“Berta Isla” di Javier Marìas

 

Vite che si sciolgono nell’oscurità. ‘Berta Isla’ di Javier Marìas, editore Einaudi

 

Berta Isla è un nome di donna, una parentesi aperta e mai più richiusa, una speranza di normalità inseguita con ostinazione.

Berta Isla possiamo immaginarla con le fattezze della bella donna ritratta in copertina. Fuma appoggiata ad una ringhiera e il fumo le nasconde parte del volto. L’immagine svela subito gli elementi fondanti della narrazione – sebbene il lettore non sia ancora in grado di coglierli e decifrarli – e li racchiude in quello sguardo assorto, nella miriade di punti interrogativi che hanno riempito i giorni di una vita sospesa tra l’ansia di sapere e il bisogno di ignorare ciò che potrebbe sconvolgere certezze caparbiamente edificate. E’ solo un richiamo seduttivo che ancora non oltrepassa quello puramente estetico, mentre alla fine si tornerà a fissare quello sguardo con complice amarezza.

Con Berta Isla, ponderoso e bellissimo romanzo pubblicato da Einaudi, lo spagnolo Javier Marìas, che già in Italia era stato apprezzato per il pregevole ma non esaltante Domani nella battaglia pensa a me, raggiunge livelli di scavo psicologico, al maschile e al femminile con identica intensità (cosa non facile o almeno non a tali altezze), che inchiodano il lettore alle pagine con il desiderio rabbioso di rivelare ai due protagonisti, Berta e Tom, ciò che uno non sa dell’altro e viceversa.

Berta e Tom si sono innamorati quasi bambini, in quello sbocciare dell’adolescenza che rende l’amore assoluto e immortale, privo di incrinature, ottuso e irragionevole. Si promettono l’un l’altra senza riserve, in una Spagna su cui incombono le milizie franchiste ma nella quale si accendono le prime fiamme della ribellione, nel mitico 1969 in cui le mode che percorrevano i giovani e l’Europa erano sostanzialmente riconducibili alla politica e al sesso. Studiano in luoghi diversi, Madrid lei e Oxford lui, coltivano grandi ambizioni e possiedono una visione precisa del loro futuro insieme che la lontananza non può intaccare, nemmeno quando concedono le loro rispettive verginità a compagni occasionali. Si amano certo, ma si rispettano sessualmente, come è giusto che sia in una giovane coppia di fidanzati della buona borghesia. Ancora non sanno che la distanza sarebbe stata “la cifra di gran parte della loro vita insieme…insieme ma dandosi le spalle”.

Tom ha una spettacolare capacità di assimilare le lingue straniere e di riprodurre accenti e cadenze dialettali, una dote istrionica che, oltre a provocare il divertimento collettivo degli amici, susciterà l’interesse dei suoi docenti e dei servizi segreti della Corona inglese. Un giovane così non può essere sprecato all’interno dell’ambasciata, un giovane così deve essere reclutato nonostante il suo rifiuto, anche a costo della più abietta menzogna e del più sporco inganno.

Javier Marías

Ci sono vite che sembrano destinate al silenzio e quella di un agente segreto, in modo particolare, deve restare oscura a chiunque, anche alla moglie e ai figli. Il grande segno che questi  “eletti” devono lasciare nella storia dell’umanità, dietro le quinte di guerre – suscitate, deviate, impedite – o di fondamentali acquisizioni di segreti di stato, deve riempirli di un orgoglio che non potrà mai valicare i confini del proprio Io, che non potrà mai essere raccontato e condiviso. I reclutatori sanno quali corde toccare per gonfiare e saturare l’autostima sino a renderla presunzione, come trasformare l’abiezione in eroismo di cui godere in solitudine in una sorta di onanistico titanismo. Solo autori talentuosi sono in grado di affidare magistralmente la voce narrante ad entrambi i personaggi e di intervenire direttamente come narratore esterno quando il racconto deve superare la soggettività delle focalizzazioni interne. Solo grandi maestri della scrittura sanno scavare dentro gli esseri umani e i loro misteri, mantenendo in ombra ciò che non può essere detto e immergendosi in quell’oscurità per rivelare come essa possa vestire i panni del quotidiano, come possa essere plausibile muoversi nel buio con la disinvoltura dei ciechi, che della luce possono fare a meno perché l’oscurità è la loro condizione naturale e non sanno nemmeno immaginarne una diversa.

La moltiplicazione della propria identità diverrà lo status naturale di Tom, l’attesa e la rinuncia ad una parte cospicua della vita del marito sarà quello di Berta.

Ma come può una donna continuare ad amare incondizionatamente un uomo che vive ingannando  persone delle quali estorce la fiducia se non addirittura l’amore, che probabilmente ha ucciso a sangue freddo prima di indossare i panni del marito e del padre affettuoso, che resta lontano per mesi senza fornire notizie impegnato in azioni prive di qualsiasi remora morale? E come può Tom agire con fede e convinzione pur sapendo di non aver potuto scegliere la propria strada, di essere stato costretto ad entrare nell’ingranaggio, di essere stato derubato del futuro che aveva con pazienza e amore cominciato a costruire?

Sono interrogativi che pesano come macigni e infine, per questo novello Mattia Pascal non toccato dalla grazia dell’umorismo, la moglie può ipotizzare (perché le parole tra loro sono sempre state merce rara o oggetto di dissipazione) una consapevolezza  tragica, quella di appartenere “a quel tipo di persone che non sono protagoniste neppure della propria storia… che scoprono che la loro storia non meriterà di essere narrata”.

“E’ il destino delle vite, come la mia e come la sua – conclude Berta – che, come tante altre, stanno solo in attesa”.

Ed ecco che l’immagine di copertina balza adesso agli occhi del cuore: Berta aspetta, la nuvola di fumo avvolge la sua interminabile attesa di donna che intuisce e che preferisce in fondo non sapere, dentro il fumo le vite evanescenti e sulfuree dell’uomo amato, inconsistenti eppure tossiche. Ci siamo ma non ci siamo, agiamo ma è come se non avessimo agito. La filosofia incomprensibile dei servizi segreti ha preso il sopravvento anche nei residui di esistenza reale, molto denaro in cambio della dedizione alla causa e del silenzio. Non ci saranno racconti rocamboleschi da imbandire allo sguardo sorpreso dei figli, né ringraziamenti per il probabile sangue versato, né compensi per chi ha incrociato una strada senza sbocco restandone vittima.

Restano insieme Tom e Berta, sgomenti e impotenti, oltre la morte vera o presunta (meglio non rivelare all’ipotetico lettore), un uomo e una donna vicendevolmente aggrappati senza essersi mai del tutto conosciuti.

Una scrittura corposa e vertiginosamente ipotattica per uno stile intrigante che non lascia niente al caso: un gran bel libro.

Autore: Agata Motta

https://www.scriptandbooks.it/2019/01/02/vite-che-si-sciolgono-nelloscurita-berta-isla-di-javier-marias-editore-einaudi/

Un’estate con Omero di S. Tesson

Rabbia e ricostituzione sullo scudo di Efesto. ‘Un’estate con Omero’ di Sylvain Tesson

I classici e il nostro tempo. Sono ancora attuali, ci insegnano qualcosa?

Prendiamo Omero e i suoi poemi, raccontiamoli alla luce delle vicende contemporanee e il gioco è fatto, magari basta forzare un tantino la mano e puntualmente le pagine irte di poesia del Poeta cieco si prestano a spiegare le costanti dell’animo umano e le dinamiche della sfera sociale e politica attraverso un percorso che procede per analogie e per differenze.

L’obiettivo che Sylvain Tesson, scrittore, giornalista e viaggiatore instancabile, si è prefisso nel suo ultimo saggio Un’estate con Omero, edizioni Rizzoli,è proprio quello di dimostrare per l’ennesima volta (come se esistessero ancora dubbi da dissipare!) che i grandi classici sono tali perché trattano temi universali che possono parlare all’uomo contemporaneo con la stessa efficacia di sempre. Già nella Prefazione, riferendosi ad Omero, Tesson ci ricorda che “ogni evento contemporaneo trova eco nei suoi versi o, per meglio dire, ogni sussulto della Storia è il riflesso di una sua premonizione… In questo risiede il genio di Omero: nell’aver tracciato, nei suoi canti, i contorni dell’uomo. Nulla è mutato da allora”.

L’avventura letteraria intrapresa, che Tesson ritiene indispensabile considerata la battuta d’arresto subìta dallo studio del mondo greco e latino negli ultimi decenni (il mondo della scuola, manovrato  dall’imperscrutabile giudizio di chi ci governa da siderali distanze, ne è, suo malgrado, partecipe e testimone) consiste dunque nella riproposta degli snodi fondamentali della trama e talvolta nella citazione sic et simpliciter dei versi immortali di Omero resi funzionali al teorema che si vuol dimostrare. Il linguaggio è sempre semplice ed estremamente accessibile, la platea dei lettori potrebbe allargarsi anche a studenti volenterosi.

Così, dall’eremo felice delle Cicladi – la scelta del luogo non è ovviamente casuale – l’autore si immerge nella ri-lettura e restituisce man mano le proprie osservazioni prima attraverso l’analisi puntuale dei singoli poemi e poi con focalizzazioni tematiche non sempre coese e talvolta persino ripetitive nella trattazione ma di certo robuste e persuasive nell’impianto. Davvero semplice, ma il meccanismo è tutto qua. Tesson agisce come un insegnante intento a chiosare il testo e a fornire spunti di riflessione ai propri allievi.

Basta essere dotati di una sufficiente cultura classica e si può accompagnare ad occhi chiusi Tesson in questo viaggio nella bellezza, nella poesia e nel divino, un viaggio in cui riafferrare la barra del timone delle nostre vite strapazzate e vorticose perché il messaggio finale si racchiude in questo: Omero insegna a vivere, basta saperlo ascoltare con la disposizione primitiva e ingenua degli antichi che ascoltavano i versi degli aedi. E ascoltarlo con un’attitudine pagana, attitudine che si traduce nell’accogliere il mondo senza pretese o aspettative. “Tutto è bello, quanto si vede, dice Priamo, re di Troia. Sì, tutto è bello e le parole sono asservite a questo svelamento, incaricate di esprimere il caleidoscopio della vita”.

Spontaneamente la nostra preferenza va alla seconda parte del testo, quella meno scolastica, quella in cui l’autore apre nuovi orizzonti interpretativi o illustra il proprio concetto di attualità.

‘Iliade’ del Teatro del Carretto

L’ineluttabilità dello scontro all’interno delle società umane è vissuto come destino di cui la Storia fornisce continuamente prova, il prosperare delle grandi divinità (o dei leader politici) sulle macerie del mondo è un necessario dato costante, la generica questione del bisogno di guerra insito nell’uomo è sempre aperta se si guarda con mente serena l’universo geopolitico nel quale ci muoviamo, l’offesa perpetrata dall’uomo alla Natura si rivela come la più recente guerra di Troia ed è letta come ultimo atto di hybris collettiva. L’uomo pensa di essere un dio o un demiurgo e, così facendo, dimentica l’affermazione del filosofo Protagora che ribadisce invece che “l’uomo è misura di tutte le cose” o almeno dovrebbe esserlo, visto che tra i moniti sempre presenti nei poemi alcuni non tollerano deviazioni: non bisogna turbare l’ordine delle cose, non vanno oltrepassati i limiti, le colpe, spesso legate proprio a queste azioni, dovranno comunque essere espiate.

La tensione tra destino e libero arbitrio costituisce uno dei nuclei tematici più interessanti perché cozza di netto con “la glorificazione dell’autonomia individuale” dei nostri tempi; gli eroi greci aveva compreso che gli “dei conducono la danza”, che si può provare a persuaderli con sacrifici e preghiere ma che alla fine la libertà consiste “nel mettersi in cammino verso l’ineluttabile”, senza che ciò tolga nulla all’incessante movimento verso l’appagamento dei propri desideri, alla  possibilità di scelta, alla spontanea partecipazione alla suddetta danza. Insomma, “vivere consiste nell’andare, cantando, verso il proprio destino” e la sottomissione agli dei guerrafondai e interventisti può persino sollevare l’uomo dalle proprie responsabilità Oggi sottrarsi alle proprie responsabilità sembra l’occupazione preferita dai politici per i quali, senza scomodare il Fato, ciò che non funziona è attribuibile alle circostanze  avverse o a chi li ha preceduti.

Altro nucleo tematico forte è quello relativo all’oblio e alla gloria che conduce, nell’eroe greco, alla necessità della scelta della Memoria, intesa come bisogno di affidare il proprio nome alla Storia e come necessità di riappropriazione di se stessi e delle proprie radici, concetti che oggi suonano assai stonati. Per l’uomo di Zuckerberg- l’inventore di Facebook, cioè della versione digitale dello specchio d’acqua di Narciso – i social network si presentano “come meccanismi di disgregazione automatica della memoria: appena postata, l’immagine viene dimenticata” in omaggio al culto dell’odierno “presentismo”.

In tempi recenti, ci ammonisce Tesson, siamo propensi all’identificazione con la parte debole dei grandi protagonisti del passato e delle loro divinità antropomorfe, con le loro imperfezioni. “Anche il divino e il meraviglioso mostrano i propri limiti”, ecco perché Omero sa essere vicino e familiare. Dovremmo infatti prestare orecchio a chi, come Achille, pur avendo fatto della Gloria il proprio faro e la propria ossessione, riconosce dal buio dell’oltretomba che niente ha più valore di una vita semplice e rimpiange la propria incapacità alla rinuncia.

L’eroe classico comunque resta affascinante per le sue virtù canoniche: la forza, il valore, il coraggio e la bellezza di Achille, l’astuzia, l’arte oratoria, la sete di conoscenza, l’ostinazione di Ulisse. A ciascuno di noi la possibilità di riconoscersi nell’uno o nell’altro, a ciascuno la scelta del poema che meglio riflette l’indole e le aspirazioni: la rabbia devastante dell’Iliade, la ricostituzione dell’ordine nell’Odissea. In fondo sono due facce della stessa medaglia, due aspetti complementari del mondo, quel mondo ricchissimo e vario raffigurato sullo scudo che Efesto forgia per Achille.

Accontentarsi del mondo e nulla sperare ci dice Omero attraverso le parole e i gesti dei suoi eroi, potrebbe sembrare l’atteggiamento pessimista del perdente e invece è la formula giusta per godere appieno dei doni della vita.

Autore: Agata Motta

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2019/01/03/rabbia-e-ricostituzione-sullo-scudo-di-efesto-unestate-con-omero-di-sylvain-tesson-ed-rizzoli/

I romanzi di Andrea Dei Castaldi

Ambiguità del riflesso. Due romanzi di Andrea Dei Castaldi, ed. Barta

 

Gli autori che si scoprono per caso, al di fuori dei grandi circuiti pubblicitari, talvolta possono sorprendere piacevolmente e spingerci magari a tornare sullo stesso editore che ha voluto scommettere su quel nome. Andrea Dei Castaldi è tra questi. Dei suoi due romanzi, Finistère e La cesura, entrambi editi dalla casa editrice toscana Barta con sobrie e raffinate copertine, colpisce il tentativo, portato a termine attraverso percorsi tortuosi e sofferti, di arrivare al nocciolo dei grandi misteri dell’anima, di indagare sulle ragioni di malesseri interiori indotti da eventi traumatici esterni – la morte del fratello gemello nel primo e il trasferimento delle spoglie di un padre sconosciuto nel secondo – da colpe vere o presunte, da oscillazioni affettive che possono determinare grandi passioni e intermittenti solitudini.

Finistère è l’ambizioso romanzo d’esordio di Dei Castaldi, racchiuso in una cornice narrativa di ambientazione settecentesca che fornisce la chiave interpretativa di una storia contemporanea in cui Eros e Thanatos governano i tanti personaggi e si presentano più che come pulsioni da governare come forze da contrastare. Il bisogno intimo di chiarezza del giovane Giona si trasforma nell’inseguimento fisico dell’ex fidanzata del defunto fratello, girovaga in cerca di espiazione e di guarigione, correttamente ritenuta depositaria di verità non rivelate, e in un coinvolgimento sentimentale volto all’impossibile identificazione con la parte morta di se stesso. Un’eclissi solare nella ventosa punta estrema della Bretagna – ognuno possiede una propria personalissima finis terrae intesa come limite invalicabile e confine dell’anima – e, sotto il grande cono d’ombra della stella offuscata, una bambina precocemente adulta e dalla fantasia vorticosa scioglie inconsapevolmente il rebus.

E questo avviene proprio quando Giona si accorge che di quella soluzione avrebbe potuto anche fare a meno, che non ha avuto importanza l’approdo ma il viaggio in quanto tale, l’attraversamento di un dolore che bisognava bere e respirare perché potesse donare il beneficio della cicatrizzazione. La vertigine che risucchia verso l’abisso, fisico ed esistenziale, è spazzata via dal vento implacabile e da uno sguardo che è il riconoscimento di un identico dolore. Il ritorno alla normalità, ovviamente non quella anteriore alla tragedia, trova tutti i personaggi diversi ma finalmente di nuovo padroni dei propri eventuali sbagli e delle proprie scelte. Se nei momenti di grande crisi, quei momenti in cui le passioni tumultuose obnubilano la capacità di razionalizzare e soprattutto di attendere, ci si potesse vedere proiettati nel futuro, con il grande vantaggio del tempo ormai trascorso, stregone e guaritore, forse non si imboccherebbero le vie che portano alla sciagura. Una morale che può assomigliare ad un luogo comune ma che possiede invece la forza di una dirompente saggezza.

Frutto di una lunga gestazione, durante la quale l’autore rielabora e definisce un lungo racconto del periodo universitario, il romanzo appare frammentario e risente di una certa discontinuità di tempra narrativa. I tanti intriganti brandelli di storie parallele che si abbarbicano su quella di Giona talvolta sembrano inseriti di peso, giusto perché sono belli da raccontare. Il romanzo comunque avvince e tiene in bilico il lettore che trova infine conferma alle congetture scaturite dai tanti indizi disseminati nelle pagine.

Ne La cesura troviamo invece una scrittura matura e stilisticamente compatta. Il protagonista, Leo, è stato un promotore finanziario che ha goduto di una privilegiata condizione economica alla quale è arrivato senza particolari scrupoli, ma lo conosciamo in un presente in cui è pesantemente minacciato da una crisi incalzante. Tornato, dopo una lunga assenza nei luoghi del passato, riprende i contatti con le persone dell’infanzia, con quelle che credeva dimenticate e con quelle di cui ha conservato ricordi vivi e preziosi. Una strana lettera lo coinvolge, suo malgrado, in un fastidioso intoppo burocratico che comporta la necessaria risoluzione di un mistero sepolto nella memoria compromessa della madre. Il padre, Ernesto Cacciavento, e un altrettanto sconosciuto individuo che porta il nome di Andrea Balla, sono morti insieme trent’anni prima folgorati da un fulmine (almeno così pare) e insieme sono stati sepolti. Chi è Andrea Balla e perché gli è stato concesso il riposo eterno accanto al padre? La modalità della loro morte ha il vago sentore di una punizione divina o di una irriverente beffa del destino. Pian piano Leo è indotto ad un’imprevista esplorazione di sé, alla scoperta di aspetti caratteriali sconosciuti o messi a tacere e di una vulnerabilità affettiva che credeva di non possedere o comunque di poter dominare.

La riappropriazione delle proprie origini e delle proprie radici genetiche porta sempre uno scombussolamento interiore ed è la strada maestra per una revisione che non può esimersi dal divenire messa in discussione delle certezze acquisite. Lo specchio impietoso sul quale si sporge a guardare sembra capovolgere l’immagine riflessa rendendola ambigua e non troppo rassicurante. Così, se da una parte ferisce chi da sempre lo ha amato ed aspettato o chi ripone fiducia nelle sue parole e nelle sue azioni, dall’altro subisce il fascino magnetico di una donna che forse potrebbe aprirgli le porte al sentimento vero. Come nel precedente romanzo è lo spostamento fisico ad innescare il processo di revisione della propria vita, il distacco da condizioni stagnanti che compromettono l’istinto di autoconservazione. Dev’esserci un motivo se avviene qualcosa e in questa ricerca di senso devono essere indirizzati i passi verso un nuovo inizio. Risultano perfettamente tratteggiati e persino necessari gli altri personaggi: Ignazio, il gigante buono consumato dal dolore per la mancata paternità, la grigia Costanza, spenta e avvilita da un sentimento amoroso destinato alla frustrazione, Roland, il tassista dalle magiche intuizioni, Alma, la madre dalla memoria cancellata da un incidente stradale, Arezu, la persiana dalla pelle color sabbia, il grasso e azzimato Covacich preoccupato a difendere l’efficienza del suo lavoro cimiteriale. Se è vero che si può vivere senza essere felici, è altrettanto vero che non bisogna lasciarsi sfuggire la possibilità di esserlo senza compiere neanche un tentativo in quella direzione.

Tutto torna in questo romanzo ben congegnato, scritto con grande cura lessicale e con uno sguardo garbato e assorto.

In entrambi i testi Andrea Dei Castaldi manifesta un’attenzione costante e quasi ossessiva per gli ambienti e i paesaggi. I personaggi che vi agiscono ne sono fortemente segnati sul piano emotivo, ne colgono echi e vibrazioni e non potrebbe essere diversamente per un autore che vive in un borgo trevigiano amandone ogni piega e anfratto. Pare di sentire il rumore dei passi sulla terra compatta, il fruscio delle foglie, i gridi dei gabbiani, le folate di vento, l’urlo rauco della tempesta e di vedere le chiome logore degli alberi e il colore opaco del cielo. La Bretagna e Trieste si impongono come luoghi lontani dai romanticismi da cartolina e si offrono inquiete, misteriose e vibranti.

Con curiosità e impazienza si aspetta l’appuntamento con il prossimo libro che non dovrebbe essere lontano.

Autore: Agata Motta

https://www.scriptandbooks.it/2019/01/04/ambiguita-del-riflesso-due-romanzi-di-andrea-dei-castaldi-ed-barta/

L’estate del ’78 di Roberto Alajmo

La messa a fuoco della disfatta. ‘L’estate del ‘78’ di Roberto Alajmo, ed. Sellerio

 

Luglio 1978. Via Stesicoro, Mondello. Tempo e luogo in apertura come in una sceneggiatura cinematografica. Sono il tempo e il luogo decisivi, quelli dell’ultimo incontro con la madre, ma il ragazzo,  tutto preso dagli esami di maturità, dagli amici e dalla prospettiva allettante di un gelato, non può saperlo.

Nel romanzo L’estate del ’78, edito da Sellerio e vincitore del Premio Letterario Alassio Cento Libri, lo scrittore e giornalista palermitano Roberto Alajmo, direttore del Teatro Biondo dal 2013, racconta la tragedia personale del suicidio materno, ancora carico di interrogativi irrisolti, con una sorprendente capacità di coinvolgimento che nasce dall’uso originale di una scrittura che con superbo andamento ossimorico si rivela filtrata e sanguinante allo stesso tempo. La distanza offerta dal tempo trascorso e la capacità di avvicinare l’oggetto dell’indagine con precisione entomologica procedono saldamente avvinghiate, mentre il passaggio di ruolo da figlio a padre interviene a sorreggere la narrazione sostanziandola di un passato più recente e fresco e a correggere percezioni e punti di vista. Correggere nel vero senso della parola, perché l’età matura possiede forse quest’unico privilegio: la capacità di tornare sul vissuto e di correggerne le deformazioni nel ricordo per donare luce nuova anche al presente.

L’incontro è diluito e procrastinato sin dalle prime pagine, l’autore non lo racconta in un unico segmento, procede per piccole tappe, avvicinandone l’epilogo con una lenta zoomata. Diversi episodi, considerazioni, ricostruzioni della memoria, che costituiscono in concreto sia l’ossatura che la polpa del testo, vengono inseriti prima della scena successiva che si apre sulla stessa data, sempre in corsivo, e sul punto esatto in cui si era conclusa la precedente, perché una volta consumato, con tutto il suo carico di imbarazzante banalità, quell’ultimo incontro manterrà intatto il suo enorme e sprecato potenziale, il suo pesante fardello di amarezza inestinguibile, ma sarà finalmente messo a fuoco con lucidità, maneggiato con cura e devozione.

Non è semplice per un figlio essere oggettivo nei confronti della propria madre, ma Alajmo, a suo modo, riesce nell’impresa, forse aiutato dalla distanza già scavata inesorabilmente dall’uso dei barbiturici che allontanano la donna isolandola in un territorio invalicabile e intricato.

Conosciamo così Elena Parrino in tutta la sua voracità di vita e di indipendenza destinata alla disfatta, in una bellezza coltivata anche nei momenti di maggiore abbandono, in una modernità di pensiero e di azioni – dall’applicazione degli insegnamenti di Don Milani nella didattica alla richiesta di divorzio in tempi in cui la separazione era ancora circondata da un alone di scandalo – che ne fanno una donna combattuta e affascinante, nell’estremo tentativo di rendere la pittura “lo scopo” della propria vita. Tentativo vano che non riuscirà a sottrarla alla deriva finale, allo scacco matto subìto a soli quarantadue anni e raccontato in pagine di rara bellezza, asciutte, distillate, perfette.

Ma è una morte davvero voluta? Gli indizi convergono in questa direzione, mentre nel figlio resta un varco aperto o forse è solo una ferita dai margini troppo larghi su cui i batteri continuano a proliferare e ad indurre dolore. La triste eredità della vocazione al suicidio, quella che appariva come il lascito più evidente e devastante, è superata grazie alla nascita del figlio Arturo, al quale Alajmo dedica pagine pensose, tenere e rabbiose, come quelle sulle condivisioni cinematografiche e musicali o quelle gustosissime della beata incoscienza del ragazzo nel post Bataclan.

Roberto Alajmo

Di Elena, insomma, restano tracce evidenti nella calligrafia, prima imitata e poi acquisita come propria, e certi lati di carattere come genetica comanda. E resta quell’affetto palpabile eppur lontano, porto ai suoi due figli con discrezione, quasi con vergogna, perché una madre prova sempre un senso di inettitudine travolgente quando non riesce ad abbandonarsi all’abnegazione imposta dal copione sociale.

Alcuni dei momenti più felici sul piano narrativo sono quelli in cui l’autore dà voce alle percezioni collettive, al sentire comune innalzandolo a filosofia del quotidiano con un linguaggio che fa della leggerezza la sua consistenza maggiore. Si va dalle riflessioni sulla vecchiaia prorogata all’estremo con tutto il suo corredo di indignitosa sofferenza all’ipocrisia del dolore incondizionato per la morte di chi in realtà si è già perso nel momento in cui la malattia vi ha piazzato sopra il proprio vittorioso vessillo, dal valore terapeutico del pianto per finzione insegnato al proprio figlio alle diverse declinazioni della felicità sempre e comunque inafferrabile o tardivamente riconosciuta, dalla percezione del momento in cui si acquista la consapevolezza della perdita dell’infanzia a quella traumatica e dolorosa dell’esistenza gelida di un “mai più” che giunge come un avvoltoio a cibarsi della carogna dei nostri affetti perduti. E per il lettore è un continuo riconoscersi in esse: è vero, l’ho provato anch’io, mi è successa la stessa cosa ma non trovavo le parole giuste per dirlo.

Ecco, l’Alajmo scrittore trova sempre le parole giuste e le trova semplici, limpide e belle; l’Alajmo uomo invece le individua con meticoloso scavo, con un disvelamento a tratti impudico ma mai compiaciuto.

Il testo non avrebbe perso la sua efficacia affabulatoria e la sua forza documentaristica anche senza l’ampio corredo di fonti iconografiche e scritte che lo accompagnano; persone e personaggi – tra cui i tanti parenti ben definiti – sembrano convivere in perfetta coincidenza ed è quasi impossibile distinguere il vero dalla finzione, ammesso che essa sia presente, ma autore ed editore scelgono di rendere il patto narrativo ancora più forte per accrescere il gradimento nei confronti di una vicenda personale per la quale l’identificazione è in permanente agguato, per negare spazio a qualsiasi tentativo di sottrazione.

Il dubbio che attraverso la pubblicazione di questa storia il prezzo più alto lo stia pagando proprio sua madre coglie infine l’autore, che forse in tal senso non si sbaglia. Non è dato sapere se e quanto quella nudità di atti e sentimenti, quell’esposizione sotto i riflettori del proprio calvario avrebbe potuto risultare per lei accettabile.

Comunque sia, l’autore ha ritenuto che l’indagine su quella morte andasse fatta e la procedura da seguire, maturata lentamente, avrebbe potuto soltanto essere quella adottata dall’adulto sin dall’ingresso nell’età del sorpasso, quella in cui il figlio può cominciare a conteggiare più anni di quelli materni. Un’indagine attraverso la quale l’uomo ha tentato di restituire una qualsiasi necessaria verità al se stesso orfano. E’ probabile che non sia giunta la catarsi, magari neanche cercata, ma Roberto Alajmo consegna uno dei suoi romanzi migliori, autentico e dolente, ironico e tenero, con la sua consueta scrittura piana e priva di fronzoli, una scrittura che pattina veloce aggirando gli ostacoli e lasciandosi dietro un senso di appagante pienezza.

Autore: Agata Motta

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“Dopo il diluvio” di Leonardo Malaguti

                                                                              Il mestiere del critico. Letteratura

L’attesa del nemico che non c’è. Dopo il diluvio, l’esordio narrativo di Leonardo Malaguti

Il diluvio, si sa, è catastrofe e punizione ma anche preludio di rinascita e rinnovamento spirituale e materiale. Cosa accadrà dunque nel paesetto “costruito dentro una vera e propria scodella” non appena l’ira divina si sarà placata? Leonardo Malaguti nel suo primo romanzo Dopo il diluvio, finalista al Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza 2017, edito da ἑxòrma, si inserisce nel solco bizzarro e molto apprezzato di certa produzione contemporanea (Daniel Pennac, Gianni Celati, Massimo Roscia) che, scollandosi apparentemente dalla realtà, esplora le pulsioni più sinistre ed inquietanti di uomini senza più coordinate – siano esse spazio-temporali o affettive o politiche o sociali – per farne oggetto di dissacrante ironia senza mai perdere di vista l’aspetto ludico della scrittura, l’atto del narrare in sé e per sé. Lo stesso Malaguti rivela alcune delle influenze letterarie subìte, come il Woyzeck di Büchner e Il tamburo di latta di Gunter Grass, ma insiste molto su echi cinematografici e soprattutto di arte figurativa con specifico riferimento al caos brulicante che popola i quadri del fiammingo Bruegel.http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2018/07/09/lattesa-del-nemico-che-non-ce-dopo-il-diluvio-lesordio-narrativo-di-leonardo-malaguti/

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Recensione “Lo spreco” su Scenario

Il sudario delle aspirazioni. “Lo spreco” di Agata Motta

Non c’è richiesta del corpo che possa essere ascoltata. Neppure la sete che forma ragnatele nella gola. Perché lui è lì sul letto, con l’abito della sua ultima festa dentro il quale piano piano si avvizzisce mentre il viso diventa un mucchietto di ossa e ombre. E annega nell’isolamento. Si sentirà smarrito? Si sentirà solo, estreaneo a se stesso, abbandonato, impotente? Avrà freddo? E’ il primo pensiero che passa per la testa: lì dov’è adesso avrà freddo? Gli ebrei pensano che l’aldilà sia un luogo buio e triste, lontano da dio, un posto vuoto. Sarà così? » Read more

Liolà al Biondo

Il burattinaio gretto di Moni Ovadia. ‘Liolà’ al Teatro Biondo di Palermo

Con Liolà, spettacolo di solido impianto e di magnetiche atmosfere che risucchiano in un caleidoscopio di luci, colori, voci e movimenti, si chiude la stagione del teatro Biondo che ha prodotto, in collaborazione con il teatro Garibaldi di Enna e del Teatro Regina Margherita di Caltanissetta, quest’originale e riuscitissima operazione artistica diretta magistralmente da Moni Ovadia e Mario Incudine.

Scritta in una delle fasi più feconde e felici della produzione pirandelliana, Liolà è una commedia campestre in cui moduli narrativi e stilemi verghiani, ben presenti nei tipici motivi della roba e della coralità, cominciano ad incrinarsi per accogliere le riflessioni sull’animo umano e le sue più intime pulsioni e quelle su un ordine sociale retto da convenzioni e da apparenze apparentemente infrangibili. In piena guerra mondiale e con il figlio Stefano prigioniero degli austriaci, Pirandello si butta a capofitto nel lavoro traendone quelle soddisfazioni che il privato gli nega e in quest’opera, che lui stesso definisce la più “fresca e viva”, recupera la trama del IV capitolo de Il fu Mattia Pascal inserendovi alcuni tratti caratteriali e il nome del protagonista della novella La mosca.http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2018/05/22/il-burattinaio-gretto-di-moni-ovadia-liola-al-teatro-biondo-di-palermo/ » Read more

Intervista a Osac, il cane del Klondike

Intervista a Osac, il cane del Klondike

 

Se siete tra quelli che pensano che ai cani manchi solo la parola, non ditelo a Romana Petri, potrebbe irritarsi ed interrompere subito ogni approccio comunicativo. Per la Petri i cani la parola ce l’hanno eccome, basta semplicemente saperla ascoltare e decodificare. Nel suo ultimo romanzo Il mio cane del Klondike, edito da Neri Pozza, la Petri racconta una storia bella e semplice in cui il dialogo tra essere umano ed animale è perfettamente possibile e praticabile. Non c’è dubbio che si tratti di una storia d’amore in piena regola, con tanto di languidi sguardi, di carezze date e ricevute, di abbandono e di sofferenza, di gioia e di promesse infrante. Quella tra Osac, cane di indomita bellezza e incontenibile forza, e la sua padrona, insegnante che vive una delicata fase di passaggio della propria vicenda umana, è una burrascosa passione e la donna appare subito disposta a lasciare che le proprie giornate vengano riplasmate da una presenza caotica, terribilmente affascinante, immediatamente indispensabile. » Read more

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