Recensione di Lucia Accoto

Recensione di Lucia Accoto su Raccoglievamo le more
“La vita si spezza e si ricompone. Rimetterla in piedi costa fatica. I cocci avranno il nome del confine che passa tra il prima e il dopo. L’intervallo che definisce lo spazio del tempo misura la portata di luci e ombre. Disordine, ordine, compiutezza ed entusiasmo sono le fenditure tra una linea e un’altra lungo le quali prendono posto la rassegnazione e la rivalsa. Due poli opposti che non conoscono legami, che sono parole e opere di sudore e di sangue. Quando si frantumano gli anni più belli si fa sentire l’aria polare che ghiaccia il respiro rendendolo faticoso. L’instabilità comporta una sospensione che mette a soqquadro la spinta verso la normalità. I frammenti di una vita rotta da fatti che non hai potuto controllare nemmeno nelle circostanze in cui godevi di un minimo di autonomia si scagliano in un presente che è la somma di tutte le ore. Il passato lo conosci e il futuro lo temi. L’esistenza così sfilacciata esaurisce l’orizzonte, incrina le spalle e allontana la vista delle lapidi che scuriscono l’intraprendenza dell’ambizione.
In Raccoglievamo le more di Agata Motta conosci la storia di una famiglia che ha conosciuto le ferite in un’epoca in cui il fascismo impera e la guerra è vicina. Sicilia, anni Quaranta. I Vitale sono uniti, sono numerosi. Il loro è un guscio forte, almeno in apparenza. Poi, le cose cambiano anche per loro. I rapporti si incrinano e le aspettative di vita anche. Scoppia la Seconda Guerra mondiale investendo l’esistenza di tutti. I fatti che sono stati assorbiti da una quotidianità sbiadita e composta da schegge di piccole storie che attraversano il vissuto della famiglia proiettata verso la speranza.
Qualcuno, però, non sa più a chi appartiene. Adesso che anche l’ultima persiana della casa dei Vitale è stata chiusa, si ritrova spettatore della fine di un ciclo di storia.
Il romanzo ingoia il passato per superare l’inferno in cui il futuro deve, poi, orientarsi per forza per respirare La storia, un vero gioiello della narrativa, è l’immagine riflessa di vite che si ritrovano sparse come bambini alle giostre. La scrittura è affascinante, travolgente, vera. È l’esatto richiamo al mondo di fuori che straripa quando quello fatto di inchiostro è così pieno che vorresti solo essere uno dei personaggi così ben “pittati” che diventano tuoi amici, confidenti, compagni e fratelli”.
La mia recensione su:

Recensione su Magma Magazine di Serena Votano

MAGMA MAGAZINE
Eruzioni letteraria
La memoria che inciampa in un verbo imperfetto

«Raccoglievamo le more» di Agata Motta

7 minuti di lettura

“A cu’ appatteni?” è una domanda che, al Sud, viene posta per capire qual è la famiglia nella quale si è nati. Chi sono i genitori, o i nonni. Il cognome, di per sé, segna un’appartenenza: una casa in cui tornare. Illumina un’intera generazione, dall’ultimo nato al primo di cui si ha memoria, attraverso ramificazioni tortuose e, a volte, sussurrate come segreti scomodi e inconfessabili. È la domanda che viene fatta al protagonista di questo romanzo, l’attore Aurelio Vitale, che nel 2002 ritorna nella sua terra natia e osserva la sua casa svuotarsi degli arredi. Si siede al bar della piazza e il cameriere gli chiede, appunto, “A cu’ appatteni?”, “No sacciu” risponde.

Aurelio prova a riannodare il filo della storia della sua famiglia nella Sicilia degli anni ’40, dove l’Italia fascista e la guerra sono un presente drammatico per Rodolfo, Annamaria, Antonio, Emma, Palmina, la mamma Maria, il padre Giovanni, lo zio arciprete, la domestica e un maestro di musica. Ognuno con i suoi sogni, aspirazioni e opinioni politiche.

Raccoglievamo le more (edito da Kalós, 2025), esordio notevole di Agata Motta, è un romanzo corale in cui le voci dei personaggi si alternano, invitando il lettore nell’intimità di una casa che rappresenta le molte vite comuni negli anni della Seconda guerra mondiale, un periodo storico che infrange la giovinezza e imprigiona il presente.

E se ci abituassimo al male? Se cominciassimo a pensarlo come una cosa normale? Che strada imboccherà il genere umano e cosa significherà umanità in quest’era nuova in cui il sangue si potrà versare come vino dentro i calici panciuti dei potenti?

Agata Motta è una giornalista e scrittrice catanese, nonché docente di Lettere a Palermo. Dopo aver pubblicato testi teatrali e saggi, firma il suo primo romanzo, classificatosi nel 2017 tra i dodici inediti finalisti del Premio Neri Pozza.

Il puzzle di una famiglia nella Sicilia del fascismo

L’autrice ha scelto di dare voce a tutti i suoi personaggi – attraverso una prosa raffinata, quasi poetica, e al contempo cruda – senza eleggere un vero protagonista. Sono infatti i frammenti di queste microstorie, come tessere di un puzzle restituito dal passato, a ricomporre le paure e le speranze di un’altra epoca, di una famiglia e di una nazione intera.

Il prologo e l’epilogo di questo romanzo – dove a parlare è appunto Aurelio – mostrano la necessità di recuperare quella vita perduta, solo immaginata, ma tanto amata e dunque ricostruita. Aurelio, mentre osserva quella casa svuotarsi, sta in realtà vedendo sfumare l’ultima possibilità che ha di ricostruire quel passato e quegli affetti, una seconda pelle che, come il cognome, ti identifica e salva.

La chiave di questo romanzo si cela dietro l’imperfetto utilizzato nel titolo, un tempo verbale che rivela un senso di nostalgia verso quegli odori, sapori, abitudini, sogni, un bisogno di ricostruire una nuova identità. Un titolo che riesco il passato e apre una parentesi nel presente tortuoso – quello del romanzo, come quello che stiamo vivendo – restituendo ai piccoli personaggi di questa storia una vana possibilità di essere ancora bambini e gioire dell’inaspettato.

Raccoglievamo le more tra i cespugli spinosi e spesso c’era chi si graffiava fino a sanguinare, ma le sfide sono sfide e vinceva chi riempiva in meno tempo la tazza, piena, fino all’orlo. Ci disperdevamo su sentieri diversi e il primo che finiva dava l’avviso salendo sul muretto della chiesa sconsacrata a gridare la propria vittoria.

Motta racconta delle piccole sfide tra bambini che, anche in tempi di guerra, non si lasciano sfuggire l’occasioni di sfidarsi nella raccolta delle more. Un gesto che evoca il bisogno di strappare ancora un attimo di infanzia, goderselo fino alla fine, lontani dallo sguardo affranto e timoroso degli adulti.

Un esordio narrativo dedicato alla memoria

Non avevo mai considerato la faccenda dell’appartenenza, non mi ero posto il problema. Si appartiene a un luogo, a una famiglia, al lavoro, agli amori, agli amici, agli ideali? O solo a sé stessi, ai propri pensieri, ai propri meschini interessi?

Arrivati al dunque, Aurelio non ha ancora una risposta all’“A cu’ appatteni?”, non l’avrà mai perché ha perso l’occasione di sentirsi famiglia. Un’energia mancante e un vuoto presente. Ma questo romanzo è una sospensione necessaria, prima di ripartire. Permettere a questi fantasmi di esistere ancora una volta è l’unico modo che ha a disposizione per andare avanti, «scomparire per farvi risorgere».

Raccoglievamo le more (acquista) è un romanzo aspro e struggente, che riaccende il bisogno di recuperare le proprie radici per ricostruire una storia universale, simbolo di rinascita. E per riaccendere la speranza, anche in tempi in cui la guerra sembra tornare minacciosa all’orizzonte.

È dedicato a chi è riuscito ad andare lontano, pur portando con sé i ricordi — anche i più dolorosi — di un tempo complesso e carico di sentimenti. A chi coltiva la memoria come fosse l’ultima preghiera della sera.

https://www.magmamag.it/la-memoria-che-inciampa-in-un-verbo-imperfetto/

“Anime sperse”a cura di David Ferrante

David Ferrante (a cura di)

ANIME SPERSE

Storie di Fantasmi d’Abruzzo e Molise

A volte è un alito di vento tiepido, che arriva sul viso come una carezza. A volte un inspiegabile fruscio di carte; o passi che risuonano in una stanza vuota. In certi casi è la sensazione di riconoscere in una figura dai contorni sfumati qualcuno incontrato chissà quando e chissà dove; oppure si odono lamenti, voci confuse, invocazioni, grida provenire da un palazzo disabitato. Sono sensazioni forti, che turbano chi le prova; tanto più quando avvengono in prossimità di antichi edifici le cui pietre custodiscono leggende di amori disperati, di sofferenze inaudite, di crudeltà concepite da menti perverse. Tra quelle pietre corrose dal tempo sopravvivono le anime sperse. Sono anime inquiete, destinate a non trovare mai pace. Se si manifestano a chi ha provato un dolore analogo, accade un prodigio: un abbraccio che supera la barriera tra il possibile e l’impossibile.
Venti racconti, scritti da altrettanti autori, che hanno per protagoniste le
anime sperse che popolano le leggende e i ricordi delle genti d’Abruzzo e Molise. Vicende tenere, commoventi o inquietanti, a rammentarci che il mondo è più complesso e misterioso di quanto appaia.

Gli Autori: Fiorella Borin, Davide Camparsi, Maria Elena Cialente, Luigi De Rosa, Gabriele Di Camillo, Carla Di Girolamo, Laura Di Nicola, Carla Dolazza, David Ferrante, Nicola Lombardi, Valeria Masciantonio, Agata Motta, Chiara Negrini, Agnese Pavone, Gino Primavera, Federica Soprani, Maurizio Sorrentino, Luigi Spina, Alessandra Tucci, Lucia Vaccarella.


Copertina: Anime sperse (2024), di Alba Carafa

[ISBN-979-12-5988-266-0]

Pagg. 224 – € 16,00

https://www.edizionitabulafati.it/animesperse.htm

Eccomi con Vuoto a perdere in una nuova antologia a tema curata da David Ferrante. Editore Marco Solfanelli.

Agata Motta, ALTROVE, Tabula Fati Editore

Altrove
Esistono momenti nella vita in cui si avverte inestirpabile il bisogno di un “altrove” che somigli alla fuga, al sogno, al desiderio, alla salvezza. Ma la necessità di restare dove ci ha spinto una mano invisibile — non importa che si chiami destino imponderabile, scelta consapevole, convenzione sociale o ruolo assunto — può produrre esplosioni devastanti o sottili malesseri che rodono incessantemente. Altrove è il filo conduttore che lega la produzione drammaturgica, assai diversa per toni e motivi, di circa un decennio (1998/2009) di Agata Motta.
La Croce mette in scena una discesa agli inferi senza possibilità di redenzione sullo sfondo della problematica realtà delle “scuole a rischio”. La vittima designata diventa per un attimo carnefice e ciò segnerà radicalmente il destino di una donna votata al successo e quello di un ragazzo predestinato al male.
La seconda primavera si ispira ad un fatto di cronaca: l’adolescente Anna venne rinchiusa per disturbi nervosi in manicomio negli anni Quaranta, ma per un errore burocratico ai familiari giunse poco dopo la comunicazione del decesso della ragazza. Sulla nuda cronaca si è costruito l’ipotetico vissuto scaturito da un atroce scherzo del destino.
Viaggio nei tuoi occhi presenta tre modi diversi di essere e non-essere madri e sviscera alcune tematiche attuali — la gestione dei genitori affetti da demenza, le caparbie maternità tardive e l’uso distorto dei social — in una narrazione che sconfina nel surreale.
Donna felice narra di una cartomante che regala ai passanti speranze di felicità future, ma lentamente emergerà il tragico passato che ha sbriciolato le sue piccole certezze borghesi.

 

[ISBN-978-88-7475-839-5]

Pag. 160 – € 12,00

https://www.edizionitabulafati.it/altrove.htm

 

“La Fabariota” di Anna Di Mauro

La Fabariota di Anna Di Mauro

@Agata Motta, 13 luglio 2025

Chi non si è mai ritrovato a scrivere qualche pagina di diario per fissare un ricordo, per fare chiarezza sui propri tumulti interiori, per analizzare persone e situazioni? Anna Di Mauro nell’originale e trascinante romanzo La Fabariota, Carthago edizioni, inserisce questa modalità narrativa non tanto o non soltanto per restituire dignità letteraria a un genere poco frequentato ma soprattutto per un bisogno di esplorazione della scrittura in quanto tale, la scrittura che è “luce feconda che non si spegne mai”, quella che salva e monda, quella cui aggrapparsi nei momenti di sconforto e di disperazione, quella cui si affidano umori e sapori di una vita spesso insufficiente a contenere gli sconfinamenti dello spirito. Sì, perché la dualità insita nell’uomo, intesa come conflitto tra ragione e sentimento o come compresenza di corpo e anima, è ben presente nel testo e ne costituisce uno dei tratti caratterizzanti.

Abbiamo dunque un Osservatore celeste, un tempo umano e dotato di chiaroveggenza, che viene affiancato a una giovane donna in piena crisi sentimentale e professionale, per contenerne gli impulsi suicidari o semplicemente per raddrizzare il timone di una perigliosa navigazione attraverso una singolare forma di “assistenza empatica”. Non può materialmente intervenire, quindi si danna e si dispera o cerca di stemperare la tensione con piglio ironico. Scrive un diario per “registrare fedelmente il tempo trascorso con la sua cavia”. Un angelo custode non ancora del tutto maturo per il suo compito che si attrezza culturalmente rimpinzandosi di libri, un angelo custode simpatico nella sua imperfezione che usa un linguaggio ampolloso e se ne compiace come se le esuberanze stilistiche, le arditezze lessicali, le ridondanze aggettivali potessero contribuire all’accelerazione del suo percorso di uscita dalla zona grigia in cui si trova. La finalità del suo diario è pertanto di perlustrazione non solo della creatura sotto la sua tutela ma anche di se stessa (perché in realtà di un’osservatrice si tratta e non è un caso l’attenzione maggiore riservata al “femminile”) e del proprio livello di affinamento.

Ed ecco la protagonista terrestre, Alessia Alibrandi, archeologa che tenta di ricostruire la storia dei Sicani e di dimostrare come questa popolazione abbia avuto rapporti con la civiltà minoica. Durante la sua caparbia ricerca, ostacolata da ruspanti intimidazioni mafiose, si imbatte però in un’affascinante leggenda legata alla figura della Fabariota (la donna di Favara, la prima “fimmina scrittora”) che in epoche remote scriveva a uso e consumo delle donne che andavano a consultarla nel suo antro misterioso. Che non sia solo leggenda sarà chiaro sin dall’inizio, perché la grottesca rappresentazione al teatro Valle (momento iniziale e conclusivo della vicenda che assume pertanto un andamento circolare) ha per oggetto proprio il contenuto dei manoscritti ritrovati. Anche lei scrive un diario, ma con finalità inconsciamente terapeutica. “Pochi sanno ascoltare veramente”, afferma Alessia, “Invece la pagina riceve la confidenza docilmente. È rispettosa”. La paralisi della volontà – che tanto la avvicina allo sveviano Zeno Cosini – la depressione, i conflitti con le figure parentali pian piano emergono, prendono forma e ricevono voce, il meccanismo della terapia psicanalitica viene affidato alla scrittura. Anche il linguaggio di Alessia non disdegna certe raffinatezze e magniloquenze, anzi sembra quasi che nei diari prenda corpo uno stile che deliberatamente si contrappone a quello più fluido, incalzante, a tratti fortemente paratattico della narrazione onnisciente, nella quale prevale il punto di vista della protagonista cui si affiancano le incursioni dirette dell’Osservatore celeste che giudica, svela le menzogne autoassolutorie della sua pupilla, freme nell’impossibilità di deviare il corso degli eventi perché il libero arbitrio, facoltà umana incontestabile, deve comunque essere garantito.

L’autrice insomma gioca con le molteplici possibilità espressive, se ne avverte l’ironia pungente e il tangibile divertimento a conferma di quanto, al di là dell’affasciante storia e dei tanti personaggi tratteggiati con finezza, sia proprio alla scrittura che dedica la sua maggiore cura. Una diffusa leggerezza permea le pagine quasi a voler dimostrare che anche le tematiche più serie e dolorose possono essere filtrate da un intelligente distacco capace talvolta di scovarne il lato comico. E risulta spontaneo intravedere il suo sorriso sornione dietro le parole dell’Osservatore celeste che in fondo, pur avendo una sua identità che si svelerà solo alla fine, non è pretestuoso considerare un alter ego, così come è semplice ipotizzare che nei luoghi teatro delle azioni – Roma, Agrigento, Favara, Sperlonga, Venezia – abbia seminato pezzi del proprio cuore.
Ambientato negli anni Sessanta – riconoscibili grazie ad accenni politici quali la presidenza di J.F. Kennedy ma soprattutto attraverso i riferimenti cinematografici, dalla morte di Marylin alla via Veneto delle celebrità – il romanzo è intriso di riferimenti letterari, filosofici e artistici che costituiscono l’ossatura della formazione umana e culturale dell’autrice, probabili stelle polari della sua visione della vita. Sfilano così sotto gli occhi del lettore Pirandello nella moltiplicazione del proprio sé, nella taciuta pazzia di zia Tecla e nel concetto di famiglia trappola, Freud nelle continue tessiture sui sogni, Sartre nella nausea esistenziale, Kierkegaard nel necessario dramma della libertà di scelta, e ancora Marx, Dostoevskij, Dante, Sciascia, Vittorini, Caravaggio, Modigliani e altri ancora, una polifonia di rimandi e citazioni cui Di Mauro dà sostanza in quanto sostanza di una vita di studi e riflessioni.

I personaggi, i cui nomi e cognomi sono spesso rivelatori – Alibrandi, ali per volare, brando per combattere; Narcisi, il bellimbusto capace di amare solo se stesso – vengono talvolta individuati con epiteti temporaneamente calzanti allo stato d’animo e alla situazione. Attraverso i loro vissuti l’autrice accende i riflettori sulle grandi tematiche universali come la malattia, la morte, l’immortalità dell’anima, l’amore, la memoria, le radici. Su tutto si distende l’ala instancabile del tempo sovrano, che sa essere anche “nemico e ingannatore”. Gli scavi ne sviscerano i segreti per restituirli al presente e al presente giungono le parole intessute dalla Fabariota, parole tese a consolare e sostenere un universo femminile da sempre afflitto.

La consapevolezza sarà l’attrezzo fornito dall’Osservatore celeste all’incespicante e titubante Alessia, la consapevolezza dei propri bisogni, delle proprie emozioni, dei propri conflitti, la consapevolezza dell’importanza del passato, indispensabile a chi, come lei, vi scava dentro per mestiere, e infine la capacità di distinguere “ciò che fa star bene da ciò che fa star male”, un’arte che solo chi sa vivere pienamente possiede.

La Fabariota
Anna Di Mauro
Carthago edizioni
pp.298
20,00 €

https://www.scriptandbooks.it/2025/07/13/la-fabariota-di-anna-di-mauro/

“Kairos” di J. Erpenbeck

Il Dio dell’attimo fortunato. “Kairos” di J. Erpenbeck, ed. Sellerio

@ Agata Motta, 16 giugno 2025

Un senso di estenuante agonia pervade sin dall’inizio le pagine di Kairos di Jenny Erpenbeck, edito da Sellerio, romanzo colto, raffinato, complesso, vincitore dell’International Booker Prize 2024. Una storia d’amore nella Berlino est a ridosso della caduta del muro, questo in estrema sintesi il contenuto, ma un universo si muove dietro l’apparente semplicità dell’enunciato.

Il linguaggio è il primo elemento del romanzo che colpisce e spiazza perché si porge come elemento di rottura attraverso un progressivo disgregarsi e riorganizzarsi intorno a un flusso di coscienza che cede e si alterna alla più tranquillizzante stabilità della narrazione esterna. Continui slittamenti di punti di vista gettano luci diverse sugli episodi narrati, mentre la simultanea presenza dei dati oggettivi che si incorporano con naturalezza su quelli speculativi rendono la struttura robusta e a tratti destabilizzante. È insomma un linguaggio che, nell’efficace restituzione della traduzione di Ada Vigliani, si ingorga, esplode, diventa sontuoso o persino insopportabile con dialoghi che si sottraggono alla disciplina delle virgolette, espediente ormai comune ma non per questo meno seducente, o con periodi di intricata ipotassi che si arrendono alla fulminea rapidità delle frasi asciutte e mitragliate. Alcuni passaggi risultano magici in questo gioco complesso di parole, concetti e sensazioni, come il primo amplesso della coppia protagonista sulle note del Requiem di Mozart in un continuo rincorrersi di Eros e Thanatos che imprime già una fatale direzione alla passione appena sbocciata.

L’amore tra Hans, scrittore cinquantenne sposato e padre di un adolescente, e la giovane Katharina, solare studentessa in cerca della sua strada nel mondo, si espande arioso e travolgente, ma brevi allontanamenti e piccole aperture a diverse ipotesi di relazioni mettono a dura prova l’unione, della quale si celebrano ossessivamente anniversari e momenti topici, e neanche la tirannia della passione salverà la coppia dal tragico balletto delle accuse e delle recriminazioni, del dolore inflitto e subìto, del bisogno di punire e di ricevere il proprio castigo che assume a tratti una valenza strettamente sessuale, della consapevolezza della deriva segnata da reiterati brevi addii e da ripartenze sempre più lontane da qualsiasi vaga sembianza di felicità. I due personaggi sono diversissimi ma uniti nella carne e nella mente. Hans, che ha un passato che affonda le sue radici nella gioventù nazista e un percorso di disillusione politica e culturale, si butta a capofitto sulle giovani energie della ragazza di cui si rende amorevole pigmalione e persecutorio controllore. Il periodo di collaborazione alla Stasi sembra riverberarsi nel metodo di indagine utilizzato per analizzare il tradimento di Katharina, una specie di interrogatorio affidato a nastri che la ragazza dovrà ascoltare per fornire convincenti motivazioni al proprio agire. Katharina è disponibile alla vita e alle varie espressioni dell’amore, si lascia condurre in un’esperienza nuova di felicità da abitare, si lascia plasmare dalla forte personalità di un istruttore tanto eccezionale, si lascia catturare da quel corpo che le accende i vigili sensi, impara a guardare le opere d’arte e ad ascoltare la musica con i suoi occhi e le sue orecchie, ma non rinuncia alle proprie sacche di libertà e di esplorazione, il richiamo dell’altra parte del muro in lei ha valenze fisiche e metaforiche, com’è naturale che sia per la sua generazione. Il loro passato fluttua ed emerge di tanto in tanto in modo scomposto e disordinato ad ammonire che non è possibile essere ciò che si è senza ciò che siamo stati.

Inserita su uno sfondo neutro e anonimo, la narrazione sarebbe stata scontata e persino banale, non dissimile da tante altre storie di amore tossico sviscerate con perizia e certosino scavo psicologico, ma l’autrice ha collocato i suoi protagonisti dentro un’altra agonia, quella di un luogo simbolico del ventesimo secolo e di un intero sistema geopolitico e valoriale. Hans e Katharina non avrebbero potuto essere tali al di fuori di Berlino est, città della quale la Erpenbeck restituisce atmosfere decadenti e vive allo stesso tempo, Pian piano i due amanti si aggireranno su porzioni di città che stenteranno persino a riconoscere quando la luce o la condanna di un ovest opulento intento a cancellare le tracce di un passato scomodo da disinfettare dilagherà sugli spazi del loro amore calpestati dai passi frenetici dei turisti in cerca di oggetti da acquistare a poco prezzo come testimonianza del proprio passaggio nella grande storia. Il fantasma di una città, di un sistema chiuso e di un pensiero politico cammina al fianco della coppia, gli eventi esterni non possono non avere ripercussioni involontarie ma fortissime nel privato. Neanche fumo, caffè e spumante, i rituali del loro rapporto sembrano trovarvi più una giusta collocazione. Il cielo diviso di Christa Wolf, autrice alla quale sicuramente la Erpenbeck ha guardato, si riunisce ma non si compatta, non sono amalgamabili due azzurri tanto diversi, almeno non in tempi brevi e senza fare i conti con le ferite del passato. Il prologo e l’epilogo costituiscono infatti la cornice del dispiegarsi della memoria. Katharina, ormai sposata e lontana, non andrà al funerale del suo amante nonostante glielo abbia promesso, ma ascolterà la sua musica e aprirà gli scatoloni che contengono il passato di una coppia ma soprattutto di un popolo, di uno Stato, di un pensiero forte divenuto debole, di una fetta di storia che si apre ancora a diverse discussioni e interpretazioni.

Nell’insieme si avverte la cerebralità della grande narrativa tedesca ed è talvolta difficile seguire i percorsi tortuosi della scrittura che a tratti divaga e tracima in citazioni e riferimenti che abbassano l’asticella dell’attenzione. Ma un romanzo di grandi pretese deve sapere sfidare il suo lettore, educarlo ad un livello maggiore di concentrazione anche a costo di esigere uno sforzo aggiuntivo.

Benvenuto Kairos, dio dell’attimo fortunato, che tutti almeno una volta possano afferrare il tuo ricciolo e immergersi nel flusso inebriante delle vite potenziali che spesso non si riescono a scorgere nemmeno in piena luce.

Jenny Erpenbeck, Kairos, Sellerio editore, pp.393, 18.00 €

https://www.scriptandbooks.it/2025/06/16/il-dio-dellattimo-fortunato-kairos-di-j-erpenbeck-ed-sellerio/

Recensione di Vito Caruso su Free Press online

18 Maggio 2025  Free Press online

“Raccoglievamo le more” di Agata Motta

“Raccoglievamo le more” di Agata Motta

Ho finito di leggere il romanzo opera prima “Raccoglievamo le more (Kalós), 341 pag., di Agata Motta, misterbianchese, giornalista, scrittrice e docente di Lettere.

Il romanzo è ambientato negli anni Quaranta del ‘900, ascesa del fascismo, seconda guerra, e sua caduta, in un paesino ai piedi dell’Etna, nella nutrita famiglia Vitale, i figli Rodolfo, Annamaria, Antonio, Emma e Palmina, la mamma Maria, il padre Giovanni, lo zio arciprete, la domestica e diversi personaggi dell’ampio quadro.
Abbiamo grande storia, snocciolata anche nelle cronache di guerra del diario di Antonio, e microcosmo paesano che la subisce.
C’è il come eravamo (l’imperfetto del titolo, più delle more) e il recupero di identità del personaggio Aurelio, che nel 2002, in prologo e soprattutto in epilogo fa capire a cu’ appatteni.
Nel mezzo c’è una prima parte sulla famiglia Vitale (memorabili, tra i vari ritratti, la candida prima comunione di Palmina e i primi amori) e una seconda sui tanti personaggi di contorno cui l’autrice concede democraticamente udienza, come nelle voci raccolte sul filo del telegrafo da Giacomo il gobbo.


I pregi: lingua raffinata e duttile, che dal colorito ironico, speziato da deliziose forme dialettali e folgoranti metafore, sa elevarsi a tratti di liricità nei passaggi identitari e nel tragico racconto del pino dei tedeschi, nucleo primordiale (scritto 25 anni fa) ispiratore del romanzo.
Incastri perfetti in una narrazione regolata da ordine espositivo e senso della misura. Marchio di fabbrica della scrittrice, il tempo presente usato nei dialoghi e piccole note di regia inframmezzare tra gli stessi per ancor più teatralizzare e tenere avvinti.
Agata Motta dà prova di amorevole sensibilità e rispetto per tutti i suoi personaggi (non eleva alcun protagonista), compresi quelli della parte avversa, gli stessi fascisti in casa Vitale, i tedeschi del pino e il cattivissimo gerarca detto il Morto.
Risultato di tanto gnegno (ingegno) creativo è un toccante romanzo, ottimo manuale di scrittura, che può essere inserito tra le grandi letture della vita.

VITO CARUSO

https://www.freepressonline.it/2025/05/18/raccoglievamo-le-more-di-agata-motta/

1 2 3 22