La rappresentazione di Romana Petri

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Il ritorno della famiglia Dos Santos. “La Rappresentazione”, nuovo romanzo di Romana Petri

@Agata Motta 09/09/2021

Un tempo le rappresentazioni erano sacre, con il loro corredo di significati simbolici e di intenti didattici per la moltitudine incolta, ma già la filosofia ne aveva fatto terreno privilegiato di indagine con interpretazioni fertili e continuamente plasmabili. Ma non sono le varie accezioni filosofiche ad intrigare Romana Petri nel suo recente romanzo La rappresentazione (l’ultimo della saga portoghese che comprende il magnifico Ovunque io sia e il malinconico Pranzi di famiglia), edizione Mondadori, quanto piuttosto quegli elementi in un certo senso teatrali che si biforcano in una duplice direzione: quella della rappresentazione del sé per gli altri, con quei brandelli di certezze che fungono da argine o da approdo quando la ricerca della propria identità annaspa e si frastaglia conducendo a derive esistenziali, e quella della rappresentazione del sé per sé stessi con la creazione di un’immagine rassicurante che possa placare ansie e dubbi e contemporaneamente lenire dolori antichissimi e recenti.

Per i lettori della Petri questo romanzo è un ritorno in famiglia, la famiglia Dos Santos, già seguita e amata nei due romanzi precedenti, e un ritorno nei luoghi cari all’autrice, scorci e dettagli di un Portogallo remoto, carezzevole, fascinoso, dolce ma patinato di nostalgie. Portati via dalla morte i personaggi scomodi e bizzarri (lo schizofrenico zio Humberto e il donnaiolo nonno Manuel Ramalhete), due posti in meno da occupare negli insostenibili ed imbarazzanti pranzi di famiglia ormai ridotti all’osso, la scena è tutta per i tre fratelli – i gemelli Vasco e Joana e la sorella maggiore Rita – per il loro ingombrante padre Tiago, uomo arrogante che ama esibire la propria ascesa politica ed economica,e per la nuova acquisita Luciana Albertini, moglie di Vasco e artista vicina all’apice del successo.

Le relazioni interne della famiglia, già guastatesi con la morte di Maria do Ceu, inarrivabile madre coraggiosa e struggente del primo romanzo, si spezzano quasi del tutto dopo la mostra della Albertini in cui i membri della famiglia del marito vengono ridicolizzati e i freschi sposi sono costretti a trasferirsi nella Roma della Garbatella in cui la vorace artista va a caccia di altre aspirazioni con l’inseparabile Barabba, anziano cane quasi umano (un Osac più domestico e saggio, per i lettori de Il mio cane del Klondike) in grado di dialogare con la padrona con sguardi assai significativi e sempre complici.

Ma l’amore, più di ogni altra cosa, è esso stesso rappresentazione: come mostrarsi all’altro? Nei propri lati migliori e seducenti o in quelli più oscuri e misteriosi? E non sarebbe meglio essere sé stessi? Forse sì, ma bisognerebbe sapere con certezza chi siamo stati, chi siamo adesso e chi saremo in futuro.

Il passato di Vasco (e in parte quello della gemella) è tutto racchiuso in un grumo corrosivo di rabbia e di rimpianto per una madre che ha fatto della cura della primogenita sfortunata Rita (nata con il volto sfigurato e costretta a subire decine di dolorosissimi interventi chirurgici) il proprio credo, fino al punto di rendere gli altri due figli invidiosi di quella deformità che assorbiva tutte le attenzioni e le energie materne; il presente è occupato da quella piccola donna geniale che è entrata nella sua vita come una folata di vento rigenerante e, in un angolino appartato della mente, dal sogno, sorgente e agonizzante, dell’apertura di una galleria di travolgente successo; il futuro è ovviamente un’incognita per tutti, ma su Vasco è semplice effettuare previsioni, perché nel pantano stagnante in cui si muove con indolenza gli unici sassi gettati ad incrinarne la superficie sono quelli di un cucciolo di gatto di cui innamorarsi perdutamente (la versione felina e giovane del vecchio Barabba su cui regnare da sovrano incontrastato) o quello costituito dalla voce da sirena della sorella gemella, amata in maniera morbosa, che lo calamita a sé con la speranza di spezzare lo scomodo legame con la moglie italiana che ha infangato la famiglia e con quella di ottenere finalmente l’attenzione e la gratitudine paterna.

L’amore, dunque, si diceva, l’amore dall’aperto sipario in cui recitare per sé stessi e per l’altro.

Così mentre la Albertini (quasi sempre chiamata per cognome dalla voce narrante in un sopravanzo di rappresentazione) indossa il suo cliché artistico con leggerezza e convinzione interpretandolo fino a farlo suonare falso e istrionico, il bellissimo Vasco dalla malconcia dentatura (che non mostra mai per non appannare la propria alta considerazione estetica) studia diversi copioni alla ricerca di un ruolo da protagonista senza trovarne nessuno adatto alle proprie esigenze di vita comoda e lussuosa a ridottissimo dispendio di energie. Il richiamo della terra d’origine è sempre più forte, come quello della gemella Joana, che ha dovuto subire l’onta del tradimento del marito (presto restituita al mittente) nonostante la perfetta bellezza, e dell’odiato padre Tiago, detto il “Dinosauro” per il suo autoritario conformismo, che possiede l’innegabile pregio di un portafoglio sempre gonfio di denaro e di carte di credito cui poter attingere dopo essersi umiliati a dovere.

Tra tutti i personaggi scolpiti dalla Petri svetta, per puntualità di analisi e capacità introspettiva, Vasco, riconducibile alla moltitudine di inetti della letteratura primonovecentesca (o, se vogliamo andare più lontano, il riferimento d’obbligo è Oblomov del russo Ivan Aleksandrovič Gončarov) fratello nel “sentire” la vita e le sue lusinghe di Mattia Pascal e parente stretto nella percezione delle proprie inadempienze di Zeno Cosini, un mix irresistibile di narcisismo e autocommiserazione in costante lotta con le schiaccianti figure del padre (ed ecco fare capolino ancora Italo Svevo e un po’ di Franz Kafka) e della moglie che rappresenta il porto materno da una parte e la fonte perenne di invidia mal repressa dall’altra.

Talvolta sembra quasi che la Albertini funzioni più come polo oppositivo del marito che come personaggio a sé stante e tutte le stravaganze compiute per “esigenze di identificazione” – calarsi nel personaggio di Teresa d’Avila, in una sorta di applicazione del metodo Stanislavskij nel campo artistico, e percorrerne quasi le impronte per dipingere dei quadri sulla santa – non la rendono più autentica. E in questa direzione non aiuta neanche il proposito, ad un certo punto non più perseguibile per motivazioni superiori, di uccidere chi ha causato la morte dell’amato padre. Quelli che avrebbero dovuto essere i suoi punti di forza, lo sguardo candido e privo di malizia, l’amore assoluto per l’arte, l’indulgenza nei confronti del marito francamente un po’ cialtrone, la rendono quasi un’aliena, tanto che la coalizione dei Dos Santos contro di lei, che, come acutamente nota Joana, non hanno bevuto le sue “pose” artefatte ed esibite, sembra quasi un necessario (quanto immorale) atto di epurazione nei confronti del “diverso perturbante”. Ed è quasi un paradosso, perché il personaggio della Albertini ha una sua dichiarata fonte di ispirazione nell’omonima artista perugina amica dell’autrice e se da un parte ciò rende perfettamente credibili i tortuosi percorsi mentali di elaborazione dei dipinti, grazie ai quali il lettore viene risucchiato dal processo creativo, dall’altro stride l’adesione all’immagine in fondo scontata di artista un po’ matta ma geniale che si delinea senza strappi o evoluzioni. Evoluzione invece presente e ben articolata quando sotto il riflettore non è più l’artista ma la donna innamorata e poi delusa, infine pronta ad una ripartenza che contiene già in sé un’eco del perduto amore.

Superata la fase della rabbia e forte del calore ancor presente emanato dal privilegio dell’abnegazione materna, Rita invece continua a piacere e a convincere nell’affetto discreto dispensato ad una famiglia che sostanzialmente la tollera, nella gestione oculata del suo denaro, nella consapevolezza che quel poco di bene che le arriva è una concessione della vita e non un diritto, nella rinuncia a qualsiasi compenso risarcitorio nei confronti di una natura per lei tragicamente matrigna.

La limpida scrittura della Petri rende compatta la partitura narrativa che si snoda senza mai incespicare e spinge il lettore ad inoltrarsi velocemente tra le pagine. Talvolta torna su temi e motivi già esposti con piccole modulazioni, perché anche nella vita vera ciascuno possiede pensieri ricorrenti ed ossessioni che costituiscono nuclei importanti della personalità e pezzi ineliminabili di un vissuto talvolta indigesto.

A conclusione di questo lungo, avviluppante percorso nella trilogia della Petri, non ce ne vogliano gli altri personaggi, ci piace conservare la tua immagine, Maria do Ceu, che guardi e sorridi da lontano carezzando il volto martoriato della tua Rita. Ovunque tu sia.

Romana Petri
La rappresentazione
Mondadori 2021
Pagine: 408
€ 20,00

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Danteide di Piero Trellini

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Il succulento stivale dantesco. ‘Danteide’ di Piero Trellini, Bompiani editore

@ Agata Motta (28-07-2021)

Cosa si potrebbe scrivere sul Sommo Poeta senza rischiare di sembrare ripetitivi, banali, pretenziosi? Come tirare fuori dal cappello qualcosa di originale dopo le migliaia di pubblicazioni che  hanno esplorato e interpretato ogni riga della sua produzione letteraria?

Impresa impossibile, anzi quasi impossibile, perché in  Danteide, un’opera edita da Bompiani per la quale appaiono improprie e limitative sia la categoria del romanzo che quella del saggio, Piero Trellini, giornalista e già autore Mondadori con La partita. Il romanzo di Italia-Brasile, riesce a parlare di Dante quasi senza parlare di Dante, o meglio – come lo stesso autore spiega – prova “ad accantonare la sua vita e ad esplorare il mondo in cui, per poco più di mezzo secolo, quella vita ha abitato”.

Dante è un uomo eccezionale vissuto in un contesto storico altrettanto eccezionale: quello universale dello scontro tra le autorità supreme – papato e impero – e quello italiano della emergente realtà comunale che vuole imporsi su quella feudale con tutto il suo corredo di re, papi e imperatori pronti a fiondarsi sul succulento stivale. Già il titolo rimanda all’epica e Dante stesso, nell’immagine che di sé fornisce al lettore, vuol porgersi come personaggio epico (“superdante” lo definisce Trellini), in qualche modo si autocelebra nell’eccezionalità di un viaggio che la grazia divina non avrebbe potuto concedere ai comuni mortali.

Il testo si apre in modo bizzarro con il ritrovamento, avvento nel 1865, sesta ricorrenza del centenario dantesco, di una cassetta contenente le ossa di Dante e si dilunga sul delirio di analisi e misurazioni che privilegiano la scatola cranica, il magnifico contenitore di cotanto ingegno. Si ipotizza il peso del cervello e si compara a quello di uomini comuni o di altri personaggi illustri, i luminari dell’epoca si aggirano indaffarati intorno ai preziosi resti mortali del sommo poeta e infine si concede ad essi la definitiva sepoltura nel luogo destinato già da secoli: la basilica di San Francesco a Ravenna. Ridata pace alle spoglie, Trellini si avventura nella minuziosa – maniacale per la verità – ricostruzione del contesto storico, sociale, politico, economico, climatico che precedette la nascita di Dante e di quello coevo all’infanzia, alla giovinezza e all’età adulta, con un’ovvia incursione nella biografia di Beatrice e Gemma Donati, le due donne, quella angelicata e quella reale, che segnarono la vita poetica e quella quotidiana del poeta.

Gemma Donati

Trellini si aggrappa a tutto quanto abbia un fondamento di realtà, dagli studi scientifici alle testimonianze dell’epoca, dalle cronache agli annali, dai rogiti ai testamenti, dai memoriali alle fonti iconografiche per un totale di 4953 documenti in un continuo e sinuoso intersecarsi di materiali eterogenei (l’elenco bibliografico è tanto lungo e argomentato da costituire un capitolo a sé stante), che a suo parere risultano più veritieri e attendibili delle scarne notizie sulla vita dell’Alighieri che in realtà manca di una robusta documentazione. Manovrare una mole tanto vasta di informazioni talvolta nasconde insidie dalle quali Trellini non riesce a sfuggire totalmente e alla lunga alcune pagine si fanno pesanti e l’elenco infinito di nomi, scontri, battaglie, vendette, matrimoni combinati, parentele crea confusione, l’attenzione del lettore si sforza nel mantenere compatto il filo di una narrazione che divaga, si apre a digressioni tortuose per poi tornare al nucleo centrale e non sempre giova la maestria nell’alternanza di periodi complessi o estremamente scarni o il sottile velo di ironia di cui spesso è intriso il linguaggio, talvolta semplice e scorrevole altre altisonante e dal lessico desueto. L’autore intuisce la possibilità di confondere il lettore e introduce i brevi capitoli con qualche ammiccante riga riassuntiva o addirittura con ampi e dettagliati schemi che potrebbero vagamente somigliare alle mappe concettuali di scolastica memoria. In moltissime pagine sembra quasi che ci si allontani dal punto di partenza e che nel parlare dei personaggi che ruotarono intorno a Dante e alla Commedia si finisca con l’emarginare proprio Dante, che, come sottolinea Trellini, è l’oggetto dell’indagine “in quanto uomo nel suo tempo”. Ma è proprio questo il fascino del testo, la sua specialissima peculiarità che lo rende ghiotto agli appassionati che possono trovarvi infinite sollecitazioni intellettuali.

Forti e molto coinvolgenti appaiono infatti i capitoli dedicati ai personaggi immortalati nella Commedia, come Sordello, Farinata degli Uberti, Federico II, i membri della famiglia Donati, il conte Ugolino, Bonagiunta Orbicciani, Bonconte da Montefeltro, Carlo d’Angiò, Corradino di Svevia, Costanza d’Altavilla, Bernardo di Chiaravalle (l’inventore della “licenza di uccidere” concessa ai Templari attraverso la teoria del malicidio) e moltissimi altri, uomini e donne giunti a noi attraverso i versi danteschi dei quali emerge il complicato e talvolta rocambolesco vissuto da cui il poeta ha consapevolmente isolato segmenti, intrisi di giudizi morali connessi alla propria concezione politica ed etica, quei segmenti che meglio si prestavano al disegno globale dell’opera o all’edificazione della propria immagine da consegnare ai posteri. A dominare su tutto la caparbia volontà di un’affermazione letteraria che doveva sembrare al Poeta urgente e assolutamente legittima.

Bellissimi e intriganti appaiono i capitoli dedicati alla nascita del dolce stil novo, con il riferimento a studi autorevoli che riportano all’eresia catara (mai citata e condannata nella Commedia) e alla relazione creata tra poeti che usando un linguaggio metaforico forse non alludevano all’amore per una donna ma per un’idea impossibile da rivelare al mondo senza pagarne le conseguenze estreme, alla battaglia di Campaldino e alla figura tutta umana del milite Dante, all’ingresso nella vita politica segnato dalle figure di Giano della Bella e del maestro Brunetto Latini, alle costanti difficoltà economiche che determinarono alcune scelte e alcuni passi altrimenti non compiuti, alle origini delle discordie tra Cerchi e Donati, alla forte influenza delle fonti islamiche nella struttura della Divina Commedia, all’ultima difficile missione che gli costò la morte per malaria. E poi ancora, i capitoli resi persino divertenti da un sarcasmo sparso a piene mani come sale sull’insalata sugli intrallazzi che portarono all’elezione dell’eremita Pietro da Morrone al soglio pontificio con il nome di Celestino V e quelli sullo scellerato e megalomane successore – in realtà costruttore della propria  elezione – Bonifacio VIII.

Danteide non aggiunge molto alle conoscenze sin qui acquisite, ma dalla combinazione di tutti i materiali consultati e sviscerati, dal loro armonioso comporsi in quadri straripanti ma perfettamente coerenti al disegno generale, dal tono semiserio della narrazione emanano uno spudorato e mai compiaciuto amore per il Poeta e un piacere giocoso e allegro per il complesso e innovativo metodo utilizzato. La sensazione netta è che Trellini abbia molto studiato senza mai rinunciare al divertimento, che abbia inventato un suo personale e gratificante modo di intrattenersi con la pandemia (il libro è stato redatto durante i lunghi periodi di isolamento e moltissimo materiale è stato consultato in rete) che, a differenza di quanto invece è stato fatto da moltissimi scrittori ripiegati sull’interiorità e sugli effetti del virus nelle relazioni umane, ha aperto le porte al mondo, affollato e brulicante di fatti e persone che quasi sentiamo respirare, e al tempo, srotolato nella direzione di un passato lontano che percepiamo vivo e pulsante.

La grande storia e le vicende personali di un uomo che farà grande agli occhi del mondo la letteratura italiana si intrecciano in modo sorprendente come fili di ragnatela fino all’esilio, punto di snodo senza ritorno, senza il quale probabilmente la Divina Commedia non sarebbe mai nata.

Dopo la condanna Dante non sapeva dove andare e la sua vita era perduta: ma ormai aveva con sé tutto ciò che gli occorreva. Era nella sua testa.

Piero Trellini

Danteide

Bompiani editore

20,00 €

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Patria di Fernando Aramburu

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Lo struggimento dell’ultima volta. Patria di Fernando Aramburu

@ Agata Motta (16-06-2021)

Uno sparo come tanti, un attentato dell’ETA come tanti, una notizia come tante, di quelle che fanno tendere le orecchie per pochi minuti, provare uno spasmo di compassione per la vittima e poco dopo abbassare la saracinesca dei pensieri con un’alzata di spalle su un evento che non è il primo e, si dà per scontato, non sarà l’ultimo.

Quello sparo è il fulcro narrativo sul quale Fernando Aramburu, apprezzato scrittore spagnolo, fa ruotare la preziosa partitura di Patria, edito da Guanda e insignito di numerosi premi tra cui lo Strega Europeo 2018, un romanzo straripante e contenuto allo stesso tempo che mette a fuoco la lunga parentesi del terrorismo indipendentista basco e la sua conclusione con uno sguardo assorto e accorato che stringe in un unico abbraccio vittime e carnefici come se fossero parte di una stessa incandescente materia, pedine di un gioco dell’oca che non prevede traguardi da raggiungere ma un continuo avanzare ed indietreggiare sul cartellone geopolitico di uno dei capitoli più sanguinosi e controversi della storia recente. Un unico abbraccio che non ha un sapore risarcitorio o assolutorio, a seconda della parte in causa su cui si concentra l’indagine emotiva, ma che indica una precisa volontà di fusione tra esseri umani che parlano orgogliosamente la stessa lingua e che vivono un unico dolore esacerbato dall’odio, che mostra la strada dell’incontro, del perdono e della reciproca comprensione nonostante le oceaniche distanze che hanno consentito e nutrito una guerra fratricida. Aramburu rifugge dall’uso di facili espedienti atti a suscitare empatie e consensi, ma si limita a registrare in modo asciutto situazioni e stati d’animo, torna più volte, come in una sequenza cinematografica riproposta con variazioni talvolta appena percettibili, su quello sparo e sulle conseguenze devastanti che avrà sulle due famiglie coinvolte: quella del Txato, il piccolo imprenditore restìo a piegarsi del tutto alle sconcertanti ed esose richieste di finanziamento della lotta armata, e quella dell’amico fraterno Joxian, padre del terrorista coinvolto nell’attentato. I mondi, un tempo convergenti e in perfetta armonia, dei protagonisti si allontanano all’improvviso, polverizzati dall’eco insostenibile di quello sparo, dilaniati da ragioni opposte e da polverosi silenzi che pesano sulle coscienze come zavorre senza possibilità di redenzione. Un breve riposo pomeridiano, un caffè riscaldato, un saluto frettoloso, pochi passi e lo sparo. Gesti semplici e quotidiani che si caricano dello struggimento dell’ultima volta: l’ultimo riposo, l’ultimo caffè, l’ultimo saluto, gli ultimi passi e il penoso carico delle parole non dette, degli impegni sospesi, dei progetti non più realizzabili, dei sentimenti pudicamente dominati che dopo vorrebbero urlare a gran voce la propria intensità.

Dopo la bizzarra parentesi de Il trombettista dell’Utopia, romanzo che indaga sulle relazioni familiari – un’ossessione intima per Aramburu –  sulle ambizioni frustrate e sulle opportunità che possono presentarsi all’improvviso come inaspettate alternative di vita, lo scrittore, che da tempo vive in Germania, con Patria esplode come un bengala nel buio della notte raggiungendo vertici artistici di rarissima intensità. Aramburu ha avvertito l’esigenza di esplorare il proprio universo di appartenenza territoriale attraverso una ricerca minuziosa e puntuale di fonti e informazioni con la consapevolezza sempre presente di riaprire crepe dolorose su un terreno tanto arido quanto friabile e ferite mai sanate in chi quel periodo ha vissuto con costante sconcerto o con fiduciose attese di riscatto. E vi ha innestato, senza nasconderlo, tantissime occasioni di riflessioni universali che il lettore, grato, non può non cogliere ed apprezzare.

La narrazione si snoda in capitoletti che avanzano nel tempo per poi tornare indietro in flashback per lo più germogliati da associazioni emozionali, flashback che ripropongono spesso gli stessi fatti ma offerti da differenti punti di vista per coglierne  il diverso riverbero nelle coscienze dei personaggi. Intrigante ed efficacissimo risulta il linguaggio semplice e pulito – paratattico o più articolato in ritmi sempre diversi, quasi una sinfonia – che passa dalla prima alla terza persona nello stesso breve capitolo, anzi, attraverso uno stupefacente miracolo sintattico, nello stesso periodo e il lettore avverte come una piccola intrusione del personaggio che reclama la possibilità di esprimersi senza l’intermediazione del narratore esterno, di testimoniare piuttosto che delegare ad altri il racconto delle proprie percezioni, di ricostruire attraverso la  propria personalissima ottica le angosce senza fine del lutto e della colpa, di ripercorrere instancabilmente gli attimi che hanno determinato lo stravolgimento di tante vite.

Anzitutto quelle di Bittori, la vedova, e di Miren, la madre del terrorista, entrambe figure indimenticabili di gigantesca statura: la prima impegnata in una caparbia ricerca di verità irta di insidie sentimentali, la seconda incaponita in un amore materno viscerale che non sente ragioni e che non si piega neanche all’evidenza della violenza; la prima, tentata in gioventù dalla religione e dalla vita monastica, se ne allontana, perché non può esistere un Dio che consenta il Male o che lo contempli con indifferenza, la seconda nutre i suoi deliri di una spiritualità che sconfina nella superstizione, dialoga con i santi e con un anziano sacerdote in grado di individuare giustificazioni al sangue versato nella lotta. Tutti comunque saranno risucchiati da quello sparo – i figli della vittima e i fratelli del terrorista – tutti condizionati irrimediabilmente da quell’attimo che imprimerà una sterzata brusca e decisiva a percorsi apparentemente piani e senza ostacoli. Xabier, oppresso da un senso di responsabilità che gli impone la cura premurosa per la madre vedova, diverrà uno scialbo medico votato al lavoro, con una relazione amorosa che non saprà mantenere e la tendenza a trovare conforto nell’alcol senza però divenire alcolizzato; la sorella Nerea, coccolata e molto amata dal defunto padre, non presenzierà nemmeno al suo funerale, stritolata tra il desiderio di mantenere intatta nella memoria la solare immagine paterna e il timore delle conseguenze che potrebbe avere il suo essere figlia di una “vittima del terrorismo” sui nuovi amici di Saragozza. E poi ci sono gli altri, gli ex vicini di casa, gli ex compagni di gioco: Arantxa, che assisterà impotente alla dissoluzione della sua straordinaria bellezza dopo un ictus paralizzante, l’unica in grado, nonostante la malattia, di tessere incessanti trame di riconciliazioni, e Gorka, l’introverso fratello minore che farà della scrittura in lingua basca la sua personale forma di affezione alle radici e che riuscirà lentamente a rivelare alla tradizionalissima famiglia la propria relazione omosessuale. Ognuno insomma reagirà a modo proprio, con la rimozione, il silenzio, il vitalismo, l’ostinazione, la rinuncia, la fuga, ognuno cercherà risposte analgesiche senza necessariamente avere la fortuna di trovarle.

Impossibile resistere alla tentazione di restituire per  immagini  personaggi così vivi e storie così travolgenti, per cui è sembrato del tutto naturale trasformare le pagine  in una serie tv, disponibile (in spagnolo) in streaming in otto episodi che presto potrebbero approdare anche in Italia.

Bisognerebbe dimenticare la Patria, se essa significa odio e violenza, e ricordare di appartenere al Mondo. O forse basterebbe guardarla da lontano e con occhi nuovi, cercare di comprenderla senza giudicare, leggerne le contraddizioni senza lasciarsene travolgere, amarla senza comode indulgenze. Bisognerebbe avere la capacità di accettare un evidente dato di fatto: oggi la Patria non può più essere quel romantico concetto ottocentesco che ha fatto insorgere popoli e sventolare bandiere, oggi la Patria dovrebbe coincidere con lo Stato al quale sentiamo di appartenere, con la casa interiore da portare sulle spalle come le chiocciole, con il luogo dello spirito più che con quello del corpo. Senza dimenticare la propria lingua (o meglio ancora il proprio dialetto), gli autori che hanno cementato un comune sentire, la musica che ha accompagnato fantasie bambine e pensieri adulti, i paesaggi che continueranno a popolare i ricordi, il languore del nostos che rende l’uomo una splendida, fragile creatura.

 

Fernando Aramburu

Patria

Guanda Editore, 2017

€ 19,00

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Intervista a Giulia Randazzo regista di “A noi due”

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Il destino illeggibile di Gesualdo Bufalino. Intervista a Giulia Randazzo, regista di ‘A noi due’, in scena al Teatro Biondo di Palermo

@ Agata Motta (08-06-2021)

Giulia Randazzo

Strano ma vero: si riparte. Poche parole che si avrebbe voglia di sussurrare per timore che possano svanire, poche parole che si vorrebbero gridare per un’incontenibile gioia che si spera non fugace.

Gran debutto in prima nazionale allo Steri Chiaramonte di Palermo per la nuova produzione del Teatro Biondo: A noi due, ovvero Le menzogne della notte di Gesualdo Bufalino nella messa in scena scritta e diretta da Giulia Randazzo. Lo spettacolo, in scena fino al 13 giugno alle 20.30 (ma con ingresso consigliato alle 20.00 per consentire la visita alle celle dell’ex carcere) è interpretato da Vincenzo Pirrotta, Paolo Briguglia, Mauro Lamantia, Giuseppe Lino, Alessandro Romano.

“In un’isola penitenziaria, probabilmente mediterranea e borbonica, fra equivoche confessioni e angosce d’identità, un gruppo di condannati a morte trascorre l’ultima notte”. Questa la sinossi del romanzo  raccontata dallo stesso autore, poco più di un centinaio di pagine di sublime letteratura. “Fantasia storica, giallo metafisico, moralità leggendaria”, con queste parole l’autore definisce un’opera che non è possibile incasellare in un genere specifico, ma che resta incollata nella mente e nel cuore del lettore.

Sebbene del romanzo storico indossi le sontuose vesti e del Decameron adotti l’espediente della cornice narrativa, Le menzogne della notte è un romanzo originalissimo e di magnetico fascino. Il tempo e il luogo, suggeriti ma non palesemente dichiarati, fungono da supporto per raccontare storie di uomini di tempi andati attraversati dagli eterni dubbi esistenziali che appartengono ad ogni epoca, per narrare di violenze subìte o compiute, di lacerazioni interiori, di amori travolgenti, di passioni mortifere, di gelosie, di malesseri, di vendette. Un romanzo totalizzante, che si snoda tutto in interni, con l’unica eccezione di squarci di cielo intravisti dalla finestra e di uno spicchio beffardo di piazza su cui cresce pian piano Luigina, la ghigliottina eretta nel corso della notte che mozzerà il capo a cospiratori irretiti dall’offerta terribile del Governatore: trascorrere l’ultima notte nell’agio del confortatorio con la possibilità di scrivere, nel rispetto dell’anonimato, il nome che svelerà l’identità del “Padreterno”, il capo supremo della cospirazione, e avere in tal modo la salvezza. Tradire vigliaccamente, e ottenere la scarcerazione di tutti, o morire quando ancora la vita seduce e attrae.

“A noi due”, il titolo scelto per lo spettacolo, è l’ambigua, provocatoria dedica che Gesualdo Bufalino scelse per il suo terzo romanzo, vincitore del Premio Strega 1988, una dedica che è anche uno dei tantissimi prestiti letterari (battuta finale del Père Goriot di Balzac in questo caso) con cui l’autore impreziosì un testo densissimo di riflessioni morali e di scavi introspettivi. Dovrebbe essere logico parlare anche di risvolti politici, considerato il contesto, ma in realtà la politica nel romanzo è solo un pretesto, una ragione di vita per i condannati che vi si sono aggrappati alla ricerca di solide certezze; in realtà non si gioca una partita ideologica ma si indaga su una condizione esistenziale.

A noi due suona quindi come una sfida per questo spettacolo di apertura di Eroica, la stagione estiva del Biondo annunciata con giusto entusiasmo dalla direttrice Pamela Villoresi, una sfida al tempo guasto che si è costretti ad affrontare, una sfida alle pressanti difficoltà che bisogna superare, una sfida all’umore aspro che non dovrà alterare i prossimi assaggi di libertà. Allora a noi due: attori e spettatori, teatro e mondo, musica e parole, vita e morte.

La giovane pluripremiata regista palermitana, che ha già a suo attivo una decina di spettacoli complessi e originali, è stata selezionata per la terza edizione di Fabbrica YAP e ha diretto ‘Farnese Suite’, il lungometraggio dei giovani artisti del ‘Fabbrica Young Artist Program’ del Teatro dell’Opera di Roma, in collaborazione con l’Ambasciata di Francia in Italia e l’Opera di Parigi. A lei dunque il gradevole e non semplice compito di orientarci in uno spettacolo accattivante ricco di sollecitazioni e sorprese.

  • Chi è per lei Gesualdo Bufalino e cosa vuole raccontarci di lui attraverso lo spettacolo?

Bufalino rappresenta un pezzo della mia tarda adolescenza, come qualcuno la definisce oggi; ossia quel periodo meraviglioso della vita che si colloca tra i 18 e i 20 anni. È il periodo in cui ciascuno di noi è animato dai grandi dubbi esistenziali: chi sono? Chi siamo? Siamo veri? Siamo dipinti? Sono gli stessi dubbi di cui lo scrittore di Comiso ci narra attraverso i personaggi delle sue Menzogne.

Non so se ho voluto raccontare qualcosa in particolare di Bufalino, forse ho solo desiderato che lo spettatore di “A noi due” facesse esperienza di questo autore. Fare esperienza teatrale di Gesualdo Bufalino penso possa rappresentare per l’uomo di oggi una possibilità concreta di sfamare il proprio bisogno metafisico.

  • A noi due è definita un’esperienza teatrale “di confine”: quali sono i confini da esplorare o eventualmente da oltrepassare?

Con la pandemia siamo stati letteralmente confinati, separati, ridotti a percepire il mondo attraverso i nostri device, telefoni, computer, Ipad… forse oggi oltrepassare il confine significa ritornare insieme, a condividere una storia nel nostro caso. Ma dobbiamo farlo in sicurezza. Come conciliare la necessità del distanziamento con il bisogno di comunità? Come conciliare l’intimità di un romanzo ambientato in un interno notte con norme che incoraggiano a svolgere spettacoli in grandi spazi esterni?

Dalla necessità di cercare una risposta a queste domande e di superare i confini che connotano dolorosamente il periodo storico in cui viviamo è nata la sperimentazione che – insieme alla scenografa Giulia Bellé e al sound artist Alessandro Librio – ho proposto al Teatro e alla compagnia: mettere il pubblico nelle condizioni di essere vicino alla parola bufaliniana e agli attori che l’hanno incarnata con altri sensi, in questo caso privilegiando quello dell’udito. Ne è nato un rapporto fra spettatore e attore abbastanza inedito, diverso, anche più intimo in un certo senso…

Ho serie difficoltà a definire “A noi due” uno spettacolo: è stata al tempo stesso una sfida e una “affettuosa intimidazione” (come direbbe Bufalino) che, come compagnia, abbiamo rivolto allo spettatore, chiamato a mettersi in gioco in un rapporto uno-a-uno con il palcoscenico, alla ricerca di nuove forme di intimità nella distanza.

  • Il romanzo di Bufalino ha un impianto pienamente teatrale e apparentemente statico, quasi claustrofobico visto che si svolge perlopiù nello spazio chiuso del confortatorio, ma lei ha voluto contrapporvi un andamento più dinamico, legato al luogo della rappresentazione. Quanto ha influito la scelta dello Steri sulla modalità dell’allestimento?

“Apparentemente statico”, hai detto bene, perché in realtà con il passare delle ore i personaggi subiscono una trasformazione incredibile, molto evidente, palpabile, emozionante. Ho puntato sin dall’inizio sulla possibilità che gli attori si facessero portatori della parte più “spettacolare” di questa storia. Ho lavorato insieme a loro per costruire un percorso che potesse trasformare questo linguaggio così desueto e a tratti insidioso, in un viaggio appassionante e coinvolgente. Il “confortatorio” poi, nelle intenzioni dello stesso Bufalino, diventa il palcoscenico del mondo. È una metafora shakespeariana, è nell’essenza del fare teatro e nel testo questo tema ricorre nelle parole di tutti i personaggi: realtà e finzione, essere e apparire, essere degli individui consapevoli o delle marionette nelle mani di un destino illeggibile?

Ho pensato che lo Steri Chiaramonte fosse il luogo ideale per raccontare questa storia, per il suo passato e per le memorie che ancora lo abitano, a partire dai dipinti che i prigionieri hanno lasciato sui muri delle celle. Abitare per l’ultima settimana di prove lo Steri, trovarsi mani e piedi immersi in quelle memorie, più che influenzare a livello prassico le modalità di allestimento, ha segnato nel profondo tutti noi.

  • Tra i personaggi del romanzo quale ha sentito più vicino o più interessante durante la stesura dell’adattamento teatrale?

Ad essere sincera non saprei scegliere un personaggio fra gli altri… e forse questa è la forza di questa drammaturgia. Ognuno di loro è un frammento di un tutto. Ognuno di loro ci parla di qualcosa, di un segreto che gli altri non conoscono. Durante questa “notte di meraviglie” non si rivelano soltanto agli spettatori, ma l’uno con l’altro, generando ad ogni loro racconto una nuova possibilità di senso, di significato per il gesto che stanno per compiere, per il loro sacrificio. È una grandissima soddisfazione vedere come il pubblico si affezioni ad ognuno dei personaggi e apprezzi il cast nella sua interezza e diversità. Ad un certo punto si ha l’impressione di essere nella cella con loro.

  • La pirandelliana ricerca della propria identità è uno dei motivi conduttori dei racconti dei personaggi, sembra quasi che scelgano di smarrirsi nel tentativo di ritrovarsi. In realtà nessuno aderisce in pieno alla propria rappresentazione di sé, la menzogna è sempre dietro l’angolo. E’ il destino dell’essere umano?

Temo di sì. Per paradosso in questa storia la menzogna sembra svelarci, come in un racconto mitico, una verità sull’uomo più autentica di quanto non possa farlo la banalità di una confessione sincera. Come se Bufalino si diverta a confonderci, e a confondersi, per poi riemergere dal caos con un piccolo diamante sulla punta della sua penna. La fragilità umana, la consapevolezza di questa fragilità, e la poesia che ne derivano sono incredibilmente toccanti.

  • “Decisioni sull’uso della notte” è il titolo di uno dei capitoli del romanzo. La notte in questione però è, con quasi assoluta certezza, l’ultima e i personaggi la trascorreranno raccontandosi brandelli di vita. Quanta e quale salvezza si può trovare nelle parole?

Per risponderti, mi viene voglia di citarti per intero una parte della drammaturgia, l’unica che mi sono permessa di interpolare, perché trovavo le interviste di Bufalino sul tema del rapporto fra morte, abisso e racconto, così belle che mi sono sentita in dovere di condividerle col pubblico. Ma non lo farò! Sta agli spettatori più attenti andarle a scovare…

  • Con quanta fedeltà ha affrontato il linguaggio barocco e lussureggiante dell’autore?

Totale, devota, quasi assoluta, mi sono permessa di spostare piccole cose affinché non fosse sacrificata – per i tagli al testo che necessariamente andavano fatti – la comprensione della storia. Anzi durante le prove abbiamo recuperato alcune espressioni che avevo in un primo momento obliato perché temevo impossibili da recitare!

Questo perché abbiamo tutti accettato la sfida di questo linguaggio, così difficile in apparenza, eppure così ricco di senso, generatore di suoni, di poesia, capace di aprire all’improvviso uno squarcio nella tela della finzione.

Il lavoro più duro e appassionante sul linguaggio non è stato dunque nella stesura dell’adattamento, ma nella costante ricerca di una verità nella recitazione di quelle parole. Sono molto grata a ciascuno dei membri del cast, che si è misurato insieme a me in questa impresa coraggiosa e folle.

  • Vincenzo Pirrotta, Paolo Briguglia, Mauro Lamantia, Giuseppe Lino, Alessandro Romano sono attori molto diversi tra loro per presenza scenica, gestualità, inflessioni vocali. L’attribuzione dei ruoli è stata naturale e spontanea?

Sì, naturale e spontanea; non avrei saputo dirlo meglio. Ciò che invece non è stato spontaneo né semplice è stato il processo di direzione attori in una compagnia così eterogenea per percorsi professionali e di vita. Un viaggio ricco e stimolante, anche in questo caso una bella sfida: credo che un regista non possa desiderare di più. Paolo, Vincenzo, Mauro, Giuseppe e Alessandro sono stati 5 meravigliosi compagni di viaggio, ciascuno di loro mi ha aperto con generosità e fiducia una finestra sul proprio mondo. Nel mio piccolo, ho provato a fare lo stesso. Sono estremamente grata alla vita per questa opportunità umana, prima ancora che professionale.

In un’epoca storica in cui il teatro è schiavo di decreti ministeriali ghettizzano under e over 35, nuove drammaturgie e teatro classico, credo sia tornato il momento di ricominciare a prendere sul serio il teatro come fatto intergenerazionale, fatto di incontri, scontri, passaggi di testimone.

  • Il suono, che potrebbe sembrare quasi un intruso nel silenzio tetro del penitenziario in cui si trovano i quattro condannati, diventa protagonista nello spettacolo. Che funzione ha voluto attribuirgli?

Nel romanzo il suono ha un ruolo fondamentale. I detenuti raccontano le loro storie nella penombra. Bufalino spende moltissime parole per descrivere i timbri vocali dei vari personaggi, per raccontare suoni e rumori che caratterizzano l’isola. Alcuni di questi, segnano per i detenuti l’unico modo per percepire lo scorrere del tempo durante la notte nel confortatorio (l’avvicendarsi delle ronde dei soldati, il rumore dei martelli che inchiodano il patibolo, la lama della ghigliottina la cui efficacia viene testata sul capo di alcuni malcapitati animali).

Insieme ad Alessandro Librio abbiamo immaginato lo Steri Chiaramonte come il corrispettivo di un grande labirinto mentale in cui il tempo presente si confonde e si sovrappone a quello del ricordo. Gli ambienti sonori che ha realizzato Alessandro sono paesaggi della memoria in cui si combinano elementi legati tanto al passato dell’autore, quanto a quello dei personaggi del suo romanzo. Dal punto di vista del suono abbiamo cercato di rendere percepibile a livello uditivo l’ambiguità della verità e la sua relatività – centrale nel testo di Bufalino – lavorando sull’integrazione tra suoni distorti e suoni realistici, registrati in presa diretta.

È stato molto divertente assistere allo spettacolo e vedere come il pubblico a un certo punto abbia avuto difficoltà a capire quali suoni fossero veri e quali no, specie per quello che concerne i suoni naturali… la messa in dubbio della verità sonora, insomma!

  • Torniamo alla prima domanda ma con una piccola modifica: cosa vuole raccontarci di se stessa Giulia Randazzo attraverso il suo spettacolo?

Come ho accennato, sono legata allo scrittore di Comiso da ragioni personali e affettive. L’incontro con questo autore ha coinciso per me con l’incontro con un professore che ha segnato profondamente la mia vita personale e artistica e che amo definire “il mio maestro”, nonostante non sia un teatrante. Mi diceva sempre: “Giulietta, se vuoi imparare davvero a scrivere devi leggere Gesualdo Bufalino!”. E così feci… per obbedienza, per affetto. Chissà. A dire il vero, non ho mai imparato a scrivere, ma conservo un ricordo meraviglioso di quelle letture e di quegli anni. Le Menzogne della Notte era il suo romanzo bufaliniano d’elezione e me lo fece amare profondamente.

Forse con questo titolo ho voluto raccontare qualcosa del nostro rapporto, del nostro amore per la ricerca sincera e appassionata della verità.

Le nostre strade si sono separate poco dopo: lui oggi continua a ricercarla nella sua attività accademica; io mi ostino a farlo sulle tavole del palcoscenico, tra la polvere e i testi, insieme a delle creature meravigliose chiamate “attori”.

Credo che il mio prof. non sia mai stato troppo felice di questo… forse avrebbe preferito vedermi in cattedra.

Invece il prof. sicuramente saprà apprezzare la scelta, perché non c’è niente di più bello e prezioso che porgere le ali ai propri alunni e aiutarli a riconoscere la propria strada.

Nelle menzogne di questa anomala notte bufaliniana, si porgono alla coscienza dello spettatore le domande di sempre con la stessa intensità di sempre: sulla vita e sull’uso che ciascuno di noi ne ha fatto quando ormai non si ha più la possibilità di modificare nulla, e sul tempo, nella sua specialissima caratteristica di farsi breve o eterno a seconda delle situazioni e delle percezioni soggettive. Non si finirà mai di tessere meravigliosi orditi sui grandi misteri che l’uomo è tenuto, suo malgrado, a guardare dritto negli occhi.

A noi due

ovvero Le menzogne della notte di Gesualdo Bufalino

drammaturgia e regia Giulia Randazzo

scene e costumi Giulia Bellé

musiche originali e sound design Alessandro Librio

con Vincenzo Pirrotta, Paolo Briguglia

e con Mauro Lamantia, Giuseppe Lino, Alessandro Romano

luci Antonio Sposito

fonica Danilo Pasca

direttore di scena Sergio Beghi

https://www.scriptandbooks.it/2021/06/21/il-destino-illeggibile-di-gesualdo-bufalino-intervista-a-giulia-randazzo-regista-di-a-noi-due-in-scena-al-teatro-biondo-di-palermo/

anche su Articolo21

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Universo Iperborea (II parte)

Universo “Iperborea” (parte seconda)

@ Agata Motta (14-12-2020)

E adesso ancora più a Nord nel nostro viaggio sull’affascinante planisfero di Iperborea, un salto nell’Islanda vista con gli occhi di due autori assai diversi ma ugualmente interessanti.
Bisogna superare le prime cinquanta pagine (in tutto sono 611), per capire se Gente indipendente di Halldór Laxness vi regalerà una folgorazione magnifica e duratura. Pur essendo perfettamente calzante, un titolo così poco seducente non gli rende giustizia e non basta l’immagine naif in copertina con un casolare e una pecora – anch’essa pienamente pertinente – a catturare l’attenzione del lettore. La tematica inconsueta per l’Occidente capitalista, i luoghi sperduti da cartolina e lo stile che può risucchiare o respingere ne fanno un romanzo originale di algida bellezza.
La brughiera ghiacciata d’inverno e acquitrinosa in primavera, le distese a perdita d’occhio dei pascoli, le aspre scogliere con i loro anfratti desolati sono l’ambiente ostile eppur magnetico dentro il quale si sviluppa la vicenda dell’ostinato Bjartur di Sumarhús. Uomo rozzo, pragmatico, dalla dura scorza avvezza alle intemperie e alle avversità ma amante della poesia con la quale si diletta, Bjartur decide caparbiamente di investire l’intera sua vita alla ricerca e al mantenimento dell’indipendenza personale. Dopo diciotto anni di lavoro indefesso a servizio di facoltosi signori, che resteranno per lui eterni antagonisti nonostante le tante manifestazione di ipocrita filantropia, Bjartur acquista un podere “maledetto”, Sumarhús per l’appunto, su cui uno spirito infernale, Kolumkilli, e una strega d’altri tempi, Günnvor, hanno fissato dimora secoli addietro. Questo podere, insomma, che lo costringerà ad una lotta impari contro la natura, che ritiene di poter assecondare se non proprio dominare, e contro il soprannaturale, al quale non crede e al cui cospetto mai si inchinerà, diventa il piccolo regno di Bjartur, in cui le pecore saranno l’innocente corte bisognosa di cure e di attenzioni amorevoli.
L’uomo, sempre più caratterizzato da un ottuso e sciocco attaccamento alla terra e alle pecore più che alle persone, vi seppellirà due mogli, figure dolenti e indimenticabili, e vi crescerà i suoi figli, almeno quelli sopravvissuti, tra cui il piccolo Nonni, il sognatore proiettato verso un indefinito altrove geografico che diverrà l’America in cui cercare e trovare fortuna. Le braccia per lavorare e le pecore da moltiplicare saranno gli unici beni di Bjartur. Le mogli, fragili creature destinate ab initio all’infelicità, saranno il ragionevole compromesso con la propria indole solitaria e lo aiuteranno nella gestione delle incombenze domestiche e lavorative fino a consumarsi, ma non avranno pietà o affetto visibile da un uomo arido e cinicamente calcolatore. In quelle lande desolate, in cui i bisogni sembrano esclusivamente primari, la tensione dell’essere umano verso nuovi oggetti del desiderio alberga anche nell’animo semplice di Bjartur. Il sogno di una casa signorile in cui far vivere “il fiore della sua vita” lo condurrà pian piano alla rovina, complici le vicende politiche e la grande guerra, che inizialmente crea un’illusione di benessere e che dopo qualche anno riduce sul lastrico quanti, come lui, avevano fatto il passo più lungo della gamba. Il fiore da accudire è la figlia Asta Sóllilja (il nome così originale, “Amata Girasole”, è l’unico dono possibile per la neonata sopravvissuta alla morte della madre grazie al calore di una vecchia cagna) che, tra gli altri figli che verranno, è l’unica che in realtà non è frutto del suo seme ma di quello degli antichi padroni e, nonostante questa amara consapevolezza, quella amata di vero amore.
Premio Nobel nel 1955 “per la sua opera epica che ha rinnovato l’arte e la letteratura islandese” Halldór Laxness praticamente inventa la moderna narrativa islandese, attinge al patrimonio di saghe e di personaggi soprannaturali della tradizione – dedicandovi il suggestivo capitolo iniziale che crea un legame magico con la terra maledetta – vi innesta la povera realtà dei pastori dei primi decenni del XX secolo facendone probabilmente anche una metafora politica. Da questa operazione letteraria scaturisce una lingua corposa e densa, i dialoghi e i pensieri fluiscono senza marcatori grafici – il discorso diretto non è mai introdotto dalle virgolette e solo talvolta isolato in timidi capoversi – e tracimano spontaneamente nell’indiretto libero per poi confondersi tra le pieghe di lunghe sequenze descrittive, necessarie perché il paesaggio è protagonista tanto quanto i piccoli uomini che lo abitano.
Bjartur sarà uno dei tanti “vinti” della letteratura e della vita reale, ma di lui a sopravvivere nel ricordo del lettore saranno le battaglie epiche condotte contro i poteri occulti e le avversità naturali, la capacità di non voltarsi mai indietro e di non lasciarsi sopraffare da rimorsi e nostalgie e, infine, l’immagine bellissima di un uomo ormai provato e non più giovane che si avvia con la vecchissima suocera, depositaria di una saggezza fatta di accettazione, con l’unico figlio maschio rimastogli accanto dopo la rinuncia al sogno americano per inseguire un amore impossibile e con la figliastra malata sulle spalle (in un magnifico capovolgimento dell’immagine di Enea che regge il padre Anchise) verso un altro incerto futuro screziato di speranza. Il perdono concesso alla fanciulla, che lo ha deluso lasciandosi ingravidare durante la sua assenza, sembra assolverlo dalle colpe della sua testardaggine e una commossa pietas aleggia su ciò che resta dell’originario nucleo familiare. Tutto ciò fa di Bjartur il tragico eroe dell’indipendenza economica che, coincidendo con quella intima e privata, la rende assimilabile alla libertà.
…non c’è da meravigliarsi se qualche volta a uno balena in mente il pensiero, se non valesse la pena darsi più da fare per preservare la vita umana invece che gli ideali. Perché se l’ideale non mira a migliorare la vita dell’uomo sulla terra, e invece uccide la gente a milioni, be’ allora a uno sorge la domanda se non è meglio essere completamente privi di ideali, anche se naturalmente una vita del genere sarebbe vuota. Perché se l’ideale non è la vita, e la vita non è un ideale, allora l’ideale cos’è? E cos’è la vita?


Molto amato e assai noto Jón Kalman Stefánsson con Luce d’estate ed è subito notte raggiunge, a detta dei suoi più fedeli lettori, uno dei vertici più alti della sua vasta produzione. Con sguardo curioso e penetrante il narratore, che si fa voce collettiva appartenente al microcosmo descritto, apre finestre, dalle quali spiare con soddisfazione, su un piccolissimo paese islandese e sui suoi abitanti, attraversati da noie impalpabili come polvere sottile o da improvvisi guizzi di vitalità. Giovani e vecchi, uomini e donne, tutti i protagonisti insomma sono guidati da una personalissima stella cometa che possa orientare in un’assidua ricerca che dia senso alla vita e soprattutto alla morte, padrona e signora incontrastata che aleggia sovrana su tutti, unica certezza assoluta nella spessa congerie dei sogni mai spenti, delle carezzevoli illusioni, delle innocenti beatitudini, dei tormentosi tradimenti, dei sentimenti tenaci e degli amori spezzati.
Ed ecco emergere dalle pagine il giovane direttore del fiorente Maglificio trasformato in Astronomo dall’incontro fortuito con una lingua morta – il latino – che lo riporta ad una dimensione più autentica della vita; Hannes, il poliziotto del paese, quercia robusta spezzata dalla morte dell’esile compagna; il fragile Jónas, spinto dal suicidio paterno ad intraprendere una professione che è la negazione stessa della propria sensibilità artistica; Kjartan e Kristín, adulteri invischiati nelle pastoie di una passione devastante; Asdís, sposa paziente che si trasforma in tigre dopo l’umiliazione del tradimento; Matthías, che dopo un lungo peregrinare dettato dalla sete di conoscenza torna in paese spinto dal ricordo del volto amato; Benedikt, uomo cupo e solitario che riapre il cuore alle lusinghe dell’amore spinto dall’esplicita offerta di Puríður, donna dai modi spartani non disposta a lasciarsi appassire senza affetti; Elísabet, bella e provocante artefice del proprio destino di donna intraprendente e solida e tantissimi altri ancora, perché in questo piccolo paese ognuno ha un suo posto e una sua occasione per mostrarsi in scena.
Pur non potendo negare che si tratti di un romanzo a tutti gli effetti – la cornice narrativa, il rimbalzo continuo tra i personaggi, la voce narrante che li chiama a racconta riassumendone talvolta le vicende per chiarire il non detto al lettore – il tratto caratterizzante di quest’opera è quello di essere concepita per capitoli che possono configurarsi come racconti a se stanti, per cui il lettore corre sulle pagine all’inseguimento di un personaggio che è già pronto a passare la staffetta a quello successivo e poi ancora all’altro e così via fino alla conclusione, in una beata sbronza di vita vissuta, di attese che si concretizzano in eventi, di strappi che provocheranno lacerazioni, di folgorazioni che imprimeranno direzioni nuove e inaspettate, di peccati da commettere e da scontare, di dolori da affrontare o da cui essere sopraffatti. Senza mai dimenticare che siamo fatti per la morte, siamo carne pulsante che precipita incontro al nulla eterno, siamo esseri desideranti destinati a non conoscere il fine ultimo di questo nostro desiderare. E senza mai trascurare un dettaglio apparentemente insignificante che si finge spesso di non vedere o di non voler prendere in considerazione: il caso, quella mano incurante e neghittosa che si insinua come un tarlo tra le solide strutture di esistenze accortamente pianificate che non reggono al minimo urto, nemmeno ad un soffio di vento.
Per quale motivo ho vissuto, si domanda la vecchia zia in punto di morte. Nessuno è ovviamente in grado di risponderle e molto probabilmente lei stessa non aspetta una risposta. Basta chiedere, interrogarsi, cercare, e lungo il percorso sassoso della ricerca incontrare la vita, dovrebbe bastare questo, l’incontro stesso sarebbe un successo, conclusione scontata e persino banale, ma è proprio questo il punto di forza del libro, mettere su carta pensieri che almeno una volta ci hanno attraversato, rimestare tra tante vicende per portare a galla “il sugo” di tutte le storie, che è il sugo del nostro essere uomini su questa Terra.
Perdersi tra tanti racconti è possibilissimo, talvolta si confondono i nomi e i personaggi, ma questo Stefánsson lo ha previsto e non se n’è curato o più probabilmente è un effetto cercato. Ha affidato al narratore (ai narratori, in realtà, ai tanti occhietti che si infilano nelle case e nei pensieri dei compaesani) il compito di ricucire e assestare la materia narrata e alle “dieci mani” inoperose fuse in un’unica identità (espediente tecnico che si riappropria di una delle funzioni del coro della tragedia greca) quello di intervenire nell’azione con una rancorosa e ipocrita morale che porta a giudicare più che a commentare. Giudizio che non coincide con quello dell’autore, inutile sottolinearlo, perché delle vicende umane uno scrittore può scegliere di essere semplice testimone.
Continuiamo ad aggiungere nuove storie, ci resta difficile metterci un punto, ma forse è anche perché chi racconta la vita ha la tendenza ad andare per le lunghe – tutto quello che facciamo è in un modo o nell’altro una lotta contro la morte… Eppure continuiamo a vivere come se niente fosse più scontato. Senza un barlume di buon senso.

https://www.scriptandbooks.it/2021/04/21/eppure-il-natale-arrivera-universo-iperborea-parte-seconda/

Universo Iperborea (parte I)

Eppure il Natale arriverà | Universo “Iperborea” (parte prima)

@ Agata Motta (05-12-2020)

Selma Lagerlöf

Se avete voglia di esplorare ad ampio raggio la letteratura dei paesi nord-europei non esitate ad accostarvi alla casa editrice milanese Iperborea che propone titoli accuratamente selezionati in un accattivante formato lungo e stretto (10×20) che rende i volumi immediatamente identificabili e la lettura più riposante.  A piccoli passi Iperborea ha saputo conquistare un pubblico sempre più ampio puntando sulla qualità di offerte raramente deludenti che innescano nel lettore una sorta di fidelizzazione. Potrete dunque scegliere tra autori danesi, norvegesi, svedesi, islandesi, estoni, finlandesi, olandesi, belgi con la certezza che ne troverete almeno qualcuno di vostro gradimento.

Cominciamo con un autore cult svedese, Stig Dagerman, anarchico e ribelle come il protagonista del romanzo Bambino bruciato, che narra di una drammatica passione per la matrigna, donna matura e navigata che non sa opporsi alla fresca tentazione di un giovane corpo devastato dal rancore e dalla rabbia. Il lutto per la madre apre una voragine di dolore nel ragazzo che si lancia senza alcuna rete protettiva in un percorso autodistruttivo che ha il sapore della vendetta nei confronti dell’insensibilità paterna e dell’immersione in un nuovo grembo materno che non può offrire conforto ma aggiungere soltanto altra disperazione. L’esigenza insopprimibile di purezza e l’incapacità di adattamento alla vita che appartengono al giovane Bengt sono le stesse caratteristiche di cui è intrisa la parabola esistenziale dello stesso Dagerman, suicida poco più che trentenne.

I personaggi che ruotano intorno alla coppia sono poco più di ombre sbiadite (la fidanzata oppressa dal mal di testa e soggiogata dal fascino malato del giovane Bengt) o fin troppo vitali (il padre che ama i piccoli piaceri della vita e non sa rinunciarvi in nome di una superiore morale), ma il loro amore non basta a sanare l’ansia di assoluto di chi sembra votato alla sconfitta o ad una cinica e probabilmente precaria sopravvivenza. In realtà non si tratta di vero amore, questo appare chiaro ad entrambi anche nei momenti di divorante passione, ma di un sentimento malato che di esso assume le fattezze nel tentativo consolatorio di riempire vuoti e restituire significato a giorni che inseguono altri giorni senza costrutto fino a perdersi nella menzogna e nell’esibizione quasi teatrale del proprio dolore.

La candela, oggetto presente in modo ossessivo tra le pagine, è il simbolo del lutto  – per la madre, per la propria giovinezza, per i propri ideali – ma è anche quello della luce intensa che attira e che brucia, perché “non è vero che un bambino che si è bruciato sta lontano dal fuoco. E’ attirato dal fuoco come una falena dalla luce. Sa che se si avvicina si brucerà di nuovo. E ciononostante si avvicina.”

Restiamo in Svezia con Jerusalem un classico del primo Novecento di Selma Lagerlöf, autrice prolifica e colta, grande affabulatrice che attinse alla tradizione orale restituendone il fascino attraverso un linguaggio semplice e potentissimo, prima donna a vincere il premio Nobel della letteratura che le venne attribuito nel 1909.

Il corposo romanzo nacque dopo un viaggio in Terra Santa compiuto con la compagna e scrittrice Sophie Elkan, un viaggio fortemente voluto per seguire le tracce di un gruppo di mistici che, partito da un piccolo villaggio della Dalecarlia, si stabilì a Gerusalemme, la terra dove camminò Cristo, per aggregarsi ad una colonia americana nella quale avrebbero dovuto realizzarsi i più puri ideali evangelici. L’interesse dell’autrice fu inizialmente di carattere sociale e politico ma l’impulso personale di ricerca interiore fu probabilmente  l’elemento determinante che le consentì di indagare con serietà e trasporto i meccanismi alla base di una delle tante utopie che attraversarono il diciannovesimo secolo. L’utopia della Colonia Spaffordita (dal nome di Anna Spafford, madre delle comunità) era particolarmente severa e intransigente nella predicazione della rinuncia al matrimonio e al lavoro (elementi entrambi che la resero invisa e spesso aspramente attaccata dagli osservatori esterni) e ricordava per certi aspetti alcuni elementi delle “eresie” medievali sradicate con sanguinaria crudeltà dai pontefici dell’epoca, ma di sicuro esercitava un’attrazione irresistibile su quanti reputavano la propria esistenza priva di nobili finalità se incentrata sul guadagno e le transitorie passioni terrene.

Nel romanzo della Lagerlöf, i protagonisti del viaggio della salvezza sono descritti inizialmente nell’irrequieto avvicendarsi di piccoli eventi – innamoramenti, scelte morali, acquisti per accrescere il proprio patrimonio, ricerca di prestigio sociale – che cominciano a scardinare un sistema costituito di valori e di tradizioni, fino all’arrivo di un predicatore carismatico, Hellgum, che attraverso un’indefessa operazione di proselitismo getta il seme da cui germoglieranno scelte di vita laceranti destinate a lasciare segni indelebili sia in chi deciderà di restare fedele al vecchio sistema sia in coloro che, sedotti dalla sirena della redenzione, si metteranno in viaggio per compiere un percorso fisico e spirituale di rinnovamento nell’attesa del vicino compimento del regno dei cieli. La famiglia Ingmarsson, nell’arco di due generazioni, fungerà da fulcro narrativo e morale dell’intera parabola evolutiva della grande utopia rappresentata, una famiglia costantemente protesa al compimento del Bene ma costantemente schiacciata dal senso di colpa che inciderà sull’agire dei suoi membri anche a costo di immani sacrifici e di muto dolore.

Ad illuminare le vicende come un faro dalla luce mai attenuata è il dispiegarsi sovrano dell’Amore in ogni sua declinazione, quello per Dio e per Cristo naturalmente ma anche e soprattutto quello tra esseri umani che sanno tacere e rinunciare, che sanno cogliere quelle scintille di infinito che niente e nessuno potrà spegnere. La scelta del giovane Ingmar di rinunciare a Gertud, la ragazza teneramente amata sin dall’infanzia, per riscattare la propria fattoria attraverso un matrimonio portatore di grossi vantaggi economici costituisce uno dei momenti più alti e struggenti del romanzo, scelta seguita a distanza di anni da un viaggio di ammenda e riparazione che aprirà un varco magnifico a nuovi ed imprevisti sviluppi, quasi a sancire la complessità dell’animo umano e dei sentimenti che possono sbocciare nelle condizioni più avverse o trasformarsi per dar vita a nuove combinazioni in cui gli aspetti della dedizione paziente e dell’affetto tenace si rivelano vincenti e degni di essere accettati e gratificati. Altro elemento di grande fascino è costituito dalle avversità che si trasformano in opportunità, come il terribile naufragio, descritto con potenza pittorica, dal quale la superstite signora Gordon (La Spafford della finzione) trae l’energia per dar vita al suo grande sogno di salvezza collettiva, o l’imprevisto legame affettivo tra Gertud e Bo che riporterà Ingmar alla moglie di cui si scopre inaspettatamente innamorato e inaspettatamente ricambiato. E poi ancora le leggende, i sogni, le maledizioni, l’impronta calvinista della predestinazione, il rovesciamento del dettato luterano per cui non basta la fede senza l’indispensabile corredo delle buone azioni, i percorsi tortuosi che conducono alla Verità, sebbene essa suoni in maniera diversa a seconda della persona che pensa di possederla.

Di ogni personaggio, maschile o femminile che sia, l’autrice coglie emozioni e stati d’animo porgendoli al lettore senza enfasi, con una spontaneità e una naturalezza che inducono alla comprensione e all’indulgenza. Più delle parole sono le azioni a “rappresentare” ciò che è davvero importante, i dialoghi sono ampi e argomentativi per ciò che concerne l’esposizione della dottrina ma divengono asciutti e pudichi quando devono esprimere i sentimenti e le paure, le speranze e le illusioni perdute e ritrovate.

Gerusalemme, la città miraggio, il luogo primigenio da cui tutto ha origine e verso cui tutto si dirige, è un luogo di aridità e di arsura, di fame spirituale e materiale, di morte esibita e di vita adombrata, di maldicenza e avidità, centro di raccolta di sette sempre nuove e coacervo di religioni in netta contrapposizione, prime tra tutte quella cristiana e quella musulmana che si fronteggiano materialmente nella coesistenza di chiese e moschee che si rinfacciano i loro rispettivi meriti in un allucinato capitolo in cui il sensibile udito della signora Gordon,  acuito dal calore e dalla luna piena, ne registra le voci. Gerusalemme è anche la città dei miracoli, non quelli tramandati dal Vangelo che non hanno più un Cristo che li compia, ma quelli compiuti dagli uomini di buona volontà che riescono a dissodare un terreno avaro e sabbioso, che si prodigano per curare gli ammalati, che si riuniscono per cantare la grandezza del Creatore, che riconoscono l’amore e lo addomesticano affinché ne rimanga solo l’essenza più pura. Nell’arco di un paio d’anni, la Lagerlöf attraverso Jerusalem edifica un mito e lo consegna alla storia.

Ingmar pianse a lungo; quando alzò la testa, Gertrud era scomparsa, e dalla fattoria accorrevano a cercarlo. Batté il pugno sul sasso, e il suo volto assunse un’espressione dura e ostinata.

«Forse Gertrud e io ci incontreremo ancora», si disse, « e allora le cose potrebbero anche andare in modo diverso. Noi Ingmarsson finiamo sempre per ottenere quel che desideriamo con tutta l’anima.»

http://www.inscenaonlineteam.net/2020/12/06/eppure-il-natale-arrivera-universo-iperborea-parte-prima/

 

“Altrove” di Agata Motta su Scenario

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Agata Motta, ALTROVE, Tabula Fati Editore

 

 

Esistono momenti nella vita in cui si avverte inestirpabile il bisogno di un “altrove” che somigli alla fuga, al sogno, al desiderio, alla salvezza. Ma la necessità di restare dove ci ha spinto una mano invisibile — non importa che si chiami destino imponderabile, scelta consapevole, convenzione sociale o ruolo assunto — può produrre esplosioni devastanti o sottili malesseri che rodono incessantemente. Altrove è il filo conduttore che lega la produzione drammaturgica, assai diversa per toni e motivi, di circa un decennio (1998/2009) di Agata Motta.

La Croce mette in scena una discesa agli inferi senza possibilità di redenzione sullo sfondo della problematica realtà delle “scuole a rischio”. La vittima designata diventa per un attimo carnefice e ciò segnerà radicalmente il destino di una donna votata al successo e quello di un ragazzo predestinato al male.

La seconda primavera si ispira ad un fatto di cronaca: l’adolescente Anna venne rinchiusa per disturbi nervosi in manicomio negli anni Quaranta, ma per un errore burocratico ai familiari giunse poco dopo la comunicazione del decesso della ragazza. Sulla nuda cronaca si è costruito l’ipotetico vissuto scaturito da un atroce scherzo del destino.

Viaggio nei tuoi occhi presenta tre modi diversi di essere e non-essere madri e sviscera alcune tematiche attuali — la gestione dei genitori affetti da demenza, le caparbie maternità tardive e l’uso distorto dei social — in una narrazione che sconfina nel surreale.

Donna felice narra di una cartomante che regala ai passanti speranze di felicità future, ma lentamente emergerà il tragico passato che ha sbriciolato le sue piccole certezze borghesi.

[ISBN-978-88-7475-839-5]

Pag. 160 – € 12,00

http://www.inscenaonlineteam.net/2020/08/07/la-necessita-di-restare-tabula-fati-pubblica-la-produzione-drammaturgica-di-agata-motta-nel-volume-altrove/

Agata Motta, ALTROVE, Tabula Fati Editore

Altrove
Esistono momenti nella vita in cui si avverte inestirpabile il bisogno di un “altrove” che somigli alla fuga, al sogno, al desiderio, alla salvezza. Ma la necessità di restare dove ci ha spinto una mano invisibile — non importa che si chiami destino imponderabile, scelta consapevole, convenzione sociale o ruolo assunto — può produrre esplosioni devastanti o sottili malesseri che rodono incessantemente. Altrove è il filo conduttore che lega la produzione drammaturgica, assai diversa per toni e motivi, di circa un decennio (1998/2009) di Agata Motta.
La Croce mette in scena una discesa agli inferi senza possibilità di redenzione sullo sfondo della problematica realtà delle “scuole a rischio”. La vittima designata diventa per un attimo carnefice e ciò segnerà radicalmente il destino di una donna votata al successo e quello di un ragazzo predestinato al male.
La seconda primavera si ispira ad un fatto di cronaca: l’adolescente Anna venne rinchiusa per disturbi nervosi in manicomio negli anni Quaranta, ma per un errore burocratico ai familiari giunse poco dopo la comunicazione del decesso della ragazza. Sulla nuda cronaca si è costruito l’ipotetico vissuto scaturito da un atroce scherzo del destino.
Viaggio nei tuoi occhi presenta tre modi diversi di essere e non-essere madri e sviscera alcune tematiche attuali — la gestione dei genitori affetti da demenza, le caparbie maternità tardive e l’uso distorto dei social — in una narrazione che sconfina nel surreale.
Donna felice narra di una cartomante che regala ai passanti speranze di felicità future, ma lentamente emergerà il tragico passato che ha sbriciolato le sue piccole certezze borghesi.

 

[ISBN-978-88-7475-839-5]

Pag. 160 – € 12,00

https://www.edizionitabulafati.it/altrove.htm

 

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