità che ha di ricostruire quel passato e quegli affetti, una seconda pelle che, come il cognome, ti identifica e salva.

La chiave di questo romanzo si cela dietro l’imperfetto utilizzato nel titolo, un tempo verbale che rivela un senso di nostalgia verso quegli odori, sapori, abitudini, sogni, un bisogno di ricostruire una nuova identità. Un titolo che riesco il passato e apre una parentesi nel presente tortuoso – quello del romanzo, come quello che stiamo vivendo – restituendo ai piccoli personaggi di questa storia una vana possibilità di essere ancora bambini e gioire dell’inaspettato.

Raccoglievamo le more tra i cespugli spinosi e spesso c’era chi si graffiava fino a sanguinare, ma le sfide sono sfide e vinceva chi riempiva in meno tempo la tazza, piena, fino all’orlo. Ci disperdevamo su sentieri diversi e il primo che finiva dava l’avviso salendo sul muretto della chiesa sconsacrata a gridare la propria vittoria.

Motta racconta delle piccole sfide tra bambini che, anche in tempi di guerra, non si lasciano sfuggire l’occasioni di sfidarsi nella raccolta delle more. Un gesto che evoca il bisogno di strappare ancora un attimo di infanzia, goderselo fino alla fine, lontani dallo sguardo affranto e timoroso degli adulti.

Un esordio narrativo dedicato alla memoria

Non avevo mai considerato la faccenda dell’appartenenza, non mi ero posto il problema. Si appartiene a un luogo, a una famiglia, al lavoro, agli amori, agli amici, agli ideali? O solo a sé stessi, ai propri pensieri, ai propri meschini interessi?

Arrivati al dunque, Aurelio non ha ancora una risposta all’“A cu’ appatteni?”, non l’avrà mai perché ha perso l’occasione di sentirsi famiglia. Un’energia mancante e un vuoto presente. Ma questo romanzo è una sospensione necessaria, prima di ripartire. Permettere a questi fantasmi di esistere ancora una volta è l’unico modo che ha a disposizione per andare avanti, «scomparire per farvi risorgere».

Raccoglievamo le more (acquista) è un romanzo aspro e struggente, che riaccende il bisogno di recuperare le proprie radici per ricostruire una storia universale, simbolo di rinascita. E per riaccendere la speranza, anche in tempi in cui la guerra sembra tornare minacciosa all’orizzonte.

È dedicato a chi è riuscito ad andare lontano, pur portando con sé i ricordi — anche i più dolorosi — di un tempo complesso e carico di sentimenti. A chi coltiva la memoria come fosse l’ultima preghiera della sera.

https://www.magmamag.it/la-memoria-che-inciampa-in-un-verbo-imperfetto/

“Anime sperse”a cura di David Ferrante

David Ferrante (a cura di)

ANIME SPERSE

Storie di Fantasmi d’Abruzzo e Molise

A volte è un alito di vento tiepido, che arriva sul viso come una carezza. A volte un inspiegabile fruscio di carte; o passi che risuonano in una stanza vuota. In certi casi è la sensazione di riconoscere in una figura dai contorni sfumati qualcuno incontrato chissà quando e chissà dove; oppure si odono lamenti, voci confuse, invocazioni, grida provenire da un palazzo disabitato. Sono sensazioni forti, che turbano chi le prova; tanto più quando avvengono in prossimità di antichi edifici le cui pietre custodiscono leggende di amori disperati, di sofferenze inaudite, di crudeltà concepite da menti perverse. Tra quelle pietre corrose dal tempo sopravvivono le anime sperse. Sono anime inquiete, destinate a non trovare mai pace. Se si manifestano a chi ha provato un dolore analogo, accade un prodigio: un abbraccio che supera la barriera tra il possibile e l’impossibile.
Venti racconti, scritti da altrettanti autori, che hanno per protagoniste le
anime sperse che popolano le leggende e i ricordi delle genti d’Abruzzo e Molise. Vicende tenere, commoventi o inquietanti, a rammentarci che il mondo è più complesso e misterioso di quanto appaia.

Gli Autori: Fiorella Borin, Davide Camparsi, Maria Elena Cialente, Luigi De Rosa, Gabriele Di Camillo, Carla Di Girolamo, Laura Di Nicola, Carla Dolazza, David Ferrante, Nicola Lombardi, Valeria Masciantonio, Agata Motta, Chiara Negrini, Agnese Pavone, Gino Primavera, Federica Soprani, Maurizio Sorrentino, Luigi Spina, Alessandra Tucci, Lucia Vaccarella.


Copertina: Anime sperse (2024), di Alba Carafa

[ISBN-979-12-5988-266-0]

Pagg. 224 – € 16,00

https://www.edizionitabulafati.it/animesperse.htm

Eccomi con Vuoto a perdere in una nuova antologia a tema curata da David Ferrante. Editore Marco Solfanelli.

Agata Motta, ALTROVE, Tabula Fati Editore

Altrove
Esistono momenti nella vita in cui si avverte inestirpabile il bisogno di un “altrove” che somigli alla fuga, al sogno, al desiderio, alla salvezza. Ma la necessità di restare dove ci ha spinto una mano invisibile — non importa che si chiami destino imponderabile, scelta consapevole, convenzione sociale o ruolo assunto — può produrre esplosioni devastanti o sottili malesseri che rodono incessantemente. Altrove è il filo conduttore che lega la produzione drammaturgica, assai diversa per toni e motivi, di circa un decennio (1998/2009) di Agata Motta.
La Croce mette in scena una discesa agli inferi senza possibilità di redenzione sullo sfondo della problematica realtà delle “scuole a rischio”. La vittima designata diventa per un attimo carnefice e ciò segnerà radicalmente il destino di una donna votata al successo e quello di un ragazzo predestinato al male.
La seconda primavera si ispira ad un fatto di cronaca: l’adolescente Anna venne rinchiusa per disturbi nervosi in manicomio negli anni Quaranta, ma per un errore burocratico ai familiari giunse poco dopo la comunicazione del decesso della ragazza. Sulla nuda cronaca si è costruito l’ipotetico vissuto scaturito da un atroce scherzo del destino.
Viaggio nei tuoi occhi presenta tre modi diversi di essere e non-essere madri e sviscera alcune tematiche attuali — la gestione dei genitori affetti da demenza, le caparbie maternità tardive e l’uso distorto dei social — in una narrazione che sconfina nel surreale.
Donna felice narra di una cartomante che regala ai passanti speranze di felicità future, ma lentamente emergerà il tragico passato che ha sbriciolato le sue piccole certezze borghesi.

 

[ISBN-978-88-7475-839-5]

Pag. 160 – € 12,00

https://www.edizionitabulafati.it/altrove.htm

 

“Sea Paradise” di Eleonora Lombardo

Rubrica su TheBookAdvisor:Te lo dico in breve

“Sea Paradise” di Eleonora Lombardo: una distopia lucida e disincantata

Credere nella Società e nel Bene comune e assicurare il futuro alle prossime generazioni sono alcuni punti del protocollo motivazionale della Sea Paradise, una lussuosa nave da crociera, che lo Stato destina agli ultrasettantenni, sulla quale sarà possibile realizzare gratuitamente qualsiasi desiderio. Salire a bordo però significa anche essere consapevoli che potrebbe essere l’ultimo viaggio prima della fine, perché in questo mondo futuribile, votato alla tecnologia e all’efficienza, l’eliminazione degli improduttivi è un imperativo condiviso e ineludibile.

“Mi sono ritrovata dentro una poesia che è un luogo e un tempo. Deve essere da lì che veniamo noi vecchi, dalle parole che hanno significati sganciati dalla realtà, veniamo tutti dalla necessità dell’interpretazione, dalle immagini sfocate, dai riflessi, dall’ardire di una libertà di senso. Di una licenza poetica. Siamo pericolosissimi, noi che ci possiamo illuminare senza sprecare energia.”

Sea Paradise di Eleonora Lombardo, Sellerio editore, è un romanzo affascinante che propone una distopia lucida e disincantata che si porge con malinconica dolcezza, che offre con vaporosa leggerezza riflessioni profonde sulla vecchiaia, sul pudore riservato ai sentimenti forti, sul residuo senso di umanità destinato a naufragare nell’etica ipocrita di un’indispensabile selezione non esattamente naturale.

“Vecchi ovunque, provo pudore perché è la stessa cosa che vedranno in me, una vecchia senza traccia dell’immensità che la ha abitata.”
Elvira e Amanda sono due donne ancora fresche e per nulla sazie di vita che l’oltraggio anagrafico imprigiona nella categoria delle indesiderate e inutili per il giovane Stato he tiene le redini del potere, sono due inseparabili amiche che hanno fatto del rispetto reciproco un credo saldissimo.
L’intervento di Achille, personaggio chiave non a caso chiamato come l’eroe omerico amato dall’autrice, potrà forse modificare un copione già scritto e infinite volte interpretato.Bella lettura che applica il paradosso dello sviluppo sostenibile sugli esseri umani.

https://thebookadvisor.it/recensioni/te-lo-dico-in-breve/sea-paradise-di-eleonora-lombardo-una-distopia-lucida-e-disincantata/

“La ragazza di Savannah” di Romana Petri

Il viale che conduce alla fattoria è disseminato di pavoni. Una donna li scruta con avidità, sperando di scovarne uno che apra la coda per mostrare la propria magnifica ruota di colori. La ricerca della bellezza, a lei negata nel fisico, e della perfezione, invece concessale nell’arte, sembrano incarnarsi nell’animale da cui ossessivamente si è circondata, un simbolo di trascendenza e di immortalità da cui trarre gioia e conforto.  Flannery O’Connor fu una donna atipica, percorsa da una ricerca spirituale e da una vis polemica che resero la sua scrittura unica e difficilmente inquadrabile.

Leggere La ragazza di Savannah di Romana Petri – vincitore dell’Orbetello

 Book Prize 2025 – suscita come immediato effetto collaterale il desiderio di leggere o rileggere l’opera di questa imponente voce della letteratura americana del Novecento. Ciò è dovuto al lavoro condotto dalla Petri con sobrio equilibrio tra fonti e immaginazione per restituire azioni, pensieri, sogni, difficoltà, bizzarrie, parole della scrittrice americana, morta non ancora quarantenne con l’amara consapevolezza di non riuscire a completare il suo terzo romanzo. Se, invece, per un momento si provasse a dimenticarne il nome, la fama e il successo, se la osservassimo come una qualsiasi donna marchiata dalla malattia, ecco che emergerebbe una granitica volontà di vivere unita alla capacità di accettazione della malattia stessa, affiorerebbe una donna credente che abbraccia la sua croce e la ama con lo squisito affinamento della sensibilità prodotto dal dolore, esploderebbe l’impari lotta contro il tempo che lima i giorni riducendoli a briciole da raccattare, che limita l’orizzonte progettuale fino a ridurlo a una manciata di settimane o di giorni, che indica luoghi impossibili da raggiungere e chimere che solo altri potranno sognare. Sta anzitutto qui la potenza di questo romanzo che potrebbe essere dedicato a ogni creatura sofferente che non si arrende e che brilla minuscola ma gigantesca come una lucciola in una serata estiva.

Ciò premesso, Petri, con un linguaggio fluido anche quando si inerpica su tematiche filosofiche e teologiche, ricrea le condizioni di immedesimazione che le sono congeniali, le stesse che l’hanno fatta respirare nel Klondike di Jack London e volare nei cieli belligeranti di Antoine de Saint-Exupéry, e che la portano non tanto a scrivere del personaggio quanto a esserlo, ad abitarne la pelle, il cuore e la mente come se fossero i propri, perché forse un po’ lo sono davvero. Gli scrittori, almeno quelli di spessore, hanno un comune patrimonio emotivo nel quale riconoscersi e all’occorrenza possono scegliere camaleonticamente di trasformarsi dentro quella stupefacente zona della mente in cui l’essere di chi scrive coincide con l’essere di chi è oggetto di indagine. In questo territorio misterioso è persino possibile ipotizzare che usino lo stesso linguaggio e le stesse parole, in questo caso un’unica voce per due scrittrici diversissime che hanno fatto della scrittura una ragione di vita.

Ci sono momenti nel testo in cui però volutamente le personalità si scindono e le voci si separano, sono brevi sequenze segnate da un rapido passaggio al presente del tempo verbale. Qui Petri si allontana e osserva a distanza, rende cronaca il racconto, mette a fuoco dettagli che hanno bisogno di imparzialità e distacco, con uno scarto improvviso inquadra dall’esterno piccoli o grandi accadimenti, come ad avvisare il lettore che la realtà esiste al di fuori del punto di vista della protagonista, una realtà che non subisce le deformazioni inevitabilmente apportate dal suo particolarissimo sentire.

Sono tanti i personaggi con i quali la scrittrice O’ Connor entra in contatto, spesso attraverso incessanti relazioni epistolari, occasionali incontri o durature ospitalità, ma soprattutto ai genitori Petri riserva pagine magnifiche. Regina, madre che come un generale dirige la fattoria in cui Mary Flan è costretta a trascorrere la maggior parte del suo tempo, posa sul mondo uno sguardo diverso, quasi compensativo rispetto a quello della figlia, uno sguardo pragmatico, da donna energica costretta a prendere in mano le redini della famiglia e a dedicare la propria vita a una figlia della quale sostanzialmente non comprende l’opera letteraria, ma che ama senza indugiare in smancerie e che ammira per la sua determinazione e per la sua incredibile capacità di sopportazione. Ne è fiera e orgogliosa e prega di poter morire un attimo dopo di lei, non prima, perché comprende che senza il suo stabile accudimento la giovane donna talentuosa che ha partorito sarebbe perduta. Quella paterna è invece una figura dolce e comprensiva, l’affettuoso alleato presago dei futuri successi, destinato però a scomparire presto per la malattia che poi apparterrà anche alla figlia, lasciando dolore e nostalgia. Spontaneo ravvisare in lui il ricordo del Ciclone, l’amatissimo padre dell’autrice, così, per quelle strane coincidenze che talvolta la vita porge, i sentimenti delle due donne possono mescolarsi e diventare autentici al di là della finzione narrativa, ma con effetti diversi: O’Connor sceglie di non parlarne per proteggersi dal dolore, Petri gli dedica un intero, magnifico romanzo per elaborarlo.

Il fil rouge che attraversa da cima a fondo il testo è comunque il rapporto con il divino vissuto da Flannery O’Connor in maniera del tutto anticonvenzionale e riversato nelle sue pagine con l’interesse dimostrato per personaggi balordi che si scontrano contro il richiamo della redenzione. La presenza della violenza dentro la quale trovare la necessità della fede, le situazioni scomode che non potevano soddisfare i benpensanti creano una spaccatura nel mondo cattolico di cui lei vuole essere interprete e protagonista. Sin dall’infanzia Mary Flan aveva tentato di instaurare un rapporto diretto con Dio, la sequenza iniziale del tentativo di prendere a pugni l’angelo custode per convincerlo a lasciarla in pace ne è una prima gustosa dimostrazione, e per tutto il corso della sua esistenza quel rapporto esclusivo, fatto anche di preghiere inventate ma cucite addosso alle proprie personalissime esigenze, ha caratterizzato l’opera di una scrittrice cattolica desiderosa “di imparare a usare le parole per raccontare Dio”. L’amore terreno, da cui per qualche tempo fu ossessionata, si trasformava inesorabilmente in amicizia letteraria e da quella negazione traeva ulteriore spinta a concentrarsi su Dio, vero fulcro e motore della sua esistenza. Una vita che procedeva dunque per sottrazione, di affetti, di passione amorosa, di salute, di indipendenza, ma che da queste assenze ricavava pienezza e ispirazione. Ispirazione che arrivava come un’onda da arginare per darle la forma voluta attraverso un maniacale lavoro di labor limae, di trascrizioni che la inducevano a indugiare per mesi su uno stesso racconto o per anni su un romanzo. La ricompensa finale fu la perfezione, cercata e raggiunta nel modo da lei accarezzato e ambìto: la propria ruota di pavone da consegnare ai posteri.

https://thebookadvisor.it/recensioni/il-tempo-delle-parole/la-ragazza-di-savannah-di-romana-petri-il-libro-vincitore-dellorbetello-book-prize-2025/

“L’isola e il tempo” di Claudia Lanteri

Il tempo delle parole

“L’isola e il tempo” di Claudia Lanteri: un romanzo d’esordio di rara potenza

Si può incespicare sui ricordi come su un sasso in un terreno accidentato e, se il passo è incerto, si rischia di inciampare ancora e ancora una volta. La memoria tradisce, aspetta al varco, tende tranelli, fa i capricci, si ripresenta con abiti nuovi, insiste con il suo bel teatrino di comparse sempre uguali che appaiono diverse a seconda del punto di osservazione. La memoria, che è riproposta di un tempo andato, talvolta si rende presente e allora non basta allontanarla con una mano perché bisogna prima o poi farci i conti.

Con L’isola e il tempo Claudia Lanteri, libraia di professione, consegna un insolito romanzo d’esordio di rara potenza dentro il quale scendere in apnea, come il protagonista Nonò/Nofriu, libero di respirare solo quando immerso nella silenziosa e oscura profondità marina.

L’isola è un lembo di terra arida all’estremità meridionale della Sicilia. Sterpaglie, capperi, vigneti su cui sudare alla manciata di gente che la popola sono più cari del mare. L’immensa distesa azzurra va guardata da lontano, con diffidenza, o solcata da esperti pescatori che ne conoscono insidie e minacce. Da quelle lontananze pregne di mistero, in una giornata come tante, alla fine degli anni ’50 giunge un barchino con a bordo un uomo disperato e la giovane moglie ormai morta. Un incendio ha distrutto la nave, di cui lui era lo skipper, che portava a bordo anche la facoltosa famiglia Domoculta. Il paese si stringe intorno al suo dolore e la malcelata curiosità si insinua tra le pieghe di una storia che commuove alcuni e insospettisce altri.

Nonò è tra i sospettosi, quel vedovo affranto non gliela racconta giusta, così avvia un’indagine privata nella quale tenta di coinvolgere il professore Dalmasso, che paziente lo sta iniziando ai segreti dell’entomologia e della botanica. Sguardi allusivi, frasi lasciate in sospeso, ricerche lacunose sono cibo succulento per la sua personale fame di conoscenza.  Nonò scalpita, non crede alla versione ufficiale, prova a percorrere sentieri non battuti, senza trovare le prove per ribaltare quella verità che a lui puzza di menzogna. Nonò, il ragazzino intelligente e curioso, si ritrova così adulto, Nofriu, un uomo considerato bizzarro e un po’ svitato, mai pago di raccontare quella storia che ha spezzato la sua adolescenza con un prima e un dopo barchino. Il mondo aperto delle possibilità si ripiega in quello chiuso del già compiuto.
E allora non resta che rassettare la piccola casa, raccontare più e più volte a conoscenti o a occasionali ascoltatori quella storia lontana ma non appannata, in un continuo andirivieni nel tempo alla ricerca di ordine e chiarezza. Ma non ci saranno orecchie complici per lui, solo distratta attenzione o peggio scherno, a chi potrebbe interessare una storia che puzza di vecchio raccontata da un uomo roso dalla solitudine? E della verità, nascosta tra le viscere di quel mare portentoso e infido, cosa dovrebbe farci se non incastrarla nella memoria fino a farla sanguinare? Una scatola da custodire è l’unico filo che lo lega al passato e l’unico ponte verso un futuro che non potrà compiersi, ma che non impedisce l’attesa e non uccide la speranza.
L’autrice, indossando il punto di vista del narratore come lenti sfocate e deformanti, riesce a far viaggiare lo spettatore tra ricordi che ricostruiscono fatti e ripropongono manciate di dettagli sempre più fitti e precisi fino a fornire la soluzione dell’enigma, che in realtà, persino per il lettore, è meno importante dell’atto stesso della reiterata narrazione. Ed è inoltre una soluzione che non segna l’appagamento del protagonista, per il quale l’assenza di giustizia è un dramma della coscienza, il delitto senza castigo non può pacificare giornate che sarebbero sempre le stesse se non fossero attraversate dal fuoco sempre acceso del ricordo. Dentro quel tempo teso come un elastico, pronto a distendersi per poi allentarsi e tornare allo stato iniziale, Lanteri inserisce a spizzichi e bocconi paesaggi e personaggi, i primi riprodotti con frasi appoggiate come colore raggrumato e rugoso, i secondi presentati nel loro quotidiano agire che suona con le note aspre della fatica e di sentimenti mai esibiti o con quelle stonate della noncuranza e della falsità.
Ed ecco la madre, Angelina, ligia al dovere sino all’esasperazione, capace di amare la sua famiglia di un affetto nascosto ma vivo e pervicace, il fratello, Filippo, che sa dispensare tempo e attenzione, Tina, la donna della bottega, rassicurante e protettiva, il maresciallo Bonomo, intento più a liberarsi di un caso fastidioso che alla ricerca della verità, il vedovo Bruno Surico, compagno di vita di una bella donna insolitamente dedita alla scrittura, Mattia, la bimba superstite che illanguidisce il cuore del ragazzo, la vecchia signorina Biancamaria Domoculta, che piomba come un rapace a sottrarre la nipotina e a portar via con sé la gioia di Nonò. E infine il paese, fatto di visi, gesti e voci che si protendono come tentacoli di un unico gigantesco polpo.
Nel periodare proteiforme e magnetico dell’autrice è gradevole perdersi e lasciarsi avviluppare. Lanteri usa una lingua scagliosa e languida, arruffata e distesa, una lingua capace di contenere opposti e porgere sollecitazioni, nutrita qua e là di un sapido lessico dialettale che non confonde ma orienta in luoghi che non potrebbero prescindere da esso.
È pensabile che un episodio lontano possa modificare la vita di un ragazzo fino a deformarla e a renderla altro da ciò che forse sarebbe stata? Su quell’isola in cui l’imprevisto non è previsto tutto è possibile anche infilarsi dentro un’ossessione senza tregua, in un racconto che a furia di essere ripetuto assume gli incantevoli connotati del mito.

Presentazione 18/09/2025 a Piazzetta Bagnasco

“Raccoglievamo le more”, l’esordio letterario di Agata Motta, si presenta giovedì 18 settembre in piazzetta Bagnasco

di Press Service | 14/09/2025

È ambientato nella Sicilia degli anni Quaranta, regalando immagini che si fanno sempre più vivide, parlanti, accompagnando, attraverso una narrazione puntuale, precisa che restituisce le intenzioni, gli umori, i pensieri di chi si alterna sulla scena. Un universo di personaggi ruota attorno alla famiglia Vitale in un’epoca in cui il fascismo impera e la guerra è vicina.

S’intitola “Raccoglievamo le more”, il romanzo d’esordio della scrittrice catanese Agata Motta che verrà presentato alle 18 di giovedì 18 settembre in piazzetta Bagnasco. A dialogare con l’autrice sarà Gilda Sciortino.

Il libro

A cu’ appatteni? È questa la domanda che Aurelio si sente rivolgere dal cameriere del bar sulla piazza grande del paese. Già, a chi appartiene? Adesso che anche l’ultima persiana della casa dei Vitale è stata chiusa, lui si ritrova spettatore della fine di un ciclo. Forse, solo ripercorrendo la storia dal principio potrà scoprire da dove viene per ricominciare. Sicilia, anni Quaranta. Rodolfo, Annamaria, Antonio, Emma, Palmina, la mamma Maria, il padre Giovanni, lo zio arciprete, la domestica, il maestro di musica e così via, pagina dopo pagina, si presentano al lettore senza filtri, senza intermediazioni. Il guscio protettivo degli affetti in cui ogni eco giunge attutita comincia a incrinarsi. Il ritmo incalza. Il conflitto esplode e il giovane Antonio ne diviene l’attento cronista, mentre la violenza investe le vite di tutti, esistenze sfilacciate tenute insieme da un’abile regia che assembla frammenti di microstorie a tinte forti spesso attraversate dal soffio tiepido della speranza. Singoli pezzi che nel corso della lettura si ricompongono come in un puzzle dando forma al vissuto di un uomo, di una famiglia e di un paese intero.

L’autrice

Agata Motta (Catania, 1966), giornalista e scrittrice, insegna Lettere a Palermo. Ha pubblicato la raccolta di testi teatrali Altrove (Tabula Fati), diversi racconti in antologie a tema e il saggio sul cinema fascista Cinema in camicia nera (Solfanelli). I suoi testi sono stati messi in scena in alcuni teatri italiani ottenendo riconoscimenti e premi. Ha collaborato a lungo con quotidiani e periodici, attualmente cura il suo blog personale di cultura e spettacolo (www.agatamotta.it) e scrive per le testate online “Scriptandbooks” e “Articolo21”. Raccoglievamo le more, che nel 2017 si è classificato tra i dodici inediti finalisti del Premio Neri Pozza, è il suo primo romanzo.

https://www.balarm.it/eventi/agata-motta-esordisce-con-raccoglievamo-le-more-il-romanzo-in-piazzetta-bagnasco-a-palermo-140689

https://www.blogsicilia.it/comunicati-stampa/raccoglievamo-le-more-lesordio-letterario-di-agata-motta-si-presenta-giovedi-18-settembre-in-piazzetta-bagnasco/1178020/

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