“Kairos” di J. Erpenbeck

Il Dio dell’attimo fortunato. “Kairos” di J. Erpenbeck, ed. Sellerio

@ Agata Motta, 16 giugno 2025

Un senso di estenuante agonia pervade sin dall’inizio le pagine di Kairos di Jenny Erpenbeck, edito da Sellerio, romanzo colto, raffinato, complesso, vincitore dell’International Booker Prize 2024. Una storia d’amore nella Berlino est a ridosso della caduta del muro, questo in estrema sintesi il contenuto, ma un universo si muove dietro l’apparente semplicità dell’enunciato.

Il linguaggio è il primo elemento del romanzo che colpisce e spiazza perché si porge come elemento di rottura attraverso un progressivo disgregarsi e riorganizzarsi intorno a un flusso di coscienza che cede e si alterna alla più tranquillizzante stabilità della narrazione esterna. Continui slittamenti di punti di vista gettano luci diverse sugli episodi narrati, mentre la simultanea presenza dei dati oggettivi che si incorporano con naturalezza su quelli speculativi rendono la struttura robusta e a tratti destabilizzante. È insomma un linguaggio che, nell’efficace restituzione della traduzione di Ada Vigliani, si ingorga, esplode, diventa sontuoso o persino insopportabile con dialoghi che si sottraggono alla disciplina delle virgolette, espediente ormai comune ma non per questo meno seducente, o con periodi di intricata ipotassi che si arrendono alla fulminea rapidità delle frasi asciutte e mitragliate. Alcuni passaggi risultano magici in questo gioco complesso di parole, concetti e sensazioni, come il primo amplesso della coppia protagonista sulle note del Requiem di Mozart in un continuo rincorrersi di Eros e Thanatos che imprime già una fatale direzione alla passione appena sbocciata.

L’amore tra Hans, scrittore cinquantenne sposato e padre di un adolescente, e la giovane Katharina, solare studentessa in cerca della sua strada nel mondo, si espande arioso e travolgente, ma brevi allontanamenti e piccole aperture a diverse ipotesi di relazioni mettono a dura prova l’unione, della quale si celebrano ossessivamente anniversari e momenti topici, e neanche la tirannia della passione salverà la coppia dal tragico balletto delle accuse e delle recriminazioni, del dolore inflitto e subìto, del bisogno di punire e di ricevere il proprio castigo che assume a tratti una valenza strettamente sessuale, della consapevolezza della deriva segnata da reiterati brevi addii e da ripartenze sempre più lontane da qualsiasi vaga sembianza di felicità. I due personaggi sono diversissimi ma uniti nella carne e nella mente. Hans, che ha un passato che affonda le sue radici nella gioventù nazista e un percorso di disillusione politica e culturale, si butta a capofitto sulle giovani energie della ragazza di cui si rende amorevole pigmalione e persecutorio controllore. Il periodo di collaborazione alla Stasi sembra riverberarsi nel metodo di indagine utilizzato per analizzare il tradimento di Katharina, una specie di interrogatorio affidato a nastri che la ragazza dovrà ascoltare per fornire convincenti motivazioni al proprio agire. Katharina è disponibile alla vita e alle varie espressioni dell’amore, si lascia condurre in un’esperienza nuova di felicità da abitare, si lascia plasmare dalla forte personalità di un istruttore tanto eccezionale, si lascia catturare da quel corpo che le accende i vigili sensi, impara a guardare le opere d’arte e ad ascoltare la musica con i suoi occhi e le sue orecchie, ma non rinuncia alle proprie sacche di libertà e di esplorazione, il richiamo dell’altra parte del muro in lei ha valenze fisiche e metaforiche, com’è naturale che sia per la sua generazione. Il loro passato fluttua ed emerge di tanto in tanto in modo scomposto e disordinato ad ammonire che non è possibile essere ciò che si è senza ciò che siamo stati.

Inserita su uno sfondo neutro e anonimo, la narrazione sarebbe stata scontata e persino banale, non dissimile da tante altre storie di amore tossico sviscerate con perizia e certosino scavo psicologico, ma l’autrice ha collocato i suoi protagonisti dentro un’altra agonia, quella di un luogo simbolico del ventesimo secolo e di un intero sistema geopolitico e valoriale. Hans e Katharina non avrebbero potuto essere tali al di fuori di Berlino est, città della quale la Erpenbeck restituisce atmosfere decadenti e vive allo stesso tempo, Pian piano i due amanti si aggireranno su porzioni di città che stenteranno persino a riconoscere quando la luce o la condanna di un ovest opulento intento a cancellare le tracce di un passato scomodo da disinfettare dilagherà sugli spazi del loro amore calpestati dai passi frenetici dei turisti in cerca di oggetti da acquistare a poco prezzo come testimonianza del proprio passaggio nella grande storia. Il fantasma di una città, di un sistema chiuso e di un pensiero politico cammina al fianco della coppia, gli eventi esterni non possono non avere ripercussioni involontarie ma fortissime nel privato. Neanche fumo, caffè e spumante, i rituali del loro rapporto sembrano trovarvi più una giusta collocazione. Il cielo diviso di Christa Wolf, autrice alla quale sicuramente la Erpenbeck ha guardato, si riunisce ma non si compatta, non sono amalgamabili due azzurri tanto diversi, almeno non in tempi brevi e senza fare i conti con le ferite del passato. Il prologo e l’epilogo costituiscono infatti la cornice del dispiegarsi della memoria. Katharina, ormai sposata e lontana, non andrà al funerale del suo amante nonostante glielo abbia promesso, ma ascolterà la sua musica e aprirà gli scatoloni che contengono il passato di una coppia ma soprattutto di un popolo, di uno Stato, di un pensiero forte divenuto debole, di una fetta di storia che si apre ancora a diverse discussioni e interpretazioni.

Nell’insieme si avverte la cerebralità della grande narrativa tedesca ed è talvolta difficile seguire i percorsi tortuosi della scrittura che a tratti divaga e tracima in citazioni e riferimenti che abbassano l’asticella dell’attenzione. Ma un romanzo di grandi pretese deve sapere sfidare il suo lettore, educarlo ad un livello maggiore di concentrazione anche a costo di esigere uno sforzo aggiuntivo.

Benvenuto Kairos, dio dell’attimo fortunato, che tutti almeno una volta possano afferrare il tuo ricciolo e immergersi nel flusso inebriante delle vite potenziali che spesso non si riescono a scorgere nemmeno in piena luce.

Jenny Erpenbeck, Kairos, Sellerio editore, pp.393, 18.00 €

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La fuga di Anna di Mattia Corrente

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Vite sbagliate e vite possibili. “La fuga di Anna” di Mattia Corrente, ed. Sellerio

@ Agata Motta, 31-08-2022

Mattia Corrente

L’attitudine alla scomparsa come tara genetica o come capacità di rinascita, la necessità di essere se stessi, il gioco delle ipotesi su quali pieghe avrebbe potuto prendere la vita se fossero state compiute altre scelte. È soprattutto sulle scelte, infatti, che si concentra l’attenzione di Mattia Corrente nel suo romanzo d’esordio La fuga di Anna, edito da Sellerio, un libro, attraente sin dalla copertina, che sta conquistando i lettori.
Esistono tramonti che lasciano presagire nuove albe ed è appunto quello che accade ad Anna e a Severino che, per vie diverse e con motivazioni antitetiche, interrompono il loro cammino condiviso di coppia di lungo corso per approdare a vite diverse, svincolate da doveri imposti e promesse pesanti come macigni. Ormai ultrasettantenne Anna fugge da un matrimonio che ha accettato per aderire alle convenzioni sociali dell’epoca e per soddisfare le pressanti richieste materne che riteneva essenziale per le sue figlie avere accanto un uomo e dargli dei figli. Proprio lei, Serafina, che invece il marito l’ha perso. Il suo adorato Peppe un giorno è andato via e non è più tornato e da quel giorno porta il lutto nel cuore e negli abiti e coltiva un dolore profondo per un abbandono incomprensibile.
Anche Anna, come il padre amatissimo, un giorno scompare e al vecchio Severino, dopo un anno di sterile e fiduciosa attesa, non resta altro da fare che indossare il suo inseparabile borsalino, infilare in una valigia le cose di Anna, tra cui l’abito da sposa tirato fuori da una buca nel giardino, e salutare Stromboli, l’isola nella quale avevano scelto di trascorrere la vecchiaia, per andare alla ricerca di quella moglie che aveva caparbiamente voluto e che aveva persuaso al matrimonio con una promessa di felicità.
Un viaggio a ritroso nel tempo quello di Severino, che tenta di rintracciare tutte le persone che hanno lasciato impronte profonde nell’esistenza di Anna, e nei luoghi – ben noti all’autore che li restituisce in tutta la loro tangibile e affascinante bellezza – in cui hanno lasciato porzioni di vissuto.
Scoperchiando verità nascoste di una donna che in realtà non gli è mai appartenuta del tutto, Severino scopre anche aspetti inediti di se stesso, di quel ragazzo con grandi sogni sacrificati alla ponderatezza (tale allora la considerava) di una vita serena accanto alla donna amata. Si accorge che avrebbe potuto essere un altro Severino, avrebbe potuto persino creare una nuova famiglia con un’altra donna fugacemente amata nel periodo in cui Anna, divenuta madre, aveva smesso di essere moglie. Lo seguiamo dunque mentre si lascia sedurre dai dolci, sempre evitati per via del diabete, mentre guarda i luoghi del passato con occhi diversi, mentre getta i vecchi abiti e ne acquista di nuovi – compreso un nuovo borsalino – e in quel gesto assapora altre possibilità, compresa la solitudine, compresa una vita senza Anna.

Sebbene la narrazione e il punto di vista siano prevalentemente quelli di Severino, l’autore lascia ampi spazi ad Anna, affidandoli ad un narratore onnisciente che ne racconta il passato e la vita sbagliata in cui si è infilata con le proprie mani, e qualche capitolo a Peppe (forse con una lieve forzatura, non tanto sul piano delle intenzioni quanto su quello del risultato complessivo) di cui pian piano affiora il vissuto, dal punto in cui ha abbandonato la famiglia, e infine il rimorso che lo condurrà ad un gesto indirettamente risarcitorio. L’amore per la libertà, che Peppe ha inculcato alla figlia che ha avvertito a lui più simile e vicina, qui coincide con la fuga.
Non può quindi essere un atto indolore, c’è un prezzo altissimo da pagare che si traduce nell’infelicità, nelle ferite insanabili e negli interrogativi giganteschi di chi resta attonito ad aspettare. La maternità invece si rivela, sia in Anna che nella madre Serafina, una responsabilità spossante e totalizzante e soprattutto un cappio al collo per i figli sovrastati, sin dal loro affacciarsi al mondo, da un amore soffocante e ansiogeno.
Il linguaggio, fluido e molto gradevole, offre piccole oasi di profondità nelle quali indugiare, crea immagini delicate e zuppe di tenerezza, costruisce dialoghi freschi e spontanei. La galleria di personaggi che emerge dalle pagine con brevi pennellate risulta ben delineata, tanto da poterne conservare un ricordo preciso fatto di caratteristiche fisiche appena abbozzate, gesti, sguardi e parole. Un rosario di brevi incontri in successione che aiuta Severino a ricomporre i pezzi mancanti dell’altra Anna, la donna inquieta e sfuggente che gli è vissuta al fianco per decenni senza mai mostrarsi nella sua autenticità, ma anche il punto di partenza per smascherare l’impostore che lui stesso ammette di essere stato.La libertà individuale è la più preziosa delle conquiste anche quando conserva il sapore acre delle lacrime, ne sanno qualcosa Beppe, Anna e alla fine anche Severino, “un vecchio con una valigia che parte”.
Le promesse estorte in situazioni particolari possono essere infrante come i voti che coinvolgono le altrui volontà, ne sa qualcosa Lucia che altrimenti non avrebbe sposato Renzo.
La fuga di Anna è un’ulteriore conferma di quanto gli scrittori amino indagare sul crepuscolo della vita e farne oggetto di narrazioni attente e delicate. E il pensiero corre al suggestivo e luminoso romanzo di Jocelyne Saucier Piovevano uccelli (pubblicato in Canada nel 2011 e divenuto nel 2019 un film diretto da Louise Archambault), proposto in Italia dalla casa editrice Iperborea, che si spinge fino all’estremo limite delle scelte e delle rinascite possibili.

Mattia Corrente
La fuga di Anna

Sellerio editore
16,00 €
pp.254

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anche su Articolo21

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L’abisso di Davide Enia

Le voci dell’abisso. Davide Enia al Teatro Biondo di Palermo

 

L’abisso di Davide Enia, reduce da una trionfale tournée in diverse città italiane e attualmente in scena al teatro Biondo di Palermo, è una narrazione di incontri: quello dell’autore e interprete con Lampedusa, l’isola piatta e riarsa degli sbarchi dei migranti, quello con i disperati che vi approdano dopo aver varcato la soglia dell’inferno e quello con quanti, attraverso ruoli e compiti diversi, di quegli approdi si assumono il carico fisico ed emotivo, testimoni, angeli e custodi di una fetta di Storia ancora solo parzialmente scritta. Sono proprio le parole a mancare, quelle giuste per raccontare – senza la pretesa di fornire spiegazioni o interpretazioni – ciò che agli occhi di Enia appare inenarrabile.

L’abisso è anche la narrazione dell’incontro con il padre, arido di parole come le rocce lampedusane ma capace di ascolto, e con quella parte del proprio Io che ad un certo punto si getta alle spalle la giovinezza e comincia ad esplorare il dolore che la vita dissemina incurante lungo la strada di ciascuno di noi.

Sarà l’imminente morte dello zio Beppe, per il quale presto bisognerà avviare un’adeguata elaborazione del lutto, sarà l’evoluzione del rapporto con la compagna Silvia che lo costringe a prendere atto di un qualcosa che lo sta definitivamente cambiando, sarà la visione di un video di struggente e dolorosa intensità, ma ad un certo punto la direzione impressa dal manubrio della propria esistenza è destinata a mutare. Incontrare l’abisso, riconoscerlo ed entrarci non sono cose che possano lasciare indifferenti.

Ecco, è l’incontro con l’abisso – ogni essere umano conosce il proprio ed è fondamentale nominarlo per poterlo affrontare – che Enia affida al pubblico, attraverso parole che non gli appartengono direttamente, perché sono quelle raccolte sull’isola: quelle dell’enorme sommozzatore attraversato dal “dramma della scelta”, quelle di Paola e Melo che del soccorso hanno fatto la loro ragione di vita, quelle del custode del cimitero, Vincenzo, che si riempie le narici di menta fresca per impedirsi di vomitare mentre affronta il recupero di corpi ormai decomposti e destinati a restare privi di identità. Quei corpi pietosamente seppelliti alla maniera cattolica anche se forse sono musulmani, perché ogni popolo ha il proprio modo di prendersi cura dei defunti e quindi non se ne avranno a male, quei corpi sui quali fioriranno gli oleandri, muti custodi di tragedie senza titolo.

Lo spettacolo è tratto dal romanzo, edito da Sellerio, Appunti per un naufragio (Vincitore del Premio Anima Letteratura 2017 e del Premio Mondello 2018), che dallo scorso ottobre è disponibile anche nell’affascinante versione in audiolibro delle edizioni Emons, in cui la voce dell’autore restituisce forza e potenza rappresentativa ai tanti personaggi che abitano le stanze nude della Lampedusa dei disperati.

Prodotto dal Biondo insieme al Teatro di Roma e ad Accademia Perduta Romagna Teatri, L’abisso ne ripropone sostanzialmente i contenuti e le emozioni, ma Enia gioca la sua carta vincente, quella del corpo che agisce sulla scena con la voce che sembra assecondarlo. Da sempre è così negli spettacoli di Enia, non si capisce se ad agire sui sensi e sull’intelletto di chi guarda ed ascolta sia prima il corpo, apparentemente statico se si escludono piccoli spostamenti sulla scena sempre spoglia, o sia prima la voce che sa essere piana e vorticosa, sussurrata e forte, perché l’attore è anzitutto un eccellente narratore. Enia, infatti, racconta anche con le mani e le braccia, che disegnano nell’aria personaggi e azioni, con i piedi, che scandiscono il tempo e le battute, con gesti precisi nei quali il figlio riconosce l’identico “quartìo” del padre, l’uomo quasi sconosciuto che sa essere la montagna in permanente ascolto, il muto che osserva da lontano senza intervenire, perché un padre sa bene che i figli non gli appartengono.

Le luci segnano il cambio di registro narrativo. Sono implacabilmente dirette sull’attore e sul dolore che si materializza attraverso le parole finalmente trovate, sono soffuse e accese anche in sala quando Enia passa alle vicende personali e alla ricerca di nuove consapevolezze appena raggiunte o ancora in corso.

L’autore torna alle scene (e in questi giorni alla sua Palermo perdutamente amata) dopo una lunga assenza colma di altre forme di scrittura e di altre gratificanti esperienze e lo fa con il vantaggio che è proprio del teatro: ciò che nel libro bisogna scoprire divorando le pagine in un tempo relativamente breve, nello spettacolo viene scaraventato in poco più di un’ora, per cui lo spettatore annaspa travolto da un’onda d’urto emotiva talvolta ingovernabile. Enia porge e scaglia le immagini e gli incontri più significativi senza abbassare mai la tensione narrativa e mantiene il filo conduttore del naufragio personale e collettivo con il sommesso, incalzante e talvolta rabbioso accompagnamento musicale di Giulio Barocchieri, compositore sensibile e ricettivo che si conferma presenza importante, e già nota, per il percorso artistico di Enia. La scelta, indovinata sotto il profilo della costruzione scenica, è quella di accostare ai suoni di un presente inquieto e disturbante quelli dei canti popolari dei pescatori, quei pescatori che nel loro mare di imbarazzante bellezza trovano adesso pesce e morti freschi di giornata.

I morti in quell’isola ventosa sono incalcolabili, non basta snocciolare tragiche cifre per averne contezza, altri ce ne saranno e pertanto diventa indispensabile allenarsi in terra e battersi in mare per strapparne almeno alcuni alle correnti, al dolore, all’oblìo dispensato da onde assassine. Così, spesso accade, durante i tentativi di recupero, che qualcuno gridi a voce alta il proprio nome più e più volte, e quel che all’inizio potrebbe sembrare volontà di autoaffermazione si rivela invece il tentativo di regalare ai propri cari la liberazione dall’attesa, perché la speranza possa concludersi con la certezza della morte e la possibilità di una preghiera.

Spontaneamente l’autore non rinuncia all’ironia e alla levità che hanno caratterizzato la sua produzione giovanile. La ritroviamo nelle telefonate al padre caratterizzate da lunghe pause di muta attesa, nella preparazione compulsiva della marmellata di arance siciliane, quelle inviate in quantità industriale al figlio ormai residente nel continente, ma la sostanza del lavoro è di tangibile drammaticità.

Enia conclude, nell’apparente concessione del bis, con la morte dello zio Beppe e con il mito di Europa, quello che ci accomuna nell’essere “tutti figli di una traversata in barca”.

Già il saggio Vincenzo, custode del cimitero lampedusano fino al 2007, anno in cui si impose la burocrazia del freddo anonimato delle catalogazioni, aveva umilmente evidenziato che di qualunque colore sia la pelle, per tutti le ossa sono bianche e tutti, infine, ossa saremo.

L’abisso, insomma, non ci racconta soltanto l’evento delle migrazioni, ma – suggerisce lo stesso autore – l’incontro con l’altro e con l’oltre. Incontro sempre più spesso eluso o rimandato se non addirittura deliberatamente evitato, perché è davvero difficile porgere realmente lo sguardo agli altri e prima ancora a se stessi e al proprio personale abisso.

L’abisso

di e con Davide Enia

tratto da Appunti per un naufragio (Sellerio Editore)

musiche composte ed eseguite da Giulio Barocchieri

produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale / Teatro Biondo Palermo / Accademia Perduta – Romagna Teatri in collaborazione con Festival Internazionale di Narrazione di Arzo

Calendario delle rappresentazioni:

Sala Grande

ven. 16 nov. ore 21:00

sab. 17 nov. ore 21:00

dom. 18 nov. ore 17:30

mar. 20 nov. ore 21:00

mer. 21 nov. ore 17:30

gio. 22 nov. ore 17:30

ven. 23 nov. ore 21:00

sab. 24 nov. ore 21:00

dom. 25 nov. ore 17:30

Sala Strehler

mar. 27 nov. ore 10.30 (tutto esaurito)

mer. 28 nov. ore 10.30 (tutto esaurito)

gio. 29 nov. ore 10.30 (tutto esaurito)

ven. 30 nov. ore 10.30 (tutto esaurito)

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2018/11/18/le-voci-dellabisso-davide-enia-al-teatro-biondo-di-palermo/

https://www.articolo21.org/2018/11/le-voci-dellabisso-davide-enia-al-teatro-biondo-di-palermo/

L’estate del ’78 di Roberto Alajmo

La messa a fuoco della disfatta. ‘L’estate del ‘78’ di Roberto Alajmo, ed. Sellerio

 

Luglio 1978. Via Stesicoro, Mondello. Tempo e luogo in apertura come in una sceneggiatura cinematografica. Sono il tempo e il luogo decisivi, quelli dell’ultimo incontro con la madre, ma il ragazzo,  tutto preso dagli esami di maturità, dagli amici e dalla prospettiva allettante di un gelato, non può saperlo.

Nel romanzo L’estate del ’78, edito da Sellerio e vincitore del Premio Letterario Alassio Cento Libri, lo scrittore e giornalista palermitano Roberto Alajmo, direttore del Teatro Biondo dal 2013, racconta la tragedia personale del suicidio materno, ancora carico di interrogativi irrisolti, con una sorprendente capacità di coinvolgimento che nasce dall’uso originale di una scrittura che con superbo andamento ossimorico si rivela filtrata e sanguinante allo stesso tempo. La distanza offerta dal tempo trascorso e la capacità di avvicinare l’oggetto dell’indagine con precisione entomologica procedono saldamente avvinghiate, mentre il passaggio di ruolo da figlio a padre interviene a sorreggere la narrazione sostanziandola di un passato più recente e fresco e a correggere percezioni e punti di vista. Correggere nel vero senso della parola, perché l’età matura possiede forse quest’unico privilegio: la capacità di tornare sul vissuto e di correggerne le deformazioni nel ricordo per donare luce nuova anche al presente.

L’incontro è diluito e procrastinato sin dalle prime pagine, l’autore non lo racconta in un unico segmento, procede per piccole tappe, avvicinandone l’epilogo con una lenta zoomata. Diversi episodi, considerazioni, ricostruzioni della memoria, che costituiscono in concreto sia l’ossatura che la polpa del testo, vengono inseriti prima della scena successiva che si apre sulla stessa data, sempre in corsivo, e sul punto esatto in cui si era conclusa la precedente, perché una volta consumato, con tutto il suo carico di imbarazzante banalità, quell’ultimo incontro manterrà intatto il suo enorme e sprecato potenziale, il suo pesante fardello di amarezza inestinguibile, ma sarà finalmente messo a fuoco con lucidità, maneggiato con cura e devozione.

Non è semplice per un figlio essere oggettivo nei confronti della propria madre, ma Alajmo, a suo modo, riesce nell’impresa, forse aiutato dalla distanza già scavata inesorabilmente dall’uso dei barbiturici che allontanano la donna isolandola in un territorio invalicabile e intricato.

Conosciamo così Elena Parrino in tutta la sua voracità di vita e di indipendenza destinata alla disfatta, in una bellezza coltivata anche nei momenti di maggiore abbandono, in una modernità di pensiero e di azioni – dall’applicazione degli insegnamenti di Don Milani nella didattica alla richiesta di divorzio in tempi in cui la separazione era ancora circondata da un alone di scandalo – che ne fanno una donna combattuta e affascinante, nell’estremo tentativo di rendere la pittura “lo scopo” della propria vita. Tentativo vano che non riuscirà a sottrarla alla deriva finale, allo scacco matto subìto a soli quarantadue anni e raccontato in pagine di rara bellezza, asciutte, distillate, perfette.

Ma è una morte davvero voluta? Gli indizi convergono in questa direzione, mentre nel figlio resta un varco aperto o forse è solo una ferita dai margini troppo larghi su cui i batteri continuano a proliferare e ad indurre dolore. La triste eredità della vocazione al suicidio, quella che appariva come il lascito più evidente e devastante, è superata grazie alla nascita del figlio Arturo, al quale Alajmo dedica pagine pensose, tenere e rabbiose, come quelle sulle condivisioni cinematografiche e musicali o quelle gustosissime della beata incoscienza del ragazzo nel post Bataclan.

Roberto Alajmo

Di Elena, insomma, restano tracce evidenti nella calligrafia, prima imitata e poi acquisita come propria, e certi lati di carattere come genetica comanda. E resta quell’affetto palpabile eppur lontano, porto ai suoi due figli con discrezione, quasi con vergogna, perché una madre prova sempre un senso di inettitudine travolgente quando non riesce ad abbandonarsi all’abnegazione imposta dal copione sociale.

Alcuni dei momenti più felici sul piano narrativo sono quelli in cui l’autore dà voce alle percezioni collettive, al sentire comune innalzandolo a filosofia del quotidiano con un linguaggio che fa della leggerezza la sua consistenza maggiore. Si va dalle riflessioni sulla vecchiaia prorogata all’estremo con tutto il suo corredo di indignitosa sofferenza all’ipocrisia del dolore incondizionato per la morte di chi in realtà si è già perso nel momento in cui la malattia vi ha piazzato sopra il proprio vittorioso vessillo, dal valore terapeutico del pianto per finzione insegnato al proprio figlio alle diverse declinazioni della felicità sempre e comunque inafferrabile o tardivamente riconosciuta, dalla percezione del momento in cui si acquista la consapevolezza della perdita dell’infanzia a quella traumatica e dolorosa dell’esistenza gelida di un “mai più” che giunge come un avvoltoio a cibarsi della carogna dei nostri affetti perduti. E per il lettore è un continuo riconoscersi in esse: è vero, l’ho provato anch’io, mi è successa la stessa cosa ma non trovavo le parole giuste per dirlo.

Ecco, l’Alajmo scrittore trova sempre le parole giuste e le trova semplici, limpide e belle; l’Alajmo uomo invece le individua con meticoloso scavo, con un disvelamento a tratti impudico ma mai compiaciuto.

Il testo non avrebbe perso la sua efficacia affabulatoria e la sua forza documentaristica anche senza l’ampio corredo di fonti iconografiche e scritte che lo accompagnano; persone e personaggi – tra cui i tanti parenti ben definiti – sembrano convivere in perfetta coincidenza ed è quasi impossibile distinguere il vero dalla finzione, ammesso che essa sia presente, ma autore ed editore scelgono di rendere il patto narrativo ancora più forte per accrescere il gradimento nei confronti di una vicenda personale per la quale l’identificazione è in permanente agguato, per negare spazio a qualsiasi tentativo di sottrazione.

Il dubbio che attraverso la pubblicazione di questa storia il prezzo più alto lo stia pagando proprio sua madre coglie infine l’autore, che forse in tal senso non si sbaglia. Non è dato sapere se e quanto quella nudità di atti e sentimenti, quell’esposizione sotto i riflettori del proprio calvario avrebbe potuto risultare per lei accettabile.

Comunque sia, l’autore ha ritenuto che l’indagine su quella morte andasse fatta e la procedura da seguire, maturata lentamente, avrebbe potuto soltanto essere quella adottata dall’adulto sin dall’ingresso nell’età del sorpasso, quella in cui il figlio può cominciare a conteggiare più anni di quelli materni. Un’indagine attraverso la quale l’uomo ha tentato di restituire una qualsiasi necessaria verità al se stesso orfano. E’ probabile che non sia giunta la catarsi, magari neanche cercata, ma Roberto Alajmo consegna uno dei suoi romanzi migliori, autentico e dolente, ironico e tenero, con la sua consueta scrittura piana e priva di fronzoli, una scrittura che pattina veloce aggirando gli ostacoli e lasciandosi dietro un senso di appagante pienezza.

Autore: Agata Motta

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