“La ragazza di Savannah” di Romana Petri

Il viale che conduce alla fattoria è disseminato di pavoni. Una donna li scruta con avidità, sperando di scovarne uno che apra la coda per mostrare la propria magnifica ruota di colori. La ricerca della bellezza, a lei negata nel fisico, e della perfezione, invece concessale nell’arte, sembrano incarnarsi nell’animale da cui ossessivamente si è circondata, un simbolo di trascendenza e di immortalità da cui trarre gioia e conforto.  Flannery O’Connor fu una donna atipica, percorsa da una ricerca spirituale e da una vis polemica che resero la sua scrittura unica e difficilmente inquadrabile.

Leggere La ragazza di Savannah di Romana Petri – vincitore dell’Orbetello

 Book Prize 2025 – suscita come immediato effetto collaterale il desiderio di leggere o rileggere l’opera di questa imponente voce della letteratura americana del Novecento. Ciò è dovuto al lavoro condotto dalla Petri con sobrio equilibrio tra fonti e immaginazione per restituire azioni, pensieri, sogni, difficoltà, bizzarrie, parole della scrittrice americana, morta non ancora quarantenne con l’amara consapevolezza di non riuscire a completare il suo terzo romanzo. Se, invece, per un momento si provasse a dimenticarne il nome, la fama e il successo, se la osservassimo come una qualsiasi donna marchiata dalla malattia, ecco che emergerebbe una granitica volontà di vivere unita alla capacità di accettazione della malattia stessa, affiorerebbe una donna credente che abbraccia la sua croce e la ama con lo squisito affinamento della sensibilità prodotto dal dolore, esploderebbe l’impari lotta contro il tempo che lima i giorni riducendoli a briciole da raccattare, che limita l’orizzonte progettuale fino a ridurlo a una manciata di settimane o di giorni, che indica luoghi impossibili da raggiungere e chimere che solo altri potranno sognare. Sta anzitutto qui la potenza di questo romanzo che potrebbe essere dedicato a ogni creatura sofferente che non si arrende e che brilla minuscola ma gigantesca come una lucciola in una serata estiva.

Ciò premesso, Petri, con un linguaggio fluido anche quando si inerpica su tematiche filosofiche e teologiche, ricrea le condizioni di immedesimazione che le sono congeniali, le stesse che l’hanno fatta respirare nel Klondike di Jack London e volare nei cieli belligeranti di Antoine de Saint-Exupéry, e che la portano non tanto a scrivere del personaggio quanto a esserlo, ad abitarne la pelle, il cuore e la mente come se fossero i propri, perché forse un po’ lo sono davvero. Gli scrittori, almeno quelli di spessore, hanno un comune patrimonio emotivo nel quale riconoscersi e all’occorrenza possono scegliere camaleonticamente di trasformarsi dentro quella stupefacente zona della mente in cui l’essere di chi scrive coincide con l’essere di chi è oggetto di indagine. In questo territorio misterioso è persino possibile ipotizzare che usino lo stesso linguaggio e le stesse parole, in questo caso un’unica voce per due scrittrici diversissime che hanno fatto della scrittura una ragione di vita.

Ci sono momenti nel testo in cui però volutamente le personalità si scindono e le voci si separano, sono brevi sequenze segnate da un rapido passaggio al presente del tempo verbale. Qui Petri si allontana e osserva a distanza, rende cronaca il racconto, mette a fuoco dettagli che hanno bisogno di imparzialità e distacco, con uno scarto improvviso inquadra dall’esterno piccoli o grandi accadimenti, come ad avvisare il lettore che la realtà esiste al di fuori del punto di vista della protagonista, una realtà che non subisce le deformazioni inevitabilmente apportate dal suo particolarissimo sentire.

Sono tanti i personaggi con i quali la scrittrice O’ Connor entra in contatto, spesso attraverso incessanti relazioni epistolari, occasionali incontri o durature ospitalità, ma soprattutto ai genitori Petri riserva pagine magnifiche. Regina, madre che come un generale dirige la fattoria in cui Mary Flan è costretta a trascorrere la maggior parte del suo tempo, posa sul mondo uno sguardo diverso, quasi compensativo rispetto a quello della figlia, uno sguardo pragmatico, da donna energica costretta a prendere in mano le redini della famiglia e a dedicare la propria vita a una figlia della quale sostanzialmente non comprende l’opera letteraria, ma che ama senza indugiare in smancerie e che ammira per la sua determinazione e per la sua incredibile capacità di sopportazione. Ne è fiera e orgogliosa e prega di poter morire un attimo dopo di lei, non prima, perché comprende che senza il suo stabile accudimento la giovane donna talentuosa che ha partorito sarebbe perduta. Quella paterna è invece una figura dolce e comprensiva, l’affettuoso alleato presago dei futuri successi, destinato però a scomparire presto per la malattia che poi apparterrà anche alla figlia, lasciando dolore e nostalgia. Spontaneo ravvisare in lui il ricordo del Ciclone, l’amatissimo padre dell’autrice, così, per quelle strane coincidenze che talvolta la vita porge, i sentimenti delle due donne possono mescolarsi e diventare autentici al di là della finzione narrativa, ma con effetti diversi: O’Connor sceglie di non parlarne per proteggersi dal dolore, Petri gli dedica un intero, magnifico romanzo per elaborarlo.

Il fil rouge che attraversa da cima a fondo il testo è comunque il rapporto con il divino vissuto da Flannery O’Connor in maniera del tutto anticonvenzionale e riversato nelle sue pagine con l’interesse dimostrato per personaggi balordi che si scontrano contro il richiamo della redenzione. La presenza della violenza dentro la quale trovare la necessità della fede, le situazioni scomode che non potevano soddisfare i benpensanti creano una spaccatura nel mondo cattolico di cui lei vuole essere interprete e protagonista. Sin dall’infanzia Mary Flan aveva tentato di instaurare un rapporto diretto con Dio, la sequenza iniziale del tentativo di prendere a pugni l’angelo custode per convincerlo a lasciarla in pace ne è una prima gustosa dimostrazione, e per tutto il corso della sua esistenza quel rapporto esclusivo, fatto anche di preghiere inventate ma cucite addosso alle proprie personalissime esigenze, ha caratterizzato l’opera di una scrittrice cattolica desiderosa “di imparare a usare le parole per raccontare Dio”. L’amore terreno, da cui per qualche tempo fu ossessionata, si trasformava inesorabilmente in amicizia letteraria e da quella negazione traeva ulteriore spinta a concentrarsi su Dio, vero fulcro e motore della sua esistenza. Una vita che procedeva dunque per sottrazione, di affetti, di passione amorosa, di salute, di indipendenza, ma che da queste assenze ricavava pienezza e ispirazione. Ispirazione che arrivava come un’onda da arginare per darle la forma voluta attraverso un maniacale lavoro di labor limae, di trascrizioni che la inducevano a indugiare per mesi su uno stesso racconto o per anni su un romanzo. La ricompensa finale fu la perfezione, cercata e raggiunta nel modo da lei accarezzato e ambìto: la propria ruota di pavone da consegnare ai posteri.

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