Le donne dell’Acquasanta di Francesca Maccani

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Sopraffazione e riscatto ne “Le donne dell’Acquasanta” di Francesca Maccani, edito da Rizzoli

@ Agata Motta, 23-09-2022

Manifattura Tabacchi di Palermo

Una folgorante visita alla Manifattura Tabacchi di Palermo durante la manifestazione “Le vie dei tesori” e in Francesca Maccani, autrice di origine trentina ma ormai da tempo palermitana d’adozione, si accende la scintilla che porterà alla stesura del romanzo Le donne dell’Acquasanta, edito da Rizzoli. Giovani donne chine sui tavoli da lavoro a confezionare sigari bussano alla sua fantasia come personaggi in cerca d’autore, come voci che chiedono di dare corpo e sostanza a vicende dimenticate che hanno attraversato un secolo morente e una città in piena rinascita.
L’anno è il 1897, il ricordo dei fasci siciliani è ancora vivo e l’onda lunga che ha prodotto non si è fermata. Il luogo è la Palermo opulenta dei Florio, degli Ingham, dei Whitaker e degli industriosi imprenditori, della fioritura delle manifatture e delle attività commerciali che fervono facendo da contraltare alla sterile inattività di aristocratici fedeli alla nobile arte dell’ozio, ma è anche la Palermo dei pescatori e della povera gente che si arrabatta per portare in tavola qualcosa, delle ragazze che camminano a piedi nudi e guardano sognanti le signore ingioiellate a passeggio. Sontuosi palazzi, umili dimore, scorci di mare e i rumorosi e umidi locali della manifattura sono lo scenario di una narrazione limpida che sussurra storie di amicizia e di amore che non esauriscono in queste tematiche la loro ragion d’essere, perché l’opera è anche un’indagine rigorosa, ben supportata dalle fonti consultate, di una realtà sociale fatta di soprusi, privazioni, rassegnazione e bisogno di riscatto che vede le donne messe ai margini, incistate in ruoli che hanno il sentore della condanna e dell’ineluttabilità.

Franca e Rosa sono due tabacchine, lavorano e contribuiscono al mantenimento delle loro famiglie. Questo le colloca già su un piano diverso rispetto alle loro madri, sono quasi privilegiate nonostante le mortificazioni e le vessazioni che sono costrette ad ingoiare dai loro capi, uomini, ovviamente, perché soltanto agli uomini (siano essi datori di lavoro, mariti o padri) è permesso comandare e manovrare la vita delle donne. Sono diverse sia fisicamente che come temperamento, e pertanto complementari, ma sanno di possedere il dono prezioso della complicità e della reciproca comprensione.
Rosa vorrebbe sposarsi e mettere su famiglia, non ha una visione negativa dell’universo maschile, pensa che non si debba fare di tutta l’erba un fascio e che anche negli uomini possano albergare sensibilità e amore sincero. Franca non ne è convinta, vede le sue compagne salire sulle carrozze di signori viziosi per consegnarsi alle loro voglie per pochi soldi, è importunata per la sua fresca bellezza, sa che può capitare la disgrazia di un marito ubriaco e violento. Il suo obiettivo diventa allora quello di rendere più vivibili le condizioni lavorative delle sue compagne, specie quelle delle giovani madri, costrette a lavorare con i neonati aggrappati alle spalle e a subire le pressioni dei sorveglianti affinché non abbassino il loro livello di produttività. Costruire un baliatico rappresenta una conquista straordinaria e Franca, con la determinazione che le è propria e con l’aiuto di un sindacalista capace anche di scalfire la corazza che lei ha imposto al suo cuore, riuscirà, pagando il prezzo altissimo dell’umiliazione e della violenza, ad ottenere ciò che ha disperatamente voluto. È vero, si trovano tanta paura e rassegnazione nelle sue compagne di lavoro, spesso anche invidia e maldicenza gratuite, elementi che in fondo le rendono umane e vere, ma Franca ha gettato il lievito della consapevolezza nell’impasto informe e per molte di loro si apriranno nuovi orizzonti.
Accanto alla coppia di amiche protagoniste della storia si muovono tanti altri personaggi tratteggiati con precisione e finezza, dalla giovane madre Maria alla sventurata Mela, dalla ricca Margherita dal grembo sterile, preoccupata solo di assicurare una discendenza al marito e un’occupazione alle sue lunghe giornate, allo squallido baronetto che renderà realizzabile il sogno consegnandole il suo “bastardo”, dai beceri e violenti sorveglianti, indaffarati a sopprimere qualsiasi rigurgito di libertà, all’illuminato padrone della manifattura che pian piano maturerà l’idea del baliatico e della salvaguardia della dignità nei luoghi di lavoro. E infine il sindacalista Salvo, l’uomo in grado di prendersi cura dei più deboli e di ascoltare le parole di Franca, di comprenderne la forza dirompente, di riconoscerne la giustezza e il valore.

Francesca Maccani

L’autrice manovra una prosa curata, fluida e amabile, sa restituire il cambio delle stagioni o la scansione delle ore del giorno con immagini sempre nuove e di grande impatto visivo, intreccia dialoghi freschi e credibili, inserisce – con una scelta quasi obbligata ma graditissima ai lettori – intere espressioni o singole parole dialettali che consentono di respirare ambienti e odori di una terra assai amata dalla letteratura, ma, nell’appropriarsi di una consuetudine, la Maccani riesce a rendere solida e significativa la mappatura di un quotidiano che da certi termini non può prescindere. Il narratore onnisciente, infatti, abbraccia attraverso quel dialetto il punto di vista di una collettività che in esso si identifica e la presenza nello stesso periodo di un registro alto trapuntato da un lessico dialettale crea un linguaggio pastoso e avvolgente.
La Sicilia e il suo complesso passato, specie negli aspetti meno noti ed esplorati, sono coordinate che continuano a guidare la letteratura declinata al femminile – da Stefania Auci ad Anna Chisari giusto per citare alcuni dei nomi più recenti – e Francesca Maccani vi si colloca a pieno titolo.
Le donne dell’Acquasanta non è soltanto “una storia palermitana”, come recita il sottotitolo, ma una storia dal respiro più ampio e profondo. La sopraffazione e il bisogno di riscatto appartengono purtroppo al mondo contemporaneo e vi alloggiano con una desolante e pervicace presenza.

Francesca Maccani
Le donne dell’Acquasanta
Rizzoli editore
pp 320
16,00 €

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La fuga di Anna di Mattia Corrente

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Vite sbagliate e vite possibili. “La fuga di Anna” di Mattia Corrente, ed. Sellerio

@ Agata Motta, 31-08-2022

Mattia Corrente

L’attitudine alla scomparsa come tara genetica o come capacità di rinascita, la necessità di essere se stessi, il gioco delle ipotesi su quali pieghe avrebbe potuto prendere la vita se fossero state compiute altre scelte. È soprattutto sulle scelte, infatti, che si concentra l’attenzione di Mattia Corrente nel suo romanzo d’esordio La fuga di Anna, edito da Sellerio, un libro, attraente sin dalla copertina, che sta conquistando i lettori.
Esistono tramonti che lasciano presagire nuove albe ed è appunto quello che accade ad Anna e a Severino che, per vie diverse e con motivazioni antitetiche, interrompono il loro cammino condiviso di coppia di lungo corso per approdare a vite diverse, svincolate da doveri imposti e promesse pesanti come macigni. Ormai ultrasettantenne Anna fugge da un matrimonio che ha accettato per aderire alle convenzioni sociali dell’epoca e per soddisfare le pressanti richieste materne che riteneva essenziale per le sue figlie avere accanto un uomo e dargli dei figli. Proprio lei, Serafina, che invece il marito l’ha perso. Il suo adorato Peppe un giorno è andato via e non è più tornato e da quel giorno porta il lutto nel cuore e negli abiti e coltiva un dolore profondo per un abbandono incomprensibile.
Anche Anna, come il padre amatissimo, un giorno scompare e al vecchio Severino, dopo un anno di sterile e fiduciosa attesa, non resta altro da fare che indossare il suo inseparabile borsalino, infilare in una valigia le cose di Anna, tra cui l’abito da sposa tirato fuori da una buca nel giardino, e salutare Stromboli, l’isola nella quale avevano scelto di trascorrere la vecchiaia, per andare alla ricerca di quella moglie che aveva caparbiamente voluto e che aveva persuaso al matrimonio con una promessa di felicità.
Un viaggio a ritroso nel tempo quello di Severino, che tenta di rintracciare tutte le persone che hanno lasciato impronte profonde nell’esistenza di Anna, e nei luoghi – ben noti all’autore che li restituisce in tutta la loro tangibile e affascinante bellezza – in cui hanno lasciato porzioni di vissuto.
Scoperchiando verità nascoste di una donna che in realtà non gli è mai appartenuta del tutto, Severino scopre anche aspetti inediti di se stesso, di quel ragazzo con grandi sogni sacrificati alla ponderatezza (tale allora la considerava) di una vita serena accanto alla donna amata. Si accorge che avrebbe potuto essere un altro Severino, avrebbe potuto persino creare una nuova famiglia con un’altra donna fugacemente amata nel periodo in cui Anna, divenuta madre, aveva smesso di essere moglie. Lo seguiamo dunque mentre si lascia sedurre dai dolci, sempre evitati per via del diabete, mentre guarda i luoghi del passato con occhi diversi, mentre getta i vecchi abiti e ne acquista di nuovi – compreso un nuovo borsalino – e in quel gesto assapora altre possibilità, compresa la solitudine, compresa una vita senza Anna.

Sebbene la narrazione e il punto di vista siano prevalentemente quelli di Severino, l’autore lascia ampi spazi ad Anna, affidandoli ad un narratore onnisciente che ne racconta il passato e la vita sbagliata in cui si è infilata con le proprie mani, e qualche capitolo a Peppe (forse con una lieve forzatura, non tanto sul piano delle intenzioni quanto su quello del risultato complessivo) di cui pian piano affiora il vissuto, dal punto in cui ha abbandonato la famiglia, e infine il rimorso che lo condurrà ad un gesto indirettamente risarcitorio. L’amore per la libertà, che Peppe ha inculcato alla figlia che ha avvertito a lui più simile e vicina, qui coincide con la fuga.
Non può quindi essere un atto indolore, c’è un prezzo altissimo da pagare che si traduce nell’infelicità, nelle ferite insanabili e negli interrogativi giganteschi di chi resta attonito ad aspettare. La maternità invece si rivela, sia in Anna che nella madre Serafina, una responsabilità spossante e totalizzante e soprattutto un cappio al collo per i figli sovrastati, sin dal loro affacciarsi al mondo, da un amore soffocante e ansiogeno.
Il linguaggio, fluido e molto gradevole, offre piccole oasi di profondità nelle quali indugiare, crea immagini delicate e zuppe di tenerezza, costruisce dialoghi freschi e spontanei. La galleria di personaggi che emerge dalle pagine con brevi pennellate risulta ben delineata, tanto da poterne conservare un ricordo preciso fatto di caratteristiche fisiche appena abbozzate, gesti, sguardi e parole. Un rosario di brevi incontri in successione che aiuta Severino a ricomporre i pezzi mancanti dell’altra Anna, la donna inquieta e sfuggente che gli è vissuta al fianco per decenni senza mai mostrarsi nella sua autenticità, ma anche il punto di partenza per smascherare l’impostore che lui stesso ammette di essere stato.La libertà individuale è la più preziosa delle conquiste anche quando conserva il sapore acre delle lacrime, ne sanno qualcosa Beppe, Anna e alla fine anche Severino, “un vecchio con una valigia che parte”.
Le promesse estorte in situazioni particolari possono essere infrante come i voti che coinvolgono le altrui volontà, ne sa qualcosa Lucia che altrimenti non avrebbe sposato Renzo.
La fuga di Anna è un’ulteriore conferma di quanto gli scrittori amino indagare sul crepuscolo della vita e farne oggetto di narrazioni attente e delicate. E il pensiero corre al suggestivo e luminoso romanzo di Jocelyne Saucier Piovevano uccelli (pubblicato in Canada nel 2011 e divenuto nel 2019 un film diretto da Louise Archambault), proposto in Italia dalla casa editrice Iperborea, che si spinge fino all’estremo limite delle scelte e delle rinascite possibili.

Mattia Corrente
La fuga di Anna

Sellerio editore
16,00 €
pp.254

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“Tomàs Nevinson” di Javier Marìas

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I crocevia morali di un agente segreto. “Tomás Nevinson” di Javier Marías, Ed. Einaudi

@ Agata Motta, 21-07-2022

E adesso tocca a lui, all’ineffabile agente segreto dalla vita blindata, all’uomo dalle mille identità, al personaggio già conosciuto in Berta Isla al quale il lettore si era legato a doppio filo in una sorta di spiazzante rapporto di attrazione/repulsione.
Con Tomàs Nevinson Javier Marías si conferma narratore raffinatissimo e colto, conoscitore profondo dell’animo umano, conduttore spericolato nei meandri della filosofia morale, maestro indiscusso di tecniche narrative sofisticate e coinvolgenti. La copertina del poderoso volume, edito come il precedente da Einaudi, sorprende l’uomo, del quale possiamo finalmente ipotizzare il viso, in un momento di stanca riflessione, sigaretta alla mano e un filo di fumo che lo avvolge, quasi un pendant visivo della copertina di Berta Isla. Anche il secco titolo, costituito da un nome e un cognome, crea un’ulteriore risonanza nei due volumi che, come lo stesso autore afferma nei ringraziamenti finali, creano una coppia.
Tomàs e Berta sono stati infatti una coppia, prima fidanzati ligi al conformismo della loro epoca, poi coniugi divisi dall’ingombrante lavoro di lui che lo porta a vivere molte altre vite sotto copertura non condivisibili con la compagna di una soltanto di quelle molteplici esistenze.
Se è evidente che Tomàs Nevinson costituisce una continuazione, in termini cronologici, di Berta Isla, è anche vero che i due romanzi godono di vita propria e di una pienezza e compiutezza narrativa che non comporta la necessità di leggerli entrambi, sebbene non farlo sarebbe quasi delittuoso.
Nel primo romanzo Marías ha mostrato la metà oscura di quel rapporto colto dallo sguardo femminile, l’attesa come fulcro esistenziale, l’ovvia curiosità e la necessaria rinuncia alla conoscenza come cifre incandescenti di anni che si snodano avvolti da un manto di cieca e fiduciosa comprensione reciproca, di separazioni che non possono non incidere sui sentimenti e sui percorsi individuali.
Adesso è invece Tomàs che finalmente si svela al lettore, non sarà comunque possibile rivelarsi alla moglie che, con una manovra perfettamente simmetrica al primo romanzo, resterà parzialmente in ombra. La donna lo ha creduto morto per molti anni – questo le era stato riferito dall’ineffabile Bertram Tupra, machiavellico burattinaio dei servizi segreti britannici – ma ritrovarsi sulla soglia di casa, dopo dieci anni, quell’uomo molto amato e mai conosciuto veramente non riuscirà a sconvolgere l’impostazione di una vita in cui da sola ha dovuto andare avanti come donna e come madre.
Berta resterà presente tra le pagine del romanzo come monito amaro per Tomàs, come paradigma di una normalità impossibile e probabilmente mai davvero desiderata. Spetta al lettore, e solo a lui, il privilegio di un varco prospettico dal quale osservare il travaglio interiore di un uomo che si era immaginato monolitico e senza incrinature, le sue battaglie etiche, le sconfitte, gli incidenti di percorso, le parziali vittorie, perché dev’essere subito chiaro che in quel tipo di attività vincere significa guadagnarsi la fiducia o addirittura l’amore di qualcuno per consegnarlo alla discutibile giustizia dei servizi segreti o alla morte.
Ed è proprio questo il nocciolo duro del romanzo, quello che a tratti – specie nella parte iniziale – gli conferisce un sapore saggistico, quello che ne fa una spettacolare riflessione sull’opportunità o addirittura sulla necessità del male per impedire che avvenga altro male.
Bisogna quindi partire dai lunghi aneddoti, un vero e proprio smisurato prologo che, attingendo alla finzione filmica e alla realtà, detta il tema di tutta la narrazione. Uccidere Hitler prima che arrivasse alla follia dell’olocausto sarebbe stata un’azione meritoria di portata universale o sempre e comunque un ignobile delitto?

Il dilemma parte da un vecchio film di Fritz Lang, girato nel 1941 quando ancora gli Stati Uniti non erano entrati nel conflitto. In esso un oscuro cacciatore interpretato da George Sanders si accosta con un fucile di precisione al luogo più sorvegliato della Germania, la villa a Berchtesgaden in cui Hitler si ritirava spesso. L’uomo lo inquadra nel mirino, spara consapevolmente un colpo a vuoto, poi lo inquadra di nuovo e potrebbe stavolta con il suo sparo raggiungere il suo obiettivo. Ma tutto questo non avviene e la Storia prende la strada della catastrofe. Stessa cosa, ma stavolta scendiamo sul piano della realtà, capita allo scrittore Friedrich Reck-Malleczewen che, nel suo Diario di un disperato, racconta come, pur avendo avuto l’occasione e la tentazione di eliminare Hitler con facilità, non lo aveva fatto, sostanzialmente perché lo aveva percepito come “un personaggio da vignetta comica”. Certo non poteva ancora sapere che lui stesso sarebbe morto in un campo di concentramento. Se gli sviluppi futuri fossero stati chiari e lampanti con congruo anticipo, anche uccidere avrebbe avuto un altro peso, un’altra morale, un altro provvidenziale spessore. È l’irreversibilità della morte a creare profonde lacerazioni interiori, l’impossibilità di tornare indietro, di rimettere tutto a posto, di cancellare persino le tracce di ciò che è avvenuto con un momentaneo atto di volontà.
Ecco, il romanzo consiste proprio in questo. Coinvolto dallo stesso Tupra, che lo aveva ingaggiato con l’inganno e che con un altro sottile inganno psicologico lo recluta nuovamente, Tomás è incaricato di scoprire quale tra le tre donne segnalate dai servizi segreti è Magdalena Orùe O’Dea, cinica e spregiudicata terrorista dell’Eta legata anche al terrorismo irlandese, inattiva da diverso tempo ma probabilmente intenta alla preparazione di altre terribili stragi.
Il primo tragico dilemma, per un uomo che ha ricevuto un’educazione all’antica per la quale le donne non si toccano nemmeno con un fiore, è legato proprio all’ordine di uccidere una donna; il secondo all’uccisione di un essere umano del quale si sospettano future azioni illecite senza averne la certezza, di una persona che, pur essendosi macchiata di atroci nefandezze, potrebbe aver scelto la strada della redenzione.
Calatosi nel panni del professore Miguel Centurión, Tomás deve entrare in confidenza con loro. Tutte vivono nella tranquilla e quasi narcotica cittadina di Ruàn, nome fittizio di un luogo del Nordovest della Spagna, e lui deve seguirne le mosse, carpire il segreto di un passato oscuro e sporco di sangue innocente e naturalmente ucciderne una, dopo averla identificata.
La vicenda procede con estenuante, avvolgente e grandiosa lentezza, ancora una volta l’attesa come vera protagonista, sia essa di un cedimento di una delle tre donne che possa portare allo smascheramento sia essa una rinuncia che possa condurre al fallimento della missione. Le ore, i giorni, i mesi sono avvolti dal crescente, colloso disagio del protagonista che, come gli verrà rimproverato da Tupra, sembra aver perso il suo intuito. Tomás annaspa nell’indagine, occupa il letto di una di loro, impartisce lezioni di inglese ai figli di un’altra, divide spazi lavorativi con la terza, collega nella stessa scuola in cui i servizi segreti lo hanno piazzato con quell’identità nuova di zecca.

Javier Marías

Tra un’occupazione e l’altra, Berta si infila nei suoi pensieri, richiamo irresistibile, e non mancheranno brevi pause in cui incontrarla e in cui fingere – la finzione regna sovrana in ogni anfratto di questo prodigioso romanzo – di essere una coppia normale che pianifica gli incontri con i figli, che cena scambiando quattro chiacchiere. Come sempre solo lei, Berta, ha capito, ha colto la sua sofferenza e il suo strazio, ma mantiene il consueto ruolo di muta testimone, di sostanziale estranea al viluppo venefico delle attività dell’antico coniuge.
Sotto il profilo stilistico, al di là del sapiente uso delle strutture sintattiche e del lessico, la vera novità è costituita dalle pagine vorticose e affascinanti in cui Marías realizza un repentino passaggio di focalizzazione da Tomás a Miguel e viceversa, passaggio fluido, accattivante, spiazzante, spontaneo. Sembra quasi che il protagonista si osservi dall’esterno, constati la distanza che lo separa dal nuovo Io, ma vi si cali dentro adottandone parole e punto di vista. Essere due vite contemporaneamente, essere due sguardi, due corpi, due personalità fino a scoprirne infine la sostanziale coincidenza attraverso uno strappo brusco, uno strattone della coscienza non del tutto sopita. E come se non bastasse anche la voce narrante passa dalla prima alla terza persona, a seconda del punto di osservazione, la vicenda da intima e personale si apre all’oggettività fino a spalancarsi sull’universalità delle questioni etiche, sui princìpi essenziali, sulle scelte incontrovertibili, sulle brucianti responsabilità, sui possibili orizzonti.
Sono tanti i personaggi che incrociano il cammino di Tomás verso la verità più probabile e tutti risultano vivi e verosimili, dal politico volgarotto e ruffiano al giornalista ammanicato e ghiotto di piccoli scandali, dal maneggione e abile costruttore allo spacciatore pavido che rifornisce di coca i notabili del paese, ci vuol poco a ritagliarsi un’aura di importanza in un luogo tanto asfittico e ordinario. E naturalmente loro, le tre donne dal passato impenetrabile e dalle personalità diversissime, materia viva dentro cui scavare. Una soltanto è stata una spietata terrorista, ma quale? “La scienza, con tutti i suoi progressi e le sue scoperte, non ha ancora trovato un metodo infallibile per capire quando una persona è sincera e quando mente […] perché il pensiero è ondivago, contraddittorio, sfuggente, e non si stabilizza mai né sta fermo, come le raffiche di un vento vorticoso”.
Della meravigliosa instabilità del pensiero Marías possiede le chiavi e le maneggia con compiaciuta voluttà. Al lettore non resta che l’avido desiderio di tornare ai suoi testi, alle sue parole, alle sue pagine in cui echeggiano i versi del Bardo come un passaggio di testimone da un classico all’altro, perché, tra i classici contemporanei, Marías senza dubbio va collocato.

Tomás Nevinson

Javier Marías
Einaudi
pp.590
22,00 €

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“Anime brevi” di Andrea Dei Castaldi

I guizzi scomposti della vita nel nuovo romanzo di Andrea Dei Castaldi. Barta pubblica ‘Anime brevi’

@ Agata Motta, 18-05-2022

Scritto durante un lungo soggiorno in Argentina, Anime brevi, ultimo romanzo di Andrea Dei Castaldi, pubblicato ancora una volta dall’editore toscano Barta di cui si apprezzano sempre le deliziose copertine, giunge, dopo sei anni di attesa, a concludere la trilogia che, con Finistère (2013) e La cesura (2015), attraversa i grandi temi universali della colpa e del perdono, cui si aggiunge infine l’espiazione come ipotesi “irrisolta” di riparazione post mortem.
Due amici d’infanzia, Pietro e Marcello, si ritrovano dopo trent’anni. Dovrebbe essere festa, invece sarà tragedia. Marcello, che appena adolescente aveva seguito il padre in America Latina, torna nel paese d’origine coronato da un certo successo economico e sociale; Pietro, che invece non si è mai mosso, ha rinunciato alla proprio sogno artistico travolto dal tracollo della famiglia, ma ha ritrovato la serenità grazie a un matrimonio che lo ha sollevato da un lavoro umile per consegnarlo a una bottega in cui gli strumenti musicali potrà almeno accarezzarli, se non proprio suonarli come un tempo. Entrambi hanno costruito la loro vita su segreti e menzogne che rosicchieranno il territorio comune sul quale si ritroveranno ad agire.
Il perno intorno al quale tutto ruota è l’arte, sia essa quella magnificata nella ricostruzione del teatro comunale affidata all’architetta Irene (contraddittorio il destino contenuto nel nome, colei che dovrebbe rappresentare la pace diviene invece strumento di spossanti lotte interiori) e alla sorella scenografa Greta, sia essa quella incarnata dall’opera scelta per il debutto, il Tristano e Isotta di Wagner, sia quella discreta e antica dei liutai perpetuata da Pietro e dal vecchio Chille.
A differenza del romanzo precedente, la voce è quella di un narratore onnisciente che indossa gli occhi e i pensieri più intimi e ingombranti dei personaggi, probabilmente perché l’autore ha sentito il bisogno di consegnare l’idea ambiziosa che sottende il suo romanzo a forme più rassicuranti e salde, quasi a volerlo ancorare a un impianto classico che ne contenesse le forze centrifughe.
In ogni singola scheggia di vita si avverte un guizzo scomposto, un tentativo di sopravvivenza, almeno finché essa non viene consegnata al disegno sotterraneo che ne farà un tassello da collocare nella nicchia che sembra attenderla da sempre. E quando quell’agonia è vista dall’esterno, come se lo sguardo potesse distaccarsi dal corpo e osservarlo con asettica curiosità scientifica, il racconto diventa ancora più lancinante, la possibilità di scissione che si concretizza nella presenza di un altro sé genera dolore puro e la tragedia non offre rifugi catartici.
Delizioso il titolo che, nel suo ossimoro evidente, sembra fornire una chiave di lettura: le anime brevi – come rivela lo stesso Dei Castaldi in un’intervista – sono quelle di chi sente di aver perduto irrimediabilmente una parte preziosa di sé, forse la migliore, e di sopravviverle e ad esse l’autore si accosta per rubare segreti e turbamenti, le pedina nella loro quotidiana relazione con il mondo attraverso sequenze descrittive che arrivano al cesello o le condanna all’eterno dilemma tra ragione e sentimento fino alla chiusura del sipario sulla catastrofe – quella antica che si riverbera su quella presente – che finirà per coinvolgere tutti da attori o da spettatori.
I personaggi agiscono in un presente di apparente normalità – il presente della storia è quello degli anni Ottanta del benessere diffuso e delle grandi manovre economiche – ma i segnali di uno slittamento del piano della narrazione verso il baratro sono disseminati sin dall’inizio. Già durante la festa di compleanno di Irene, in cui i due amici dovrebbero finalmente ricucire il passato, ancor carico di promesse, al presente (un’ampia ellissi temporale occulta la parentesi centrale), l’atmosfera si surriscalda con i polemici commenti dello stranito Pietro allo starnazzante cinismo del commensale di riguardo, un politico tronfio e interessato solo al denaro che stramazzerà al suolo colpito da un infarto. E ne troviamo tanti altri di indizi, che pian piano si trasformano in prove e conferme, quelli più eclatanti durante le feste (la notte di San Silvestro) o le grandi occasioni (l’inaugurazione del teatro restaurato) che, in perfetto parallelismo (uno per ogni atto), si tingono sempre di scuro.
Il vissuto emerge qua e là nel racconto tramite il lento affiorare dei ricordi – che Dei Castaldi sa manovrare con impeccabile maestria tanto da renderli la parte più solida e affascinante del suo edificio narrativo – o in capitoli isolati che costituiscono illuminanti e magnifici flashback. A svettare in un delicato lirismo sono infatti gli uomini e le donne già scomparsi (Sebastiano e Anita, genitori di Pietro) o i vecchi (Chille, la fidanzata respinta di Sebastiano che sciupa la propria giovinezza nella furia vendicatrice) che di quel passato sono custodi o vittime, mentre le figure del presente a tratti appaiono sbiadite (Livio, il compagno di Greta), appena sbozzate ma fortemente carismatiche (Cecilia, la moglie di Pietro) o puramente funzionali all’azione (Manuel, il violento e ambiguo collaboratore di Marcello, il politico Bozzetto).

Andrea Dei Castaldi

Alcuni bellissimi capitoli sono costituiti da fotogrammi che si dilatano a dismisura fino ad espandersi e a straripare; sono percezioni improvvise, sono un lento sporgersi nella propria interiorità, sono domande di cui si conosce la risposta e domande che non osano nemmeno affiorare, sono riflessioni che rischiarano in parte la coscienza, sono sguardi poggiati su un universo che sembra non appartenere più a chi lo abita.
Nel dono che il vecchio liutaio Achille fa ad Irene, un pezzetto di legno situato tra il piano armonico e il fondo di ogni violino chiamato “anima”, è davvero racchiuso il senso stesso della vita, nessuno lo vede ma è indispensabile e davvero “il nome che si dà alle cose non è mai un caso”. E non è un caso infatti la cura maniacale che l’autore riserva al lessico, dietro la scelta di ogni parola si avverte la ricerca, quasi l’ansia di trovare i termini giusti, gli accostamenti più efficaci. Identica attenzione si avverte nella sintassi che cattura il lettore nelle spire di avvolgenti subordinate che lo costringono spesso a tornare indietro per non smarrire qualcosa dentro la densità del testo e per recuperare ogni singolo profondo pensiero. Non è una scrittura sempre agevole quella proposta questa volta da Dei Castaldi, ma complessa e ripiegata su se stessa come il pensiero dei suoi personaggi. E sembra quasi di respirare la fatica, la lotta, il rovello che lo scrittore deve aver ingaggiato con una materia incandescente che si intuisce possa aver costituito per qualche tempo un’ossessione.
Non che sia indispensabile conoscere il Tristano e Isotta di Wagner (una storia particolarmente cara al musicista perché pregna degli echi dell’amore per Mathilde Wesendonck, moglie del suo migliore amico), ma sicuramente aiuta parecchio a penetrare negli anfratti del romanzo che ne è tanto innervato da costituirne uno specchio contemporaneo. La serie di espliciti rimandi al dramma – quasi la sua replica – comincia sin dalla tripartizione in atti (la nave, la selva, la torre), ulteriormente sottolineata dalla preparazione scenografica di Greta che diviene rappresentazione e metafora ad un tempo, fissa in Pietro e Irene i novelli Tristano e Isotta, sostituisce una lettera al filtro d’amore, scandaglia il tema del tradimento di chi si fida (il più terribile nella visione dantesca e degno del cerchio infernale più basso) sino a trionfare nella magnifica sequenza del debutto dell’opera – in un teatro fresco di restauro e sfavillante di bellezza – chiosata dallo sguardo ardente e inquieto di Greta, infausta demiurga. La donna ha portato a termine il suo disegno, ma si accorge di non averne previsto fino in fondo le conseguenze. Consumata dal morbo sacro, al quale ha pensato di poter resistere con un puro atto di volontà, è costretta a cedere e a farsene travolgere, quando ormai tutto intorno a lei è rovina e maceria.
Ma allora il destino esiste davvero come dato incontrovertibile o le vite delle persone si possono manovrare a piacimento? Quanto incide la volontà sui percorsi umani e quanto invece le colpe ataviche? E il perdono può mutare il corso degli eventi o suggella semplicemente la sconfitta degli interpreti dell’insensata tragedia umana? L’autore ventila la possibilità che la redenzione possa arrivare a patto che il dolore la intrida e la accompagni non senza aver prima compiuto il passo più difficile, quello del perdono concesso a se stessi.
La sensazione finale però è quella di un testo non pienamente risolto, forse troppo compresso, come se su molte cose l’autore avesse preferito tacere. Una scelta rispettabile, sebbene rimanga il desiderio di oltrepassare il corto orizzonte che ci ha mostrato queste anime brevi come tremolanti bagliori presto spenti.

Andrea Dei Castaldi
Anime brevi
Barta editore, 2021
pp.224
€ 13,00

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“Le vie dell’Eden” di Eshkol Nevo

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Le vie dell’Eden, l’ultimo romanzo di Eshkol Nevo edito da Neri Pozza

@Agata Motta, 03-04-2022

Scritto durante la forzata reclusione della pandemia, Le vie dell’Eden, ultimo romanzo di Eshkol Nevo edito da Neri Pozza, torna alla modalità narrativa già sperimentata in Tre piani e continua la ricognizione delle presunte verità che l’uomo si racconta per non soccombere e delle colpe mai confessate che rendono sanguinosa l’esplorazione dell’Io.

Tre racconti lunghi in cui le vicende di tre personaggi, giunti ad una sorta di resa dei conti con la propria natura e con le proprie scelte, corrono su binari differenti fino a convergere per brevi istanti o in incontri casuali. Persuaso dalla felice esperienza di Tre piani, l’autore segue l’impulso di assecondarne la forza ipnotica e dirompente, ma nel farlo rinuncia all’effetto novità e smussa la solidità dell’architettura della narrazione, resa esplicita e coesa dalla palazzina borghese di Tel Aviv e dal suggerimento delle tre istanze freudiane, del precedente romanzo. Qui invece è la Bolivia, che racchiude in sé i semi della morte e della rinascita, l’esile punto di contatto delle prime due storie, mentre i loro protagonisti entrano di sguincio nel terzo racconto. Freud o comunque la tentazione psicanalitica non sono lasciati fuori dalla porta perché la confessione e la scrittura di sé restano gli strumenti privilegiati di conoscenza.

Gli accadimenti, attraversati da una moderata corrente di inquietudine, sono comunque trascinanti, perché in sostanza ciò che affascina in Nevo non è l’impalcatura che di volta in volta decide di costruire nei propri testi, ma l’indagine condotta su personaggi che si siedono davanti al tribunale della propria coscienza e che, in questo caso, sono chiamati a difendersi da accuse precise e concrete che arrivano inaspettate come frustate su corpi nudi e inermi.

Omri, un giovane musicista, alto e bello come un vichingo, si ritroverà accusato di complicità in un omicidio; il dottor Asher Caro, un anziano primario vedovo e padre di due figli, dovrà difendersi da accuse di molestie sessuali; una donna, testimone della scomparsa del marito, dovrà dimostrare di non esserne la causa.

Nessuno di loro è colpevole, ma, alla luce di quanto raccontano, neanche totalmente innocente. Bisogna dunque individuare il punto di rottura dell’equilibrio, il momento in cui si capisce che niente potrà più essere come prima e lo scavo dei personaggi apparirà di conseguenza proporzionato alla gravità delle accuse.

Omri, durante un viaggio in Bolivia che rappresenta l’esigenza di assestamento interiore dopo un divorzio che gli ha lasciato ricordi agrodolci e una figlia molto amata, vive la brusca svolta durante l’incontro casuale con una coppia in luna di miele attraverso il pericoloso coinvolgimento erotico e affettivo ottenuto dalla giovane sposa divenuta subito dopo vedova; invece il dottor Caro, per comprendere l’attrazione magnetica provata per una giovane specializzanda, deve ripercorrere a ritroso la relazione con la moglie adorata e cercare l’origine di quello che lui interpretava come istinto di protezione in un atto compiuto molti anni addietro e sepolto nella sua memoria. Allo stesso modo, la donna, rimasta sola e scombussolata ad aspettare invano il ritorno del marito scomparso durante la consueta passeggiata nei frutteti, è costretta a scoperchiare ipotetiche responsabilità delle quali rispondere anche ai propri figli.

Per tutti loro il rientro alla normalità, se tale si può definire ciò che ha subito strappi e lacerazioni, potrà avvenire a costo di dolorose rinunce e di una nuova definizione di ciò che può restituire senso alla quotidianità.

La tradizione ebraica da una parte, presente nell’ultimo episodio tramite l’allusione precisa al Pardès, il giardino dell’Eden di cui si parla nel Talmud, e le istanze di diverse generazioni in bilico tra vecchio e nuovo sono vissute con intensità da un autore molto amato che sa rovistare negli agguati e nelle strettoie di pulsioni non domabili, di giustificazioni logiche atte a tacitare i sensi di colpa, di menzogne lucide indispensabili alla sopravvivenza.

Le vie per l’Eden si mostrano con il loro carico di seducenti richiami e sembrano indicare con chiarezza la strada da percorrere, ma qual è l’Eden che i personaggi di Nevo cercano, quello verso il quale tutti gli esseri umani tendono con la speranza di potervi entrare o quello che ci si è lasciati alle spalle senza averlo riconosciuto? Accade spesso di provare rammarico per le cose a portata di mano che non sono state afferrate, per le parole non pronunciate che bruciano in gola come acido corrosivo, per le fughe del cuore che sono state percepite come bisogni insopprimibili, ma se è vero che il tempo non si srotola al contrario è anche vero che prendere coscienza di ciò che non abbiamo visto o compreso aiuta a sintonizzare mente e corpo in direzione di nuove onde emotive.

Come sempre in Nevo, le parole si poggiano semplici e chiare sulle pagine ma senza ombra di banalità, i dialoghi scorrono agili senza il virgolettato, le interrogative dirette piovono fluide senza l’urgenza delle risposte. Per esse è sufficiente la complicità del lettore che determina, tramite la propria empatica adesione, la riuscita del gioco avviato dall’autore. Gioco senza vincitori, come la vita di ogni essere umano in grado di guardarvi dentro senza inganni.

Eshkol Nevo
Le vie dell’Eden
Neri Pozza editore, Vicenza, 2022
pp. 248
€ 18,00

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“Leonora addio” di Paolo Taviani

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Le ceneri di Pirandello. In sala ‘Leonora addio’ di Paolo Taviani

@Agata Motta, 24-03-2022

Unico titolo italiano al Festival di Berlino 2022 e vincitore del premio FIPRESCI, Leonora addio, ultimo lavoro di Paolo Taviani, giunge in sala in questi giorni e si porge come testamento spirituale di un uomo attento alle istanze politiche e alle trasformazioni sociali che non ha mai cessato di confrontarsi con la grande letteratura e di nutrirsene ma, questa volta, ha dovuto farlo con lo sguardo orfano di quello simbiotico del fratello Vittorio, a cui il film è dedicato.

Il ritorno a Pirandello, dopo Kaos e Tu ridi, denota una scelta cosciente e un abbandono fiducioso a quello che sembra essere divenuto un nume tutelare del proprio percorso artistico e probabilmente esistenziale. Immagini d’epoca mostrano la consegna del Nobel nel ’34 e raccontano la percezione dell’amaro di cui è stata impregnata siffatta gloria. Poi, in un bianco e nero voluto come raffinata scelta estetica e valorizzato dalla bella fotografia di Paolo Carnera e Simone Zampagni che ne accentua i contrasti, Taviani racconta la grottesca vicenda del viaggio da Roma ad Agrigento delle ceneri di Pirandello e ad essa aggiunge, tramite un rapido passaggio in dissolvenza al colore, il libero adattamento della novella Il chiodo, scritta poco prima della morte dell’Autore, in cui è narrata l’atroce vicenda di un ragazzo che uccide una bambina (Pirandello si era ispirato ad un fatto di cronaca avvenuto a Brooklyn) senza alcun motivo, spinto dall’ineluttabilità di un destino che deve compiersi. Taviani però non rinuncia ad una delle sue cifre stilistiche e costruisce invece per quell’assassino adolescente un vissuto di emigrazione dettata dal bisogno, riproponendo in tal modo tematiche sociali care e frequentate e regalando frammenti di cupa bellezza.

Il film avrebbe potuto concludersi con la realizzazione delle ultime volontà di Pirandello, il ritorno delle sue ceneri alla campagna natia, e l’aggiunta della novella potrebbe ragionevolmente apparire incongruente e forzata, ma è una sensazione che svanisce in fretta, basta ripercorrere a ritroso le immagini e cogliere le innumerevoli corrispondenze formali e la compattezza del messaggio, basta guardare ai continui contrappunti visivi e tematici all’insegna del doppio pirandelliano che creano un dialogo ininterrotto tra le varie tessere, sproporzionate e difformi, di un mosaico libero da convenzioni filmiche e da necessità diegetiche.

L’onnipotenza capricciosa del tempo, che rapido attraversa i giorni depredandoli delle quotidiane conquiste o fissandone poche ore indelebili nella memoria, si impone subito nella scena onirica in cui le assorte e desolate considerazioni del protagonista/narratore della novella Una giornata divengono quelle dell’Autore malato e allettato in una stanza/scatola di un bianco abbacinante nella quale gli arredi e la porta sembrano sospesi, come sospeso dev’essere il tempo della morte nei brevi istanti in cui se ne respira la presenza e ci si interroga su come sia possibile morire se appena ieri si era ancora giovani.

Io già vecchio? Così subito? E com’è possibile? Già finita la mia vita? Quale amarezza, quale stupore, quale percezione di ingiustizia in queste parole che dal personaggio scivolano all’Autore affinché diventino quelle del regista novantenne in un gioco di specchi che riguarda ogni essere umano.

E torna ancora il tempo, sovrano assoluto, a ricucire con andamento circolare le ultime scene del film in cui si mostra, in rapidissima successione, l’invecchiamento del ragazzo che visita ogni anno, a mantenimento di una promessa, la tomba della piccola Betty dai capellacci rossi, trafitta dal chiodo caduto “apposta” da un carro. I riferimenti all’opera di Pirandello sono così insistiti e fitti che sarebbe sterile elencarli tutti, essi sono spesso affidati a semplici inquadrature, come quelle contenenti il gioco della carriola (che torna due volte a siglare il tempo della partenza della famiglia emigrante e quello della perdizione del ragazzo) che suggeriscono l’intero universo filosofico contenuto nella novella La carriola, o disseminati in maniera bizzarra, come nel caso del falso indizio legato al titolo del film, quel Leonora addio che rimanda ad una novella del tutto assente sotto il profilo narrativo e visivo, ma riconducibile alla funzione salvifica (e foriera di morte) del teatro e del canto. La vicenda stessa della sepoltura dello scrittore si trasforma in ottima occasione narrativa che Taviani compone pirandellianamente con tocchi grotteschi e umoristici. Ne sono esempi lampanti le sequenze della processione per le vie della città con la piccola bara che contiene le ceneri di un gigante o della partita di “Tressette col morto” giocata in treno.

Ma il regista non dimentica di omaggiare anche film particolarmente amati (Paisà, LAvventura, Estate Violenta, Il bandito, L’Amore Difficile, Il sole sorge ancora, l’autocitazione di Kaos), ne prende in prestito alcuni spezzoni e li innesta nel proprio percorso narrativo per descrivere gli eventi che coprirono il tragico decennio, tra la morte e la riesumazione delle ceneri dello scrittore (1936/46), in cui la guerra e la Resistenza sconvolsero il Paese. Prendono quindi avvio le peregrinazioni del delegato del Comune di Agrigento (un persuasivo Fabrizio Ferracane dallo sguardo dolce e determinato) con le ceneri racchiuse in una cassetta: dapprima il rifiuto del superstizioso pilota americano di volare con un morto a bordo e poi il lungo viaggio in treno al quale Taviani imprime un andamento di pura poesia. Un’umanità da poco uscita dalla guerra, con i volti segnati dalla fame e dalla povertà, appena sbozzata come in certe pagine di Elio Vittorini, si mostra timida e speranzosa in un viaggio di ritorno alle proprie radici o di nuovi inizi, e persino nel ballo non ci sono sorrisi e allegria ma la semplice presenza di una vita che vuole riappropriarsi del suo monotono e tranquillizzate passo.

Che le opere di Pirandello siano state così tanto frequentate dal grande schermo è un fenomeno curioso se consideriamo che il rapporto tra lo scrittore e il cinema, com’è noto, fu piuttosto complesso e contraddittorio. Già il romanzo Si gira del 1916, poi ripubblicato nel 1925 con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore, aveva esplicitato il curioso fascino e il forte turbamento che il nuovo mezzo espressivo esercitava sullo scrittore che talvolta collaborava persino alle sceneggiature altrui o consentiva l’adattamento per lo schermo, non senza perplessità e malcontenti, di sue novelle o romanzi.  Si arrivò al paradosso nel 1930, quando dalla novella In silenzio venne liberamente tratto il primo film sonoro italiano La canzone dell’amore diretto da Gennaro Righelli. Pirandello si era pubblicamente esposto in diverse occasioni con pareri trancianti sul sonoro e il suo ideale di film era stato da lui racchiuso nel concetto di “cinemelografia”, cioè una pellicola che avrebbe dovuto puntare sulla vista e sull’udito in un’unica esperienza immersiva fatta di immagini e musica.

Paolo e Vittorio Taviani

Vero è che poi tornò ancora sull’argomento esprimendosi in maniera meno rigida e più conciliante, ma è probabile che Paolo Taviani, nel tornare all’amato autore, abbia voluto avvicinarsi a quella visione puramente sensoriale, costruendo un film in cui la sceneggiatura è ridotta a ordito essenziale fatto di parole dense e ricche di impliciti, mentre il fluire lento delle immagini si compenetra delle musiche di Nicola Piovani con tenace adesione. Persino nella scena stilisticamente stridente della lite tra le due bambine, anch’essa avvenuta “apposta” come la caduta del chiodo, le parole scompaiono per lasciare il posto ad uno scontro feroce ed epico, con inquadrature fisse, oltre le quali debordano i corpi rabbiosi, o con campi lunghi che sembrano accogliere tori schiumanti nell’arena o gladiatori in attesa che l’imperatore (nel caso specifico il ragazzo assassino interpretato efficacemente da Matteo Pittiruti) ne determini la sorte.

Taviani non sembra cercare in questo film unanimi consensi, chissà quanto poco possa importargli, si limita a consegnare le proprie considerazioni sul Tempo e sulla Morte con un disordine apparente dal quale affiorano rapide intuizioni e limpide visioni. Ha accanto a sé il ricordo del fratello e il genio di un classico. Possono bastare.

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“Donna sulle scale” di Bernhard Schlink

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Ritratto di donna scomparsa: esce per Neri Pozza “Donna sulle scale” di Schlink

@Agata Motta, 24-01-2022

Acclamato e blandito dalla critica che lo ha definito “un filosofo-scrittore”, Bernhard Schlink ha consegnato ai suoi lettori l’ultimo romanzo Donna sulle scale, edito da Neri Pozza.

Questa volta però l’unanime consenso che gli è stato tributato non convince e non sembra pienamente condivisibile. Sarà per la disomogeneità qualitativa o per l’infelice scelta di un argomento non certo originale o per lo snodarsi di vicende che vorrebbero creare suspence e curiosità senza però riuscire nell’intento, ma in sostanza le prime vere emozioni giungono quando la narrazione sta per concludersi.

Una profonda cesura tra un prima e un dopo rispetto all’evento centrale – la scomparsa di una donna e del quadro che la ritrae – cristallizza gli eventi come se tutta la vita che ha continuato a scorrere in mezzo fosse stata soltanto un’ampia parentesi, come se dalla risoluzione di quel giallo a lungo accantonato dipendesse la riformulazione di esistenze in qualche modo spezzate o quantomeno condizionate da quelle scomparse.

Un meccanismo narrativo che era già stato magistralmente collaudato da Schlink, con ben altri esiti, nel romanzo evento del ’95 Il lettore: anche lì esistevano un prima e un dopo, anche lì una donna scomparsa riemergeva dal passato, anche lì interrogativi che aspettavano di essere soddisfatti e il dubbio terribile di essere soltanto vittime di un errore del destino. Ma nel romanzo che ha giustamente entusiasmato la critica e dal quale Stephen Daldry ha effettuato la trasposizione cinematografica The Reader, con Kate Winslet e Ralph Fiennes, il valore aggiunto alla storia della passione di un adolescente per una donna adulta era dato da un’indagine sul periodo oscuro e psicologicamente irrisolto per il popolo tedesco dell’avvio alla normalizzazione dopo la scoperta degli orrori della Shoah.

Ancora oggi Il lettore si configura come una riflessione acuta, lucida, drammatica ed eticamente coinvolgente sulla colpa e sulla responsabilità, è la messa a nudo di azioni nefaste compiute durante la follia collettiva del nazismo, è l’analisi delle ripercussioni di quella follia sulle nuove generazioni che si sono ritrovate sulle spalle il fardello di genitori coinvolti a diverso titolo nella più grande vergogna della storia contemporanea. E poi vi giganteggia l’amore per la lettura che intacca la dura scorza della donna, affetta da un analfabetismo tenacemente nascosto che è simbolo di analfabetismo affettivo. Da questo amore giunge la spinta ad un gesto che vorrebbe essere risarcitorio nei confronti di una delle vittime sopravvissute alla strage di cui la donna si era macchiata. Prima però, nell’immobile silenzio del carcere, si era dovuto compiere il piccolo miracolo della lenta consapevolezza del male compiuto.

Forse proprio per questo, il nuovo romanzo di Schlink delude, forse è proprio da un istintivo e involontario confronto che scaturisce l’insoddisfazione.

Esili personaggi, tronfi, ciascuno a suo modo, del proprio successo professionale, tre uomini – un industriale, un artista, un avvocato – innamorati della stessa donna, si affrontano in un duello verbale e in una successione di azioni spesso moralmente discutibili. Lei invece, che dell’industriale è la giovane moglie, dell’artista la recente amante e dell’avvocato la folgorazione amorosa, si sottrae a tutti perché non vuole essere né un trofeo, né una Musa, né una principessa da salvare. E come darle torto? Restare ingabbiati in una forma che non si è scelta non è esattamente il massimo delle aspirazioni per nessuno e non può esserlo per Irene, bella, giovane e con spiccate aspirazioni ad una libertà di cui non conosce ancora il volto con precisione, ma che ha sembianze vagamente somiglianti alla ribellione.

Al centro della storia dunque un bellissimo quadro – l’autore si sarebbe ispirato ad un dipinto del ’66 di Gerhard Richter intitolato Ema (Nudo su una scala) – che ritrae l’oggetto del desiderio in posa sensuale ed enigmatica: nuda, un piede sospeso nell’atto di scendere il gradino, la testa un po’ china, lo sguardo assorto e quasi rassegnato.

Quadro che a distanza di decenni ricompare all’Art Gallery del teatro dell’Opera di Sidney come un amo gettato nel mare del tempo trascorso con la certezza di tirarlo su con grossi agguerriti pesci, perché l’idea di sanare una sconfitta è ammaliante quanto il canto di una sirena.

Il primo ad abboccare è l’avvocato, all’origine complice involontario di quella scomparsa, che è anche la voce narrante, il meno coinvolto ma il più curioso e il più fragile. L’uomo, del quale non conosceremo mai il nome ma dal quale riceveremo le più aperte confessioni, ormai vedovo e padre di figli adulti, aveva intravisto nella bella Irene la possibilità di salvezza da una vita che si prospettava perfettamente inquadrata, razionale, solida ma tristemente grigia, il fulmine a ciel sereno che avrebbe potuto aprire al fascino irresistibile del punto interrogativo alla fine di ogni giornata, la donna che avrebbe potuto amare nel modo giusto, il modo in cui le donne si aspettano di essere amate. L’uomo, che sentiva di non essere mai stato giovane, si era illuso di poter finalmente indossare la propria età per cominciare a vivere attraverso lei. Ma la vita non sempre tiene conto dei progetti e passa veloce e voltarsi indietro può significare soltanto l’impossibilità di un recupero e la piena coscienza di un rimpianto. Ambivalente sentimento che si rivelerà comune all’avvocato-narratore e agli altri due uomini, ma con una sostanziale differenza: l’avvocato attraverso il quadro cerca la donna; i suoi rivali di un tempo attraverso la donna cercano il quadro, perché tornare in pieno possesso dell’opera significa per l’industriale collezionista fermare il tempo e bloccare nella giovinezza della donna la propria e per l’artista acclamato custodire la più bella opera della propria produzione.

Inutile dire che i tentativi dell’ex marito e dell’ex amante andranno a vuoto, mentre il mesto viaggio a ritroso del narratore avrà un epilogo diverso e in qualche modo compensatorio pur nella sua brevità. Così quel futuro sognato con Irene, che diviene per qualche pagina soltanto una fantasia da raccontare, si porge come la parte più autentica del romanzo, quella che risuona della potente nostalgia e amarezza del non vissuto.

Nessuna simpatia per questi uomini bambini che tentano rabbiosi o compiacenti di impossessarsi dei loro giocattoli del cuore, nessuna simpatia neppure per Irene che però ha tentato un riscatto morale a costi altissimi, più intensa e reale da vecchia e malata che da giovane e bella. L’anziano avvocato, pedante e serio, tutto ragione e calcolo, solo al novantesimo minuto si libera dalla perfetta impalcatura che ha retto le sue scelte conformiste. Dopo aver compreso che l’amore non è solo desiderio ma anche prendersi cura della persona amata, acquista finalmente un suo spessore e solo a quel punto viene voglia di rivolgergli un sorriso.

Da tanta pervicace passione, da tanto rancore, da tanta ossessione però si sprigiona un alito freddo – caratteristica in verità comune a tanta letteratura tedesca – che produce nel lettore lo strano effetto di una fiamma alta cui si avvicini la mano lateralmente: il calore non arriva, il fuoco non riscalda. E neanche il linguaggio, piano, neutro, senza guizzi particolari, controbilancia il materiale non pregevole della narrazione che invece sa farsi diamante nei capitoli finali, quando la mano si sposta sulla fiamma fino a sentirne finalmente l’ustione.

Bernhard Schlink
Donna sulle scale
Neri Pozza editore, 2021
18,00 €

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“È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino

Cinema, Saggistica breve, Paolo Sorrentino, È stata la mano di Dio

È stata la mano di Dio: una psicanalisi catartica

@Agata Motta, 08-01-2022

Con È stata la mano di Dio Paolo Sorrentino apre un capitolo intimo e doloroso della propria vita e lo consegna senza reticenze al grande pubblico come in una liberatoria seduta di psicanalisi necessaria per riesumare fantasmi non pacificati dell’adolescenza. Non stupisce che abbia vinto a Venezia il Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria – né che sia stato selezionato per rappresentare l’Italia agli Oscar 2022 nella sezione “miglior film internazionale”, perché il tratto è felice, la storia delicata, i dialoghi intensi, la recitazione compatta e pregevole, l’ambientazione spruzzata d’affetto, come sempre avviene negli esuli volontari che tornano nei luoghi amati con un carico oscuro di lucida nostalgia.

Giunto fugacemente sul grande schermo per poi passare allo streaming (avallando il perverso meccanismo di agonia del cinema in sala), il film oltrepassa le immagini opulente e le grottesche implicazioni sociopolitiche de La grande bellezza per concedersi uno sprofondamento nei territori noti e battuti delle dinamiche familiari, del disorientamento giovanile, della scoperta delle ipotetiche promesse del destino, dell’esplorazione delle possibili scelte da compiere, della presa d’atto di un patimento devastante che dev’essere scoperchiato e attraversato perché la vita possa continuare a scorrere.

La famiglia Schisa, che è sostanzialmente quella del regista, si muove nella Napoli degli anni Ottanta folgorata dall’arrivo del pibe de oro. È una famiglia come tante, con piccole gioie e sottaciuti tormenti, e lo spettatore impara a conoscerla attraverso lo sguardo limpido del protagonista Fabietto (la focalizzazione, quasi sempre interna e fissa, coincide quindi con quella del regista) alle prese con gli esami di maturità e con un futuro troppo incerto per poter essere atteso con placida curiosità.

Ad una prima parte solare, chiassosa e corale, con molte concessioni al repertorio tipico della commedia napoletana, in cui attori di consumata bravura si esprimono con spontanea naturalezza, si contrappone la seconda, più sussurrata, raccolta, introspettiva, inevitabilmente giocata sulle tappe, talvolta brusche e improvvise altre lente ed impercettibili, che porteranno il colto e taciturno Fabietto – un delicato e tenero Filippo Scotti che ottiene per questa interpretazione il Premio Marcello Mastroianni alla 78ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia – all’emersione dalla coltre d’acqua che rischiava di farlo annegare con il suo strazio di orfano. Acqua che è anche il mare azzurro e straordinario della panoramica d’apertura del film, mare frequentato durante un’infanzia e un’adolescenza affollate di parenti, vicini di casa e conoscenti che costituiscono un’imperdibile galleria di tipi umani che da soli valgono l’intero film.

Al centro la frattura di una duplice morte assurda – i genitori di Sorrentino sono deceduti insieme a causa di una fuga di monossido di carbonio – che coglie di sorpresa come un pugno in pieno volto e che infligge al figlio il dolore aggiunto del permesso negato dai medici dell’ospedale di poter vedere un’ultima volta i genitori morti. E sarà proprio il ricordo martellante di questo commiato sottratto, tirato fuori dal regista mentore Antonio Capuano (Ciro Capano tra il cinico, il paterno e il nichilista) e urlato al mare, la cosa da raccontare, l’episodio degno da consegnare al cinema, il dolore vero dentro il quale raschiare.

Cast in stato di grazia, dunque, diretto da Sorrentino con la consueta cura maniacale, in cui brilla senza offuscare gli straordinari colleghi l’ormai sodale Toni Servillo nel complesso ruolo di Saverio Schisa, marito non proprio esemplare ma sinceramente innamorato della moglie Maria, padre che elargisce perle di saggezza spicciola con la disinvoltura dell’amico scafato, granitico comunista sedotto dalla vita e dalle sue infinite tentazioni, eterno bambino costretto a forza in abiti adulti.

A Teresa Saponangelo è affidato il compito perfettamente assolto di scivolare nel sorriso dolce, nella risata contagiosa e nelle crisi di rabbia (che migrano, attraverso un cordone ombelicale mai reciso, sull’esile corpo del figlio preso da convulsioni durante quelle crisi) di Maria, madre amata con la forza disperata che si rivolge agli affetti strappati, alle figure che nel ricordo assumono un’aura di luce destinata a riverberarsi negli atti e nei pensieri quotidiani.

Luisa Ranieri è la struggente zia Patrizia, richiamo erotico e amore giovanile da proteggere, donna bellissima affamata d’amore e ossessionata dalla mancata maternità che paga un tributo altissimo al marito (efficace Massimiliano Gallo), accecato dal dubbio che la moglie si prostituisca, anche per aver detto la verità (il berretto a sonagli della follia di Pirandello insegna) sul proprio incontro con San Gennaro (un lestofante cui Enzo De Caro dona la credibilità dei suoi candidi occhi azzurri) e con “o munaciello” della tradizione popolare.

Betti Pedrazzi è una superba baronessa Focale, tocca a lei la sequenza più discussa del film, quella dell’iniziazione al sesso del giovane Fabietto, che si concretizza nel dono di una donna anziana senza più sogni ad un ragazzo spezzato dal dolore, un espediente per rimetterlo in sintonia con la vita dopo l’esperienza della morte, un passaggio scabroso, certo, ma sobrio e dolcissimo, in cui l’impossibilità di sedurre con il corpo avvizzito è sostituita dalla potenza perturbante dei gesti e delle parole e dalla magia della finzione.

Biagio Manna, nel ruolo di Armando, è il contrabbandiere dal cuore tenero che svelerà il senso dell’amicizia al solitario Fabietto attraverso la condivisione di una notte spensierata e manigolda nella Napoli poco frequentata dai bravi ragazzi e nello squarcio notturno e deserto di una Capri scenario di apparizioni felliniane, come quella di Kashoggi che si accompagna ad una giovane donna, deludente metafora della triade assoluta dei desideri umani: ricchezza, giovinezza e bellezza. E infine Dora Romano, nei ridicoli e amari panni della superba e altezzosa signora Gentile, l’unica capace di porgere al funerale, come parole di condoglianze, una terzina dantesca tragicamente pertinente, quella che riporta la scritta sulla porta di accesso all’Inferno, la porta che Fabietto ha appena varcato con il suo lutto.

Le parole più delle immagini cuciono la trama, quelle parole così importanti per il Sorrentino sceneggiatore e narratore anche, anzi soprattutto, quando sono poche, scarne, essenziali. Quasi a voler rimarcare il legame tra narrativa e cinema, Sorrentino attinge, per alcuni divertenti aneddoti di famiglia, ad alcuni suoi precedenti libri – i racconti racchiusi in Tony Pagoda e i suoi amici e il romanzo Hanno tutti ragione – che, come acutamente nota il critico Nicola H. Cosentino, “possono essere considerati una specie di incubatrice del regista, una prima stesura di qualcosa che in futuro avrebbe trovato posto nel cinema”.

E davvero certe parole restano scolpite in mente, come quella pronunciata da Marchino (lo scanzonato Marlon Joubert), il fratello di Fabietto, mentre guardano insieme gli allenamenti di Maradona: “perseveranza”, si chiama così ciò che ha reso una divinità il ragazzo argentino in cerca di riscatto. La perseveranza, quella che Marchino comprende di non possedere nei suoi tentativi di fare l’attore, quella che invece bacerà la fronte di Fabietto.

È stata la mano di Dio a salvare Fabietto, questa almeno l’interpretazione dello zio Alfredo (Renato Carpentieri che non lesina la propria solida esperienza teatrale) di quella circostanza fortuita che ha fatto preferire al ragazzo una partita del Napoli in cui rifulge l’astro di Maradona ad un fine settimana nella casa di Roccaraso con i genitori. È stata la mano di Dio, si potrebbe aggiungere, a guidarlo nelle intricate traiettorie che avrebbero potuto trasformarsi in labirinti se fossero state percorse da passi instabili.

Il treno si allontana da Napoli verso la città eterna con lo sguardo fiducioso del protagonista che ascolta in cuffia Napul’è di Pino Daniele. Una città nel cuore e un’altra nella mente.

Com’è andata a finire è sotto gli occhi di tutti.

È stata la mano di Dio

Data di uscita: 24 novembre 2021

Genere: Drammatico, Biografico

Anno: 2021

Regia: Paolo Sorrentino

Attori: Filippo Scotti, Toni Servillo, Teresa Saponangelo, Luisa Ranieri, Renato Carpentieri, Massimiliano Gallo, Betti Pedrazzi, Ciro Capano, Enzo Decaro, Carmen Pommella, Biagio Manna, Lino Musella, Alfonso Perugini, Sofya Gershevich, Paolo Spezzaferri, Rossella Di Lucca, Antonio Speranza

Paese: Italia

Durata: 130 min.

Distribuzione: Netflix

Sceneggiatura: Paolo Sorrentino

Fotografia: Daria D’Antonio

Montaggio: Cristiano Travaglioli

Produzione: The Apartment Pictures

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Madres paralelas di Pedro Almodovar

Madres paralelas di Almodovar: tra maternità, destino e memoria collettiva

@Agata Motta 02-11-2021

Alla maternità come conflittualità mai sanata, come forza creatrice e tornado distruttivo, come evento destinato a segnare nel bene e nel male la vita di una donna ha rivolto il suo sguardo penetrante Pedro Almodóvar che, con Madres paralelas, ha aperto la mostra del cinema di Venezia presieduta dal coreano Bong Joon-ho. Ed è una coincidenza che piace sottolineare questa della presenza dei due grandi maestri che si incrociano a Venezia, perché anche l’acclamato regista premio Oscar per Parasite aveva messo a fuoco la relazione madre-figlio – in una modulazione torbida e viscerale – nell’inquietante Madre, presentato a Cannes nel 2009 ma giunto nelle nostre sale soltanto la scorsa estate. Storie, atmosfere e recitazioni diversissime con un unico elemento comune: non c’è niente di semplice nell’essere madre, non c’è niente di normale in questo affare tutto femminile in cui l’uomo può anche non esserci.

La travolgente Penelope Cruz, che ha conquistato la coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile, infonde determinazione, forza e bellezza al personaggio di Janis, un’affermata fotografa quasi quarantenne, impegnata in una battaglia civile per la conservazione della memoria storica legata ad un oscuro capitolo ancora aperto della guerra civile spagnola. Una fossa comune, di cui tutti nel suo paese d’origine conoscono l’ubicazione, contiene le ossa del suo bisnonno e dei tanti altri desaparecidos catturati dai falangisti in una tragica notte di luglio. Proprio dall’uomo che le apre una prospettiva concreta per l’apertura della fossa, Arturo, seducente antropologo forense interpretato con millimetrica precisione da Israel Elejalde, Janis riceve l’inatteso dono della gravidanza che vive con grande gioia pur nella consapevolezza che la bambina non avrà un padre. Arturo, infatti, è sposato e la moglie è in chemioterapia, cosa che lo induce a non abbandonarla e a ventilare la possibilità dell’aborto a Janis. Ad affiancare senza alcun affanno la Cruz, una giovane attrice rivelazione dagli immensi occhi chiari, Milena Smit, che sintetizza con sorprendente maturità interpretativa il percorso accidentato e complesso di Ana, adolescente dallo sguardo perso e ferito da una doppia ingiuria, quella dell’indifferenza di genitori che la tollerano e la considerano un inciampo alla carriera e quella di una gravidanza che è conseguenza di eccessi alcolici e di uno sporco ricatto sessuale.

Le due donne si conoscono in ospedale ormai prossime al parto. Entrambe sono single e non hanno cercato la gravidanza, ma, mentre la prima vive il momento con entusiasmo, la seconda manifesta malessere e pentimento. E non potrebbe essere diversamente: il concepimento per Janis è stato gioioso, spontaneo e appagante, per Ana invece è stato forzato, innaturale e predatorio. Potrebbero sembrare esse stesse madre e figlia, perché Ana è assetata di quelle attenzioni che non ha mai ricevuto e Janis è lieta di fornire a quella madre/bambina ciò di cui ha bisogno. Ma il loro rapporto, che potrebbe concludersi dopo quelle poche ore di condivisione e di attesa, prenderà una direzione inattesa e conoscerà altre intese. Il destino (ma è davvero proprio soltanto il destino?) le farà incontrare ancora: uno scricciolo ferito a morte che tenta di ricominciare a vivere attraverso l’indipendenza economica e una donna matura che custodisce una menzogna insopportabile. Resteranno insieme ma come coppia, con una bambina da accudire (sì, una soltanto) e un affetto che cresce nella complicità e nella tenerezza. Le grandi bocche fameliche tanto care al regista si incontreranno per baci e parole che pretendono più di una semplice convivenza nella stessa casa, più del reciproco aiuto di due single in difficoltà organizzative.

Dopo Dolor y gloria, gioiello introspettivo e film necessario come personale percorso terapeutico, Almodóvar mantiene in Madres paralelas il rigore e la misura tanto distanti dalla sua prima cinematografia – arruffata, eccessiva e dissacrante – e conserva un equilibrio, visibile persino nelle scelte dei colori e delle ambientazioni, che giova alla pulizia del discorso narrativo e alla compiutezza di un registro registico che appare, in questa fase di maturità artistica, estremamente persuasivo.

Torna, e in questo si riconosce la consueta cifra stilistica dell’autore, l’addensarsi dei fatti, alcuni assai improbabili, quasi bizzarre forzature, che si riverbera negli accadimenti interiori di vite che continuano a scorrere tra verità sottaciute che deviano il corso degli eventi. Tutto in Almodóvar è vita concreta e pulsante, le gioie e le grandi tragedie convivono e si tengono a braccetto senza mai suggerire la rinuncia, unica vera colpa di cui non macchiarsi. Un ottimismo di fondo guida sempre la fantasia creativa del regista madrileno, una luce, che coincide con le varie declinazioni dell’amore, che sorregge e orienta personaggi feriti che non vogliono rassegnarsi a sopravvivere. Succedono molte cose in Madres paralelas dopo l’apparente quiete del primo tempo, ma persino gli accostamenti più inverosimili (una su un milione la probabilità di morte in culla, una su chissà quante quella dello scambio di neonati in ospedale) nelle sue sceneggiature sembrano disinvolti e naturali. Fatti, dunque, fatti assai personali che incontrano fisicamente la storia collettiva nella bellissima sequenza finale in cui un piccolo corteo, di impianto pittorico, porge omaggio alle ossa dei propri antenati, ossa che, in una breve, folgorante visione ridiventano gli uomini di un tempo. Si è figli di una donna, sempre, e si è figli della propria terra, sempre. Un unico grembo partorisce le piccole storie degli individui e la grande storia delle nazioni.

Tornano i luoghi del cuore, la città con i suoi ritmi frenetici e il paese con i suoi tempi dilatati e sospesi, come in Dolor y gloria, e sembra quasi che Almodóvar voglia riprendere un discorso non concluso per dilatarne i confini, per passare dal particolare all’universale, dal dettaglio della propria vicenda personale al campo lungo della storia e dei conti irrisolti con il franchismo e con il debito contratto con i desaparecidos. E in questo passaggio si inserisce la tematica della differenza generazionale che determinerà una grande frattura emotiva tra le donne quando Ana mostrerà disinteresse per eventi lontani da cui non si sente minimamente sfiorata. Ma Ana appartiene appunto alla generazione della memoria informatica a breve termine, del sesso che può assumere le sembianze mostruose del revenge porn, della coscienza sociale che latita se non alimentata.

Tornano gli spazi concessi al teatro, luogo per eccellenza di verità e finzione, e i lunghi monologhi incastonati come gemme nella sceneggiatura che apre un varco al palcoscenico e alla riflessione sul mestiere dell’attore. Qui è la splendida Aitana Sánchez-Gijón, la madre attrice di Ana, a bucare lo schermo, sia quando irrompe nella stanza d’ospedale per annunciare il successo di un provino prima ancora di informarsi della salute della partoriente sia quando esprime la sua vera essenza – piacere a tutti – nel magnetico primo piano che conduce all’ascolto di quel provino che attinge alla magia di García Lorca. Eccola la madre senza istinto materno, una sorta di anti-madre che sceglie la carriera ma che avverte la lacerazione della sua scelta e la condanna negli occhi della figlia. Si può essere madri senza entusiasmo, quasi per dovere e anche questa è una forma di tragedia, perché copione vuole che una madre sia felice di esserlo, a qualsiasi costo.

Tornano i volti di attrici care al regista: Julieta Serrano, come in Dolor y gloria in una breve ma vibrante interpretazione, è una donna ormai vecchia e vicina alla morte che desidera riappacificarsi con il proprio passato di figlia di uno scomparso; Rossy de Palma è la donna in carriera che procura a Janis i servizi fotografici da effettuare ma è anche l’amica del cuore, tanto vicina e coinvolta da suscitare la gelosia di Ana.

Torna a brillare l’universo femminile per il desiderio di indipendenza, per la capacità di lottare, per la predisposizione alla comprensione, e in esso si inserisce la limpida figura di Armando, che si avvicina alla realtà di puro istinto, che spiana lentamente il suo futuro in modo propositivo e, secondo la sua logica, leale.

Sulle vorticose esistenze dei suoi personaggi, che convivono con le proprie colpe e i propri dilemmi morali, Almodóvar non posa mai uno sguardo indagatore e snuda le coscienze senza mai giudicare perché esistono sempre delle valide motivazioni alla base di gesti, parole, scelte. E se anche non esistessero, il regista si limiterebbe a guardare e a riprendere la vita che gli scorre accanto.

Sui resti identificati dei desaparecidos e sul volto inconsapevole di una bambina si posa l’amore, l’unica vera cerniera tra il passato e il presente, l’unica soluzione onnicomprensiva ai capricci della vita.

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