“Un giorno questo dolore ti sarà utile” di Peter Cameron

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La corsa risibile del mondo. “Un giorno questo dolore ti sarà utile” di Cameron, ed. Adelphi

@ Agata Motta, 1 novembre 2023

Un titolo assolutamente perfetto e irresistibile che attinge alla saggezza latina per consegnarla alla frenesia del presente. Con un titolo diverso, Un giorno questo dolore ti sarà utile, il romanzo di Peter Cameron edito da Adelphi, forse non avrebbe volato così alto e non avrebbe goduto di una presenza così pervasiva. Non si tratta di una lettura deludente, il dolore gelido eppur sanguinante che ne percorre le pagine, non è di quelli che può indurre indifferenza, ma probabilmente è proprio da quella frase che scaturisce il fascino che accompagna il lettore alla ricerca di indizi che possano condurre a trovare l’utilità promessa. Ed è ovvio restare intrappolati in quelle parole, perché a tutti capita prima o poi di incappare in un dolore insopportabile, di dover sorreggere macigni su spalle troppo deboli, di affrontare agonie corrosive, di avvertire i morsi della disperazione e nessuno si sottrae all’illusione di poter individuare alla fine la funzione e il senso di tanta sofferenza.
Cameron naturalmente non la indica questa benedetta utilità, la lascia intravedere in un futuro che il giovanissimo James non racconterà, conficcato in un difficile percorso di crescita interiore nel quale il domani rappresenta una grossa incognita da decifrare giorno dopo giorno. Qualcosa nell’insofferenza per le ipocrisie e le convenzioni sociali riporta alle atmosfere de Il giovane Holden, ma se quello di Salinger è romanzo di formazione, in Cameron il processo appare bloccato e non sembra che le esperienze vissute, talvolta provocatorie e trasgressive, producano vistose risonanze nell’interiorità di un personaggio sotto certi aspetti insondabile, specie quando aspetta passivamente che si manifestino gli effetti del suo agire o del suo ipnotico torpore.
La narrazione in prima persona, che concede ampio spazio a dialoghi efficaci, consente un’adesione immediata allo sguardo triste del protagonista. Adottare il suo punto di vista significa guardare il mondo da un’altra angolazione, quella di chi non si adatta alle dinamiche relazionali ritenute “normali”.
Quella di James è una famiglia complicata come tante altre, genitori separati, una sorella lontana e assorbita dai suoi piccoli problemi che ogni tanto concede barlumi di complicità, una nonna saggia e originale che è l’unica capace di ascoltarlo e soprattutto di accettarlo senza pretendere di cambiarlo. La madre passa da un matrimonio all’altro ‒ l’ultimo si concluderà durante il viaggio di nozze ‒ alla continua ricerca di un amore che possa colmare il suo vuoto, il padre osserva un po’ discosto questo figlio nel quale intravede con timore la diversità. A modo loro entrambi pensano di amarlo e non riuscendo a sintonizzarsi con il suo universo lo spingono a sedute di psicanalisi sterili ed inconcludenti.

Peter Cameron

James lavoricchia nella galleria d’arte della madre (ma cerca ossessivamente su Internet case nelle quali far dimorare la sua inquietudine) in attesa di accedere a studi universitari che non vuole intraprendere, ma verso i quali tutti lo spingono a forza come se quella di proseguire gli studi fosse una scelta ineluttabile. La rappresentazione del piccolo spaccato della galleria, quasi sempre deserta, è caustica e a tratti esilarante. L’ultima esposizione è quella di un artista giapponese che propone bidoni della spazzatura a 16.000 dollari l’uno e James sembra l’unico a mostrare qualche perplessità sulla presunta genialità dell’operazione, proprio lui che dall’angolino seminascosto del suo “disadattamento” elabora un pensiero razionale sulle mistificazioni presenti nel mondo dell’arte. Lì stringe amicizia con John, l’altro impiegato, ma anche questa sarà un’esperienza fallimentare e dolorosa, perché priva di una presa di coscienza reale del particolare approccio con il mondo esterno cui il ragazzo è costretto dai tortuosi percorsi della sua mente. Uno scherzo finito male, o forse sarebbe più corretto dire un vero e proprio tentativo di adescamento online, produce una serie di reazioni a catena che portano James al riconoscimento della propria omosessualità, dettaglio in fondo per lui insignificante.
Pian piano tutto si ricompone lasciando addosso al lettore un senso claustrofobico di prigionia. Si intuisce che James continuerà a vagare in un labirinto senza alcuna volontà di trovare vie d’uscita e che il disagio continuerà a camminargli a fianco. Più che alle persone, James attribuirà agli oggetti, quelli appartenuti alla nonna, il compito di una utilità futura, muti residui di ore serene, muti testimoni non giudicanti che sanno aspettare. Il mondo fuori invece continuerà la sua corsa, lasciando ai margini chi non riesce a mantenere il ritmo e chi procede con andatura anomala. Tanti, troppi. Arriveranno ugualmente sperimentando altre soluzioni, ma forse il loro dolore non sarà stato utile come sperato.

Peter Cameron
Un giorno questo dolore ti sarà utile
Adelphi Edizioni
pp.206
€ 12,00

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“Fame d’aria” di Daniele Mencarelli

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L’agonia che non passa. “Fame d’aria” di Daniele Mencarelli, Mondadori ed.

@ Agata Motta, 19 agosto 2023

Se non si può più vivere la propria vita, se bisogna accudire momento per momento il proprio figlio, se non è neanche ipotizzabile tornare indietro all’epoca in cui tutto era fattibile e semplice, è scontato sentirsi senza ossigeno, agonizzanti, affamati d’aria per via di un macigno posato sul petto a pressare senza misericordia, bisognosi, e magari desiderosi, di un pietoso colpo di grazia per interrompere una sofferenza che ha il sapore dell’ineluttabilità e dell’eternità del nostro tempo sulla terra. “Ha da passà ‘a nuttata” diceva Eduardo, ma ci sono certe notti che non passano mai, che offrono solo incerti spicchi di luna da osservare da lontano con la consapevolezza che l’algido bagliore non apparterrà mai a chi guarda la vita dal di fuori, una vita che scorre per gli altri e non più per se stessi in un altrove irraggiungibile.
In Fame d’aria di Daniele Mencarelli, Mondadori editore, la percezione del dolore muto e insostenibile legato alla gestione di un figlio disabile (autismo a bassissimo rendimento) lacera come un vetro aguzzo e scava nella carne con la rabbia impotente di un padre che si interroga sulla propria sorte e che riversa il proprio insopportabile malessere sul ragazzo, tanto bello quanto inconsapevole dello sfascio prodotto nella coppia che lo ha generato. La beffa atroce dell’autismo è quella di non manifestarsi subito, di lasciare ai genitori il tempo di gioire, di illudersi, di progettare, fino ai giorni amari dei dubbi, della percezione di una diversità evidente, dello sgomento di una diagnosi che non lascia alcuno spazio alla speranza ma solo ad incessanti tentativi di terapie volte ad alzare di pochi millimetri l’asticella del rendimento e di una impossibile autonomia. E saranno i giorni “della tenebra più fitta della notte”, quelli dell’invidia per il miracolo di un figlio normale. La ferita narcisistica e l’autocommiserazione (Possibile io? Perché proprio a me?) diventano compagne inseparabili e se almeno in sogno affiorano brandelli di normalità, il risveglio, dopo pochi attimi di nebbiosa sospensione, riconsegna l’impatto con una realtà senza scampo scandita da cure igieniche e istruzioni alimentari. Il rimpianto di un’altra vita possibile, senza quel figlio o con un figlio come gli altri, trafigge il cuore come un inattingibile raggio di luce. Lo sguardo vuoto del ragazzo è lo specchio dell’impotenza paterna, di un sentimento che somiglia all’odio e che invece è soltanto un amore frustrato, tanto disperato quanto inutile.
Pietro viaggia su una vecchia Golf con il figlio Jacopo diretto in Puglia, a Marina di Ginosa, là dove tutto è cominciato, là dove un incontro di sguardi ha fatto conoscere l’amore a Pietro e a Bianca. Un guasto alla frizione costringe Pietro a fermarsi a Sant’Anna del Sannio, un minuscolo paese in pietra bianca, in cerca di aiuto. Le solite occhiate su Jacopo – ci vuol poco a coglierne la diversità, bastano gli occhi privi di qualsiasi scintilla e i movimenti stereotipati – la solita risposta brusca e spiazzante a chi chiede chiarimenti per pietà o per morbosa curiosità, il solito finto interesse per “qualsiasi tema che riguarda l’esistenza”. Il rischio dell’asfissia emotiva è dietro l’angolo, l’aria come elemento vitale viene a mancare e porta alla morte spirituale.

Daniele Mencarelli

Cos’è rimasto di Bianca e Pietro? Cos’è rimasto del loro amore? Cosa può sopravvivere in giornate prive di qualsiasi orizzonte progettuale? E se a tutto questo si uniscono le difficoltà economiche e la solitudine nel proprio dramma, come può la vita sorridere o offrire qualche lusinga? Il bonario soccorso del meccanico Oliviero e la severa ospitalità di Agata, proprietaria di un bar che un tempo era stato anche pensione, lo trattengono in un microcosmo di riservatezza in cui i sentimenti sembrano raggelati ma pronti ad affiorare. Un refolo d’aria sembra giungere a Pietro dal sorriso di Gaia, una donna che aiuta Agata nelle faccende da sbrigare, di cui solo alla fine si scoprirà il passato, ma quell’aria, di cui il protagonista ha una fame disperata, non può posarsi sulle sue aride labbra, e sembra che il destino debba compiersi così come lui ha deciso di costruirlo attraverso quel viaggio, uno sgambetto alla malasorte, uno sberleffo che vuol trasformarsi in un abbraccio di purissimo amore. Non sarà così per quel piccolo prodigioso fenomeno che chiamiamo empatia e grazie alla piccola comunità che si stringe intorno al corpo estraneo per proteggerlo da se stesso e dai propri impulsi distruttivi.
Nella singolare e disturbante immagine di copertina si coglie l’allusione al pio Enea che regge sulle spalle il vecchio padre Anchise con un doloroso e innaturale capovolgimento. Pietro appare piccolo e per nulla rassegnato a portare la sua croce, Jacopo giganteggia con un corpo arrotolato e inerte, il volto di chi non ha percezione del proprio esagerato peso.
Mencarelli torna al proprio vissuto con un testo meno ricco e articolato rispetto al bellissimo La casa degli sguardi del suo esordio narrativo, ma più dolente ed essenziale, quasi prosciugato persino nella sintassi, e si conferma grande narratore di verità dolorose, di quelle vite assurde e spigolose che la sorte affibbia senza ritegno a chi non le merita.
“Dio è un altro” recita la dedica dell’autore, una preghiera o uno schiaffo per quel Dio che si vorrebbe sentire vicino nella disperazione e che invece non risponde perché non vuole o non può o più semplicemente perché non esiste così come l’essere umano lo concepisce, è un altro. Non è dato conoscere il perché della sofferenza, si può solo prenderne atto e continuare a soffrire.

Fame d’aria
Daniele Mencarelli
Mondadori
19,00 €

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“Il custode delle parole”di G. Criaco

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La lingua che dà forma ai pensieri. “Il custode delle parole” di Gioacchino Criaco, ed. Feltrinelli

@ Agata Motta, 28 luglio 2023

La montagna madre, Mana Gi, che incombe con tutta la sua lucente bellezza sul territorio calabrese, è la muta protagonista del romanzo di Gioacchino Criaco Il custode delle parole, Feltrinelli editore, e si fa monito per chi la vive, perché bisogna guardare in alto per scorgere i propri sogni, sollevare la testa per vedere la bellezza che aleggia intorno a noi, voltarsi indietro nel tempo per capire chi sono stati quelli che hanno percorso il nostro cammino e seguirne le orme per non disperdere il patrimonio di cultura e conoscenza che hanno lasciato in eredità.
Criaco sceglie di ambientare la sua storia in Aspromonte, luogo già presente nella sua narrativa, che ha visto intere comunità allontanarsi alla ricerca delle più comode e moderne località costiere mentre le sue pendici venivano piagate da speculazioni ambientali che ne hanno alterato i secolari equilibri, e fa di un vecchio pastore il nume tutelare di quel mondo che stenta a mantenere la propria identità. Nonno Andrìa custodisce con devota ostinazione una lingua, il grecanico, che cuce il presente al suo passato, che dà forma a pensieri che non potrebbero essere espressi in altro modo, perché “se a un popolo rubano le parole, quel popolo è morto” anche se non se ne accorge. Il vecchio pastore deve lottare per far giungere quelle parole e quel messaggio di resistenza alle orecchie sorde del nipote che porta il suo nome, ma infine riuscirà ad innestare nelle nuove generazioni, sempre più tentate dall’emigrazione, quella linfa vitale in grado di avviare un movimento a ritroso di gestazione, rinascita e riappropriazione. Che lo faccia con mezzi non sempre leciti poco importa, perché certi mostri non si possono combattere con armi troppo spuntate, che indirizzi e manovri le azioni del nipote per raggiungere il suo obbiettivo significa semplicemente che sente di essere nel giusto e che uno scossone talvolta è necessario per aprire gli occhi di chi si incaponisce a non vedere.
Andrìa e Caterina, giovani adulti che non hanno ancora ben chiaro cosa fare da grandi, rappresentano la svilita categoria dei lavoratori sottopagati dei call center, in bilico tra il desiderio di partire in cerca di soluzioni migliori e la voglia di continuare a resistere, ma sembrano possedere una marcia in più data da una visione della vita più ampia e aperta a nuove possibilità. Lambiti dalla salsedine di un mare che respira in sintonia con il loro amore, Andrìa e Caterina reagiscono in modo opposto al rude richiamo del vecchio pastore: lui vuole sottrarsi a quello che sembra il destino ineluttabile indicato dal nonno che vorrebbe farne il suo erede materiale e spirituale, lei ama quella vita a contatto stretto con la natura in cui i tempi sono dettati dai cicli vitali degli animali e delle piante e in cui la fatica diventa l’antidoto alla pigrizia che li incatena ad un futuro senza prospettive. Entrambi sono anche virtuosi spettatori, e spesso partecipi soccorritori, degli incessanti sbarchi dei migranti nel paese della cuccagna incapace di accogliere chi fugge dalla povertà e dalla morte per incappare nella morte in mare o nel nomadismo dei respinti. Il sacro dovere dell’ospitalità, come eco dei poemi omerici che si riverbera nel presente, alberga ancora nel cuore di chi è disposto ad offrire un letto, del cibo e persino un lavoro ai disperati, così nonno Andrìa accoglie nella clandestinità il giovane Ydir, nato nella notte in cui “la stella delle cinque vite faceva capolino dalla coda della costellazione dell’Aquila” e quindi predestinato alla sopravvivenza, un taciturno Ulisse che parte per combattere una guerra dalla quale vuol tornare vincitore, perché ogni migrante ha la sua Itaca nei pensieri e ad essa vuole riapprodare. Per Andrìa questo gesto è come un sasso scagliato nel fondo limaccioso della propria inerzia. Inizialmente vive Ydir (che gli somiglia in modo impressionante e poi si capirà perché) con gelosia, lo vede come un intruso che si è appropriato del suo posto e che ha attivato l’empatia di Caterina, ma infine per lui e per il suo villaggio compirà un piccolo miracolo di generosità e di altruismo. Sono i gesti compiuti gratuitamente per gli altri, sembra dirci l’autore, quelli dai quali ricavare gioia, sono le piccole oscillazioni del cuore quelle che provocano grossi smottamenti e taumaturgiche ripartenze.

Gioacchino Criaco

Il mondo di Andrìa e quello di Ydir sono destinasti ad incontrarsi in quanto facenti parte di un’unica realtà: “L’Aspromonte sa d’Oriente e d’Africa insieme, un profumo che ha intriso la carne, ed è inutile che la scuoino, il suo odore resterà per sempre, dovessero scarnificarla fino al centro del pianeta”, ciò che appare lontano e differente è in realtà vicinissimo e presente, dentro gesti, sguardi, profumi, sapori.
Gioacchino Criaco, con una lingua talvolta aspra sulla quale bisogna inerpicarsi e talvolta voluttuosa al punto da lasciarsene cullare, racconta la sua terra senza tacerne contraddizioni e affanni ma calandola nella sacralità e nel mito. Il canto delle sirene della modernità da una parte e la ricerca delle proprie radici dall’altra, seppur nel loro stridente contrasto, possono confluire in una nuova consapevolezza che non passa attraverso la rinuncia alla propria appartenenza.
Custodire caparbiamente antiche parole, come ha fatto nonno Andrìa, significa anche custodire affetti, tradizioni, identità e valori che appartengono alle viscere dell’essere umano e alle viscere della terra.
“Chi sceglie la montagna è uno che vuole vincere, non un vinto… solo dei fessi possono commiserare chi vive all’altezza delle nuvole”.

Gioacchino Criaco
Il custode delle parole
Feltrinelli editore
pp.204
17,00 €

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Rubare la notte di Romana Petri

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Saint-Exupéry e l’ansia del divino. “Rubare la notte” di Romana Petri, ed. Mondadori

@ Agata Motta, 17 giugno 2023

Non sorprende trovare Rubare la notte di Romana Petri, Mondadori editore, nella cinquina dei finalisti del Premio Strega, quello che stupisce semmai è che una talentuosa, raffinata, poliedrica scrittrice e traduttrice come lei non lo abbia già ottenuto in precedenza e che romanzi straordinari come Ovunque io sia, Le serenate del Ciclone e Figlio del lupo siano stati lasciati semplicemente al loro successo.
Come sempre quando si accosta a personaggi reali – il padre Mario Petri, Jack London ed Antoine de Saint-Exupéry in questo caso – per ricostruirne la biografia, l’autrice parte da dati oggettivi e documentati per introiettarli e poi trasferirli nell’immaginifico flusso vitale che si rovescia addosso al lettore con un tornado di emozioni vive e pulsanti. Così il lavoro certosino condotto sulle fonti (gli scritti anzitutto in quanto emanazione diretta di ogni autore) o nella propria memoria costituisce un sostrato solido ma non ravvisabile, mentre emerge la capacità dell’autrice di penetrare nella zona più intima dei protagonisti e di consegnarli alla fine come amici di vecchia data con i quali poter prendere un caffè al bar con la certezza di una consolidata confidenza.
La precisione delle informazioni e degli aneddoti si concretizzano dunque in una struttura robusta attraverso la quale raggiungere altezze vertiginose. Per l’aviatore Saint-Exupéry l’altezza è il cielo immenso nel quale perdersi per potersi ritrovare come uomo e come scrittore. E in quel blu cobalto da notturno volato e rubato (come concesso dalla lingua francese che utilizza un solo verbo per le due accezioni) si staglia lo sghembo e romantico velivolo, con tanto di pecora e di rosa quasi tatuati sull’ala e in carlinga ad omaggiare il Piccolo Principe, proposto in copertina dall’amica pittrice Rita Albertini (alla quale il romanzo è dedicato), già ispiratrice del personaggio scomodo di Luciana Albertini in Pranzi di famiglia e La rappresentazione e quindi elemento di continuità con gli scritti precedenti, quasi anello di congiunzione tra gli affetti veri e quelli letterari della Petri.

Saint-Exupéry

Tonio bambino e Tonio adulto, due figure che si fondono in un unico personaggio, perché il piccolo Tonio ha pensieri e sogni adulti e il grande Tonio ha sensazioni e nostalgie bambine. L’infanzia felice abita il difficile presente e lo nutre con l’amore materno paziente e discreto, proietta la sua ombra lunga sulle pagine dello scrittore e sulle impennate aeree verso un cielo più ospitale della terra, capace di accogliere nell’azzurro la sproporzione di un corpo troppo massiccio e la parentesi mai chiusa di una condizione di perenne stupore.
Le fluviali lettere alle madre, che la Petri immagina e utilizza come contenitore di emozioni e come fresa per scarificare l’anima, costituiscono il filo conduttore di un romanzo che attraversa le tante stagioni di un uomo complesso – quella letteraria, quella del pilotaggio, quella bellica e quella amorosa – che amava porgersi in maniera leggera, che usava l’arguzia e la capacità oratoria per persuadere e raggiungere i suoi scopi, che annegava dilemmi e ansie in pantagrueliche mangiate e abbondanti bevute, che travasava le proprie esperienze di volo in pagine capaci di accendere l’entusiasmo dei lettori, che indugiava tra mondanità e isolamento, che cercava la tenerezza e la dedizione di tante donne per ottenere almeno un pallido riflesso di un’idea d’amore che non avrebbe mai trovato piena realizzazione in nessuna di esse.
Le lettere erano d’altronde l’unico strumento concesso dall’epoca alla comunicazione più intima e Saint-Exupéry, che nella narrativa amava scrivere per sottrazione, se ne servì senza risparmiarsi facendole viaggiare da un continente all’altro quasi identiche, con piccoli aggiustamenti per destinatarie diverse, dall’ostinato e inscalfibile amore giovanile alle amiche particolari cui sottoporre le opere in fieri, dalla capricciosa e bellissima moglie Consuelo alle amanti occasionali, quasi tutte inizialmente concepite per la madre, unica “riserva di pace”. E in ogni lettera comunque parlare di se stesso significava per Tonio porgere alle sue donne un dono amoroso, offrire un narcisistico momento di condivisione per il quale essergli grate.
Dall’altro lato l’universo maschile, fatto di amicizie importanti, grazie alle quali entrare nel circuito letterario o mantenere la possibilità di volare oltre ogni ragionevole limite d’età, e di rari contatti fraterni e duraturi per i quali nutrire nostalgie e rimpianti, come quello con il vecchio pilota Gavoille cui verrà consegnata la borsa in pelle di cinghiale contenente il manoscritto de La cittadella.

In filigrana compaiono le guerre – per una beffa anagrafica (Saint-Exupéry nacque nel 1900) mai pienamente combattute ad esclusione di quella civile spagnola – che lo infiammano di amor patrio. E per amore dell’amatissima Francia l’ormai osannato scrittore andrà negli Stati Uniti a caldeggiare un intervento americano, ma la manifesta ostilità per De Gaulle gli varrà l’accusa, sempre respinta con amarezza, di collaborazionismo.
Poi l’ultima semplice missione nel ’44 e la scomparsa nel cielo, l’uomo viene inghiottito dal suo elemento naturale per diventare leggenda. Antoine de Saint-Exupéry è tuttora uno degli autori più letti al mondo.
La compattezza della storia non viene scalfita dai tanti salti temporali nei quali la perfezione dell’impalcatura orienta con la precisione di una bussola. Il pensiero corre a briglie sciolte tra cielo e terra, in volo un taccuino su cui appuntare la vita con schizzi e frasi brevi, al suolo un’ansia del divino che insegue l’ipotesi di un Dio personale e silenzioso o di un intero olimpo da mantenere in vita pena la morte.
La memoria livella e riplasma traumi lontanissimi – la morte del padre, uno sconosciuto di cui ritrova le tracce nella materna giovinezza appassita e nel taglio dei propri enormi occhi, e quella del fratello adolescente – e sconfitte recenti, prima tra tutte quella legata ad un rapporto coniugale travolgente e complicatissimo. La stessa memoria restituisce all’occorrenza lo sguardo di un amico scomparso o le sensazioni legate a quell’infanzia paradossale in cui la felicità non era avvertita come tale sul momento, ma era destinata a divenire tangibile e abbagliante nel ricordo. Poi, nel tempo, subentrano l’angustia per i malesseri fisici e l’ipocondria, per cui la questione pressante e mai risolta dell’imparare a morire diviene ineludibile per il pilota che, sempre più spesso, gioca al rialzo e ama durante le missioni “sfiorare la catastrofe e lasciare tutti senza fiato”.

Romana Petri

Esiste una indubbia somiglianza tra la vita di Antoine de Saint-Exupéry e quella di Jack London (protagonista di Figlio del lupo), entrambi sono uomini d’azione e visionari sognatori, entrambi vivono le relazioni con le donne in maniera totalizzante ed entrambi sono fortemente segnati da madri sotto certi aspetti ingombranti ma amatissime, entrambi agognano una paternità che il destino nega loro, entrambi provano un’ansia di movimento che convive con quella della ricerca del porto sicuro, entrambi hanno un rapporto anomalo con il denaro, lo inseguono per sperperarlo, entrambi bruciano in quattro decenni una vita così ricca di eventi da poter equiparare almeno dieci vite comuni. Uomini dalla sensibilità diversa accomunati da un modo particolare di stare nella vita e di uscirne fuori sbattendo la porta, come a dire ne ho abbastanza, sono sazio, ne ho fatto indigestione. E se la scelta della Petri è andata per ben tre volte (se si considera anche il romanzo dedicato al padre) su queste personalità, dev’esserci un’affinità spirituale, un trasporto, un’ossessione che trovano identiche radici, un’inquietudine esistenziale persecutoria che può sublimarsi solo nella scrittura (o nell’arte per il Ciclone) e in quel mondo astratto, ma per certi versi ancora più autentico, che l’immaginazione crea a propria immagine e somiglianza.
La Petri porge la materia narrata con una prosa elegante, corposa, curata, in perfetta simbiosi con contenuti che dalla ricchezza lessicale e dal periodare cesellato ricavano sostanza e spessore. La tentazione della semplificazione, anzi della banalizzazione del linguaggio, che sempre più spesso viene spacciata per scelta stilistica, non l’ha mai sfiorata, non può interessare a chi possiede storie sempre nuove da raccontare e il dominio perfetto di una tecnica di scrittura mai disgiunta dal talento visionario. Nelle sue pagine questi elementi si fondono in maniera spontanea, non se ne avvertono i confini e l’unica percezione ricavabile è quella di una limpidezza di pensiero che si traduce in frasi spesso bellissime. Chi ha l’abitudine di sottolineare, si ritroverà alla fine con un libro fittamente segnato, vissuto rigo per rigo, magnificamente massacrato.
Sono felice di non essere cambiato troppo. Sono ancora convinto che gli uomini siano tutti abitanti dello stesso pianeta, passeggeri della stessa nave.

Romana Petri
Rubare la notte
Mondadori
pp.264
19,00 €

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“Dove manca qualcosa” di Francesca Zanette

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Il castigo del rimorso. “Dove qualcosa manca” di Francesca Zanette, rfb edizioni

@ Agata Motta, 6 giugno 2023

Gradevole esordio narrativo questo di Francesca Zanette che pubblica per la giovane casa editrice rfb Dove qualcosa manca, un romanzo storico ambientato in due snodi cruciali del secolo scorso, quello della Resistenza e, saltando la fase intermedia, quello della ripresa economica del ’58.
I protagonisti sono i membri di una famiglia che ha contribuito alla lotta partigiana pagando, come tante altre famiglie, un tributo altissimo, ma inizialmente ne conosciamo solo due, i fratelli Caterina e Carlo, la prima sposa devota dell’altrettanto devoto Pietro, il secondo scapolo impenitente ormai vicino alla capitolazione. La sorella minore Emma e i genitori emergeranno invece pian piano da un passato ancora troppo recente e grondante di dolore per poter essere accantonato o peggio dimenticato.
L’autrice, attraverso un impianto arioso, quasi in contrapposizione con la chiusura geografica e mentale del luogo e dei suoi abitanti, scrive un romanzo corale che si apre ad una pluralità di voci e prospettive che restituiscono gli ambienti del piccolo paese delle prealpi venete e, sin dalle prime pagine, immette nell’ordito narrativo un tassello destinato ad avviare la danza dei ricordi in un crescendo di tensione manovrato con garbo. Un forestiero piomba nella bottega gestita da Caterina e la sconvolge al primo sguardo. È l’ex tenente tedesco Matthias Rubl, che torna con i suoi occhi azzurrissimi e una Leica al collo in cerca di foto per il suo giornale e soprattutto in cerca di guai a detta della vox populi. Come sempre avviene nei piccoli centri, in cui i ritmi sono scanditi con monotona precisione e i ruoli sono interpretati così come la gente se li aspetta, basta un singolo elemento perturbante a scombussolare l’apparente e sonnacchiosa quiete.
Perché torna quell’uomo nel territorio che lo ha visto nemico? Cosa cerca in un paese in cui, come Giovannino Guareschi insegna, comunisti e democristiani si spartiscono porzioni di piazza e accessi ai bar pizzicandosi con battute pungenti ma sostanzialmente innocue? Tutti portano addosso le ferite della guerra, tutti hanno almeno un morto da piangere e non sempre riescono cristianamente ad accettare chi parla con il maledetto accento del passato bellico e si muove con cortesia e sfrontatezza come se non avesse nulla da temere. E cosa possono volere gli scintillanti occhi del tedesco dalla bella, fiera e riservata Cate?

Francesca Zanette

Naturalmente si scoprirà solo alla fine e nel frattempo si ascoltano in dialoghi spontanei e pregevoli, la cui massiccia presenza spesso è resa sapida da intercalari dialettali, le chiacchiere in bottega tra un acquisto e l’altro, gli asciutti consigli del vecchio prete don Fulvio, in perpetuo bilico tra ascesi e pragmatismo, che conosce ogni singola pecorella del suo gregge e ne custodisce i segreti, le confidenze a mezza bocca di donne sposate che percepiscono se stesse come custodi del focolare domestico pur cedendo a qualche libertina evasione, le finte schermaglie politiche davanti ai bar, le affettuose premure di amiche intente al ricamo.
Particolarmente intense le aspre pagine che raccontano un frammento della Resistenza. Sembra quasi di sentire il tanfo di sudore e l’odore acre della paura di giovani, uomini e donne perché ognuno fece la sua parte, disposti a sacrificarsi e a morire, o di avvertire la sottile gioia nel fare la conta dei nemici uccisi, giovani anch’essi e pieni di sogni, ma “con la divisa di un altro colore” come cantava De André. L’autrice non propone una manichea separazione tra buoni e cattivi, ognuna delle parti in causa lotta per la “propria” verità che naturalmente non coincide con quella dell’altro, si compiono atti eroici e nefandezze come vuole la legge onnivora della guerra.
Grazie ad una prosa scorrevole con brevi concessioni a riflessioni in cui piace immergersi, su questo doppio binario temporale, che vede la partecipazione di Cate e dei fratelli alla lotta partigiana alternata ai capitoli in cui le ventate di novità soffiano sull’Italia contadina a scuoterne il torpore, si corre incontro al disvelamento di segreti nascosti per vigliaccheria o per un malinteso senso del pudore. E può capitare di scoprire che i nemici in realtà non sono tali e che gli amici invece sono serpi che hanno spruzzato veleno restando a loro volta avvelenati, perché il rimorso e il senso di colpa rimangono il più potente dei castighi che gli uomini si impartiscono da soli come diabolici sacramenti.
I tempi non sono maturi per scelte da scontare come peccati, ma la verità è un dono che può illuminare ciò che resta da vivere.

Francesca Zanette
Dove qualcosa manca
rfb editore
pp.266
17 €

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“Scordato” di Rocco Papaleo

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Vivere in sordina. “Scordato” di Rocco Papaleo

@ Agata Motta, 14 maggio 2023

Un film delizioso Scordato, l’ultimo lavoro di un Rocco Papaleo, disposto a svelarsi in modo più diretto senza rinunciare al proprio stile, anzi prendendone pieno possesso, camminando in bilico tra temi e luoghi frequentati e nuove istanze senza mai ripetersi, disorientare o peggio scivolare.

Giunto all’ingrato approdo dei sessant’anni con la consapevolezza della propria rassegnazione ad un opaco presente di depressione e di contratture fisiche ed emotive, l’accordatore di pianoforte Orlando – lo stesso Papaleo che firma anche sceneggiatura (con Valter Lupo) e regia – avverte con sempre maggiore insistenza la voce critica (e la presenza fisica) del se stesso giovane (il solare Simone Corbisiero), allegro e pieno di speranze, e di un passato, chiuso ormai fuori a doppia mandata, che vorrebbe confusamente risucchiarlo. Il motivo si scoprirà poco alla volta, perché in quel passato è da collocare il trauma che ha portato il giovane Orlando alla fuga da Lauria, il paese lucano di origine, nonostante il forte legame che lo univa alla bellissima madre (Manola Rotunno), della quale malvolentieri aveva accettato le seconde nozze con l’albergatore Rocchino (Jerry Potenza) e all’esuberante sorella Rosanna (valida e calzante Angela Curri). La possibilità di riavvolgere il nastro e di sciogliere l’amaro garbuglio che ne ha fatto un eterno irrisolto, gli viene offerta da una giovane fisioterapista – Giorgia in un dignitoso debutto come attrice che non nega comunque la sua straordinaria voce – che, avvertitane la desolata fragilità, lo esorta a tornare in Basilicata per recuperare una foto di gioventù attraverso cui operare un confronto con la contratta postura attuale. La sua bella terra, mostrata in inquadrature di struggente bellezza e ammantata di nostalgia, è amata di incondizionato amore anche quando si rivela impermeabile tanto al male quanto al bene e risultano pertanto corrosive, polemiche ed esilaranti alcune scene, come quella in cui nessuno mostra entusiasmo per la nomina di Matera a Capitale europea della cultura 2019 e quella in cui il becero automobilista che gli offre un passaggio prospetta per Potenza uno sviluppo futuristico in stile Dubai. Lì, a Lauria, si trova il bandolo della matassa e della semplice storia del mite Orlando, avvezzo ad un consumo ormai anestetico di spinelli e disposto ad arrabbiarsi solo su discutibili e anacronistiche questioni di principio, si recupera il passato in ampi flashback. La politica, gli intrallazzi e il terrorismo hanno teso una corda sul suo cammino. Lui non è inciampato, ma lo hanno fatto le persone più care, soprattutto la sorella che non si innamora di un’ideologia, quanto della sua distorsione e del suo malinteso senso di giustizia radicale. E allora la fuga si prospetta come il male minore, la soluzione più comoda, la pietra tombale sulla gioia e sulla poesia che aveva coltivato sin da bambino, persino sul dialetto cui lo sprona invece il giovane se stesso suggerendo così che senza le radici si appassisce soltanto.

Si può fare pace con il passato e andare avanti anche a sessant’anni, ma prima bisogna guardare in faccia i fantasmi del passato, restituire loro la voce, sfiorarne la pelle invecchiata, accettare l’assenza del pentimento che non comporta lo spegnersi degli affetti, perdonare. E dietro quei fantasmi o nelle stanze impolverate della vecchia casa si possono trovare altre verità che sgretolano certezze per costruirne di nuove.

Se la prima scena, in cui Orlando quasi si immola ad un incontro sessuale che non giungerà a compimento per una contrattura alla schiena – l’occasione narrativa che darà seguito al resto della storia – sembra condurre ai noti sentieri umoristici dell’autore, bastano poco per realizzare che questo è un film in parte diverso, intriso di malinconia e tenerezza, e tutto ciò che di noto torna del Papaleo precedente viene restituito filtrato da una nuova coscienza di sé, da un’indagine interiore di nuovo e più robusto spessore che travolge e a tratti persino commuove. Lo sguardo di Papaleo, anche attraverso il confronto con quello scanzonato e provocatorio di Corbisiero, assume una drammatica intensità e se le labbra pronunciano parole che strappano il sorriso, gli occhi raccontano un dolore reale, quello di esseri umani che vivono in sordina, che accordano strumenti altrui glissando sulle proprie dissonanze, sui sogni calpestati da una vita che ha imboccato direzioni impreviste e non scelte.

Verrebbe quasi voglia di abbracciarlo stretto stretto quando, incoraggiato e illuso dagli amichevoli atteggiamenti della fisioterapista, si ritrova respinto e solo a realizzare la propria inesorabile vecchiaia e ancora abbracci a profusione quando, riappropriatosi della vena poetica giovanile per puro uso personale (meglio scrivere che strafarsi di spinelli) avanza sul pontile scandendo bellissimi versi (parte del testo di Tu sei una parte di me, la canzone che accompagna i titoli di coda cantata da Giorgia e Papaleo) e lasciandosi alle spalle le persone del passato e del presente senza rinnegarle, semplicemente oltrepassandole per godere di un attimo di compiutezza.

Ci vorrebbe un ago e non un’agonia per imparare la pazienza del sarto che cuce vestiti e feriti
Spero ci venga in mente un pensiero esilarante, quelli che fanno ridere di questa inconsistenza
E per un attimo, ingannevolmente, ci rendono compiuti (Tu sei una parte di me).

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“La casa degli sguardi” di Daniele Mencarelli

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Viaggio di sola andata. “La casa degli sguardi” di Daniele Mencarelli

@ Agata Motta, 8 maggio 2023

La morte di un bambino è una bestemmia che non ha giustificazione alcuna, è una violenza inaudita alla quale Dio non si oppone, quel Dio che dovrebbe chiedere perdono per il dolore che consente sulla Terra. Il tema del male inflitto agli innocenti, vissuto come scandalo insostenibile, emerge prepotente dalle pagine di autori che non smettono di interrogarsi su laceranti questioni morali ed è presente nel romanzo d’esordio La casa degli sguardi (Premio Severino Cesari Opera Prima, Premio Volponi e Premio John Fante Opera Prima), edito da Mondadori, del poeta romano Daniele Mencarelli che consegna alla scrittura la propria dura esperienza di vita, un candido fiore del male che profuma di verità e sofferenza.
Come il Cristo in croce che implora gli uomini di perdonare il Padre “perché non sa quello che fa”, come Caino consapevole di essere soltanto uno strumento per la realizzazione del progetto divino – entrambi superbamente rappresentati dalla potenza visionaria di Josè Saramago – anche il giovane Daniele, stritolato dall’angoscia, inizialmente si ribella all’idea di un Dio sordo o addirittura compiacente, ma nell’eterno conflitto tra il bene e il male lascia aperto un varco salvifico. Da quelle morti di cui è tormentato spettatore nell’ospedale pediatrico del Bambino Gesù, da quei piccoli martiri incolpevoli, da quegli sguardi muti carichi di vita negata Daniele Mencarelli ha ricevuto il dono della redenzione dopo una giovinezza di eccessi autodistruttivi causati da una carica empatica devastante, dallo spontaneo istinto di reggere sulle proprie spalle tutte le croci del mondo.
Nel romanzo Daniele ha venticinque anni (tolto il velo della finzione letteraria, di se stesso in sostanza parla l’autore), ha spazzato via gli ultimi quattro con determinazione e con l’unico obiettivo di spazzare via tutti gli altri ancora da soffrire. Perché per Daniele vivere equivale a questo, soffrire passo dopo passo nella certezza di non essere malato ma semplicemente “vivo oltremisura”. Capita dunque di incespicare nelle droghe e infine nell’alcol alla ricerca permanente di uno stato di dimenticanza che appanni la percezione della propria miseria e della devastazione prodotta nella famiglia che tenta di accudirlo. I sensi di colpa nei confronti dei genitori, in particolare della madre che dorme sui gradini davanti la stanza in attesa del suo risveglio, mordono la carne ma non bastano a farlo smettere di bere, è più semplice continuare a farlo e sprofondare nuovamente nella dimenticanza. Poi un amico poeta gli procurerà un contratto di lavoro con una cooperativa che agisce nell’ospedale pediatrico del Bambino Gesù di Roma. Sarà lo snodo, il punto di svolta in un crescendo di cadute e risalite.
La consapevolezza del peso abnorme di una sensibilità acutissima vissuta come una dannazione porta l’autore alla ricerca di risposte perentorie sul destino dell’uomo e sul suo viaggio in una terra che porge le lusinghe della natura da una parte e la disperazione della solitudine dall’altra. Le risposte arriveranno proprio attraverso la capacità di sporcarsi per comprendere l’ipotesi del bene e attraverso il furto improvviso di brandelli di bellezza nel mite capolavoro del creato. E saranno risposte pregne di speranza, perché si può ricominciare a vivere dopo aver attraversato l’inferno, portando sulla pelle cicatrici e ustioni che non potranno rimarginarsi e guarire perché saranno necessarie per continuare a ricordare ciò che si è visto, ciò che si è patito. Immergersi nel dolore, percorrerlo in apnea, testimoniarlo e poi restituirlo sotto forma di poesia darà al giovane Mencarelli la seconda possibilità, quella di ripartire senza lasciarsi alle spalle gli anni tossici delle dipendenze ma facendone materia incandescente e oggetto di riflessione. E alle esperienze vissute in momenti diversi del proprio calvario Mencarelli è tornato con Tutto chiede salvezza e Sempre tornare. La salvezza agganciata alle parole come sempre avviene in chi vive e si nutre di scrittura.

Daniele Mencarelli

La prosa di Mencarelli scandaglia il proprio malessere esistenziale e la sofferenza gratuita e incomprensibile dei bambini e li osserva da vicino con immagini vivissime e laceranti, eppure ne emerge nitida e pulita e, in ogni pagina, si avvertono il cesello lessicale del poeta e il riverbero sonoro delle parole. La consuetudine con le sceneggiature traspare invece nei dialoghi con i colleghi e con i familiari nei quali subentra il dialetto per restituire atmosfere genuine e reali, battute che sembrano quasi registrare il parlato nel suo apparire sulle labbra dei personaggi.
Se la dimenticanza alcolica avrebbe dovuto condurre alla divina indifferenza, è nella lucidità riconquistata che l’autore incontra la gialla ginestra leopardiana e la oltrepassa. Nei compagni di lavoro ha scoperto l’appartenenza, il riconoscimento e la fratellanza, nelle parole di una suora una visione dell’esistere che oltrepassa il contingente, negli occhi curiosi dei bambini malati e in quelli spenti dei loro genitori la compassione. La comunione con gli altri uomini scaturisce dall’essere compagni di un viaggio di sola andata, di cui non è possibile conoscere la destinazione e la durata, sotto un cielo magnificamente azzurro per chi lo sa guardare.
Sembra la prima alba del mondo […] Appoggiato alla balaustra del belvedere, mi fermo a guardare. Ogni singola particella del cosmo sembra in armonia con quello che ha intorno, nulla stride, non c’è infelicità a perdita d’occhio: Dio si palesa così, parla dentro questi momenti, l’attimo in cui il respiro si ferma.
A chiusura una poesia inedita del 2018 dedicata a Toctoc, Alfredo, uno dei bambini dell’ospedale, morto dopo un anno di degenza, con il quale il giovane Daniele aveva intrecciato un muto dialogo fatto di gesti attraverso il vetro di demarcazione tra il mondo dei sani e quello dei malati. È uno di quegli sguardi che ha continuato a trafiggere il ricordo del poeta che infine usa le proprie parole per regalargli una pagina d’immortalità.

La casa degli sguardi
Daniele Mencarelli
Mondadori 224 pagine € 12,50

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Il peso delle parole di Pascal Mercier

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La cerimonia sacra della scrittura. “Il peso delle parole” di Pascal Mercier, ed. Fazi

@ Agata Motta, 18 aprile 2023

Le parole scritte, più di quelle pronunciate a voce, devono essere esatte, soppesate, plasmate, incastonate. Lo sanno bene gli scrittori e soprattutto i traduttori, impegnati nel delicato compito di restituire non solo il senso ma anche il ritmo, lo stile, il suono di una lingua talvolta assai diversa da quella originale. E dunque lo sa bene l’inglese Simon Leyland, traduttore per professione, protagonista de Il peso delle parole, l’ultimo gioiello che Pascal Mercier, scrittore e filosofo svizzero, regala ai lettori attraverso Fazi Editore che si aggiudica uno dei testi più densi e impegnativi degli ultimi anni.
Si tratta di un romanzo di indiscutibile bellezza, ma un simile giudizio sarebbe riduttivo e non spiegherebbe a pieno il senso dell’operazione, incredibilmente ardua e perfettamente riuscita, effettuata dall’autore e consegnata ai lettori italiani nell’accuratissima traduzione di Elena Broseghini. Alle parole è attribuito il senso stesso dell’esistenza degli esseri umani, perché le parole possono contrastare l’inganno e l’illusione del tempo, perché sono capaci di invertire una rotta programmata o di illuminare vicoli oscuri, perché sono coltelli e garze, risate e pianto. Le parole possiedono il peso corporeo e massiccio del significato e quello leggero e immateriale del significante che, in questo caso, sembra quasi ossessionare il protagonista che resta ammaliato dai suoni e dai ritmi e coltiva il sogno adolescenziale di imparare tutte le lingue dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo.
La storia del protagonista, arricchita da sottotrame che si intersecano per confluire in un disegno unitario, si potrebbe raccontare in poche righe, nonostante il cospicuo numero di pagine del volume, ma ancora una volta incapperemmo in uno sterile tentativo di semplificazione di una materia magmatica che si nutre di linguistica, di filosofia, di narratologia facendo coesistere l’impianto argomentativo e la lucidità assertiva del saggio con la gradevolezza della scrittura creativa. Si trovano dunque molte digressioni colte che potrebbero sembrare un appesantimento superfluo per la storia e che invece ne costituiscono la possente spina dorsale per la fecondità degli stimoli offerti.

Traduttore di professione e poi erede della casa editrice triestina appartenuta all’amatissima moglie morta in giovane età, il sessantenne Leyland, affetto da terribili emicranie che gli tolgono momentaneamente, quasi con uno spietato contrappasso, l’uso della parola, si ritrova ad affrontare una terribile diagnosi  ̶ in un’età in cui non si è ancora disposti a lasciare la vita a cuor leggero  ̶  che muterà le sorti della sua vita, ma il caso, che sembra giocare un ruolo determinante nelle traiettorie frastornanti e imprevedibili seguite dagli esseri umani, mescolerà le carte e aprirà il sipario su nuove ribalte in cui agiscono personaggi che mutano a loro volta, alcuni cambiando pelle altri riappropriandosi di ciò che sembrava ormai oggetto di scarto. L’agguato costante delle scelte, quelle già fatte e quelle ancora da fare, è affrontato con bruschi scossoni o impercettibili movimenti e si cerca di comprendere quanta e quale libertà si nasconda dietro le decisione prese. Ciò che siamo, che facciamo, che mostriamo è frutto di piena consapevolezza o il caso si intromette fino a negare l’illusione del libero arbitrio? O è solo attraverso la letteratura che può giungere la libertà per chi riesce a nutrirsene?
Frattanto la lente d’ingrandimento puntata sul protagonista ne rivela la capacità introspettiva e il bisogno di comprendere se e in che modo la vita possa conservare ancora un senso dopo il dolore della perdita, intesa qui non solo come lutto, e quindi come vuoto emotivo lasciato da una compagna con la quale aveva vissuto in simbiosi, ma anche come perdita dei riferimenti professionali che avevano scandito il tempo di un uomo apparentemente solido e strutturato.

Pascal Mercier

Il tempo in realtà è l’altro grande protagonista del romanzo, percorso in tutte le sue potenzialità e forme, memoria più volte attraversata e scenario futuro da scoprire, tempo da razionare o da dissipare, da diluire e da assaporare, da cancellare e da dimenticare, tempo che rivendica il suo presente come vera essenza dell’adesione alla vita, tempo sempre e comunque oggetto di riflessioni penetranti che appartengono ad ogni individuo oltre che al personaggio e all’autore. Mentre il passato giunge a ondate in ricordi sparsi e frammentati sui quali tornare più volte aggiungendo o sottraendo dettagli ed emozioni, l’intervallo di vita oggetto della narrazione, quasi un anno in particolare, vede muoversi l’uomo nei luoghi dell’anima, in particolare Londra e Trieste con i loro scorci di luce cangiante e le loro atmosfere singolari e avvolgenti, due luoghi distinti per due vite diverse che troveranno infine la loro spontanea fusione.
Leyland ha due figli, Sofia e Sidney, dei quali seguiamo i tortuosi percorsi che porteranno a nuovi inizi, come se l’evento che ha coinvolto il padre avesse causato ripercussioni inevitabili nei loro vissuti, un po’ come gli ampi cerchi prodotti da un sasso gettato in uno stagno.
Un piccolo drappello di personaggi indimenticabili, ad ognuno di essi Mercier dedica tanta attenzione e cura da poterne ricavare materia per innumerevoli altri romanzi, incrocia la propria vita con quella del protagonista: Andrej Kuzmìn, un uxoricida russo che occupa le sue giornate nella colossale opera di traduzione di un testo che dovrebbe in qualche modo avere effetti taumaturgici sul proprio doloroso malessere; Kenneth Burke, vicino di casa solitario, talentuoso musicista (non per niente la musica fa capolino come altro linguaggio percorribile) ed ex farmacista reo di aver distribuito illegalmente farmaci senza prescrizioni per pura compassione, che diverrà amico intimo e fonte di proficuo confronto; Francesca Marchese, scrittrice affermata in crisi creativa ed esistenziale; Paolo Michelis, un insegnante precario che dedica dieci anni della propria vita nella composizione del suo personalissimo capolavoro. Quasi tutti scrivono, alcuni per rincorrere il successo, com’è naturale e giusto che sia, ma l’impressione che emerge con forza è che scriverebbero lo stesso, per se stessi, per continuare a manovrare significati e significanti che anche da soli possono garantire un senso allo scorrere dei giorni.
Il peso delle parole si profila, dunque, come un trattato esauriente sulla scrittura in tutte le sue declinazioni, dal rovello che accompagna il lavoro del traduttore, messo a nudo e sviscerato come raramente si fa per questa operazione spesso orfana dell’attenzione della critica e del lettore, al processo creativo vero e proprio, analizzato strada facendo attraverso la stesura di un racconto (e l’illustrazione dei processi narratologici insiti in esso, come la scelta della voce narrante, del punto di vista, del ritmo narrativo) che il protagonista scrive per trovare “le sue personali parole”, come gli era stato raccomandato dallo zio erudito di cui eredita la bella dimora inglese, sino ai meccanismi editoriali che portano a compimento il processo di elaborazione.
E poi c’è posto anche per la scrittura privata, quella intima che non necessita di visibilità, come le struggenti lettere-riflessioni nelle quali continuare il dialogo con la moglie Livia che nemmeno la morte ha spezzato, quella che talvolta è più vera, necessaria e gratificante per chi cerca in essa una dimensione di autenticità da contrapporre alla recita costante del vivere quotidiano.

La vita o si vive o si scrive diceva Pirandello e il nostro Leyland, come alcuni dei suoi compagni di viaggio, sembra indugiare in questa affermazione fino ad aderirvi in modo più o meno consapevole. Da qualunque angolazione la si guardi, la scrittura appare come un atto in sé monumentale, una cerimonia sacra, una terapia dolorosa, un rito per pochi iniziati capaci di dedicarvi le ragioni e il tempo della propria esistenza. “E all’alba spesso mi ritrovavo seduto alla scrivania e pensavo: foss’anche questo l’ultimo giorno, vorrei passarlo con le parole”.
Mercier aveva già avviato i suoi lettori con Treno di notte per Lisbona, altro indimenticabile romanzo di commovente bellezza, ad una scrittura profonda, avvolgente, complessa ma perfettamente fruibile a più livelli, e qui la ritroviamo, se possibile intensificata dal più ampio respiro dettato dalle quasi seicento pagine che scrutano le pieghe dell’animo di Leyland e dei tanti altri personaggi proposti, dietro i quali sembra di intravedere lui, l’autore, che ad ognuno presta un gesto, una parola, un pensiero, perché, si sa, chi scrive finisce con lo scrivere di sé.
Appartato nel suo angoletto, Cesare Pavese, autore amatissimo tradotto da Leyland, sorride sornione, probabilmente pago della dedizione che Mercier gli ha dimostrato. Anche lui conosceva il peso delle parole e il duro mestiere di vivere con esse e per esse.

Il peso delle parole

Pascal Mercier
Fazi Editore
20,00 €
pp.586

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“La casa del tè” di Valerio Principessa

Il tempo immobile dei ragazzi di Casa Retrouvailles. “La casa del tè” di Valerio Principessa, ed. Feltrinelli

@ Agata Motta, 07-11-2022

Tra i tanti esordi narrativi regalati dall’anno in corso, quello di Valerio Principessa, studi scientifici e una grande passione per l’affabulazione maturata già nell’infanzia, contiene elementi di forte fascino, soprattutto per un pubblico di lettori giovani, ma non risponde pienamente alle intriganti premesse.
La casa del tè, edito da Feltrinelli, è infatti un romanzo parzialmente riuscito che apre uno spiraglio sulla dinamiche interne di un’improbabile casa famiglia gestita da un’anziana giapponese, Michiko, dedita alla cura delle ferite interiori dei suoi ospiti attraverso una continua mescita di tè e sorrisi empatici, e da uno strampalato francese, Bernard, che custodisce in boccette di vetro gli odori di sensazioni ed emozioni e che costituisce il cuore pulsante della ricca biblioteca cui i ragazzi attingono spinti da motivazioni diverse.
Gabriel, voce narrante e protagonista, è un ragazzo di età indefinita (si può ipotizzare sia ormai alle soglie della maggiore età), molto adulto nei pensieri come spesso accade a chi è costretto a crescere precocemente. Ha perso la nonna con la quale viveva, unico porto sicuro di una vita che si intuisce difficile e zeppa di cose di cui vergognarsi, porta al polso un orologio fermo, simbolo del tempo immobile di chi si dibatte in pantani esistenziali, e si ritrova nella Casa Retrouvailles, con altri ragazzi spezzati e immersi in silenziose pozze di sofferenza.
Ogni ospite ha piaghe aperte nelle quali Gabriel, come ha saggiamente imparato a sue spese, non mette il dito, e dolori maceranti con cui convivere. Tutti, una volta entrati in quella che vorrebbe proporsi come una bolla di serenità, devono lasciare un oggetto in una cesta, bisogna lasciare “ciò che eri e non sarai mai più” precisa Michiko con il chiaro intento di mettere a fuoco l’obiettivo da raggiungere per ottenere la propria rinascita.
Principessa consegna al lettore i personaggi con tenerezza e finezza psicologica, ne fa sgualcite figurine di un sottobosco sociale dominato da una singolare morale e da un rispetto reciproco che passa dalla condivisione del male, inflitto o subìto. Così conosciamo Chiara, la ragazza di brina dai capelli sugli occhi, appassionata di astronomia alla quale l’autore regala probabilmente un suo personale interesse; Leo, bambino logorroico alla perenne ricerca di attenzioni e affetto; Greta, la ragazza dai capelli color miele perennemente tuffata sullo schermo del cellulare a dialogare con se stessa per confermare la propria esistenza; Amina, silenziosa giovane donna nera aggrappata ad un bambolotto; Scar, il più problematico e ambiguo dei personaggi, dotato di una personalità scissa che contiene punte estreme di violenza e sussulti di generosità e abnegazione.
I personaggi esterni alla Casa invece appaiono meno convincenti, sembrano inseriti per arricchire un plot che altrimenti risulterebbe scarno di avvenimenti o per innestarvi snodi rivelatori, come il barbone Natale o il “cantastorie” cieco Kojo. La collocazione, tra le pagine, di messaggi con mittente e destinatario ignoti, risulta inoltre piuttosto discutibile, perché nulla aggiunge alla sofferenza del personaggio (si comprenderà alla fine quale, ma non è difficile arrivarci d’intuito) e crea semmai una fastidiosa ridondanza narrativa.
La frattura nella placida e stagnante sopravvivenza dei ragazzi arriva con un’ulteriore assenza, dura come uno schiaffo in pieno viso, quella della signora Michiko, il polo d’attrazione, il surrogato materno, l’ago della bilancia, il deposito di parole consolatorie sempre pronto al soccorso emotivo. Ma sarà proprio da quella mancanza che scaturiranno altri equilibri e inesplorate dinamiche in grado di riplasmare il piccolo universo e donargli nuovi precari baricentri.

Valerio Principessa

La parte oscura del breve vissuto dei personaggi emerge lentamente, ma poi si svela del tutto con una brusca accelerazione nella parte finale del libro, talvolta in modo sbrigativo e forzato – come la storia di Amina, condensata in una lettera che apre un sipario noto sulle vergognose e atroci peregrinazioni dei migranti – quasi a voler soddisfare residue curiosità e non l’esigenza insita nella narrazione.
La vicenda inizialmente si dipana con un linguaggio semplice fino alla banalità, rimpolpato da etimologie, citazioni, informazioni curiose, fenomeni fisici, riferimenti scientifici (talmente ampi e tecnici da rallentare parecchio il ritmo della narrazione) e filosofici, frasi ad effetto che sembrano sassi piazzati su un fragile ordito. Poi pian piano la prosa prende quota e si assesta su un livello piano e godibile e quelli che sembravano pezzi aggregati diventano tasselli che fungono da colonna sonora, una peculiarità dell’autore. È il caso delle parole intraducibili in altra lingua, la parte più intrigante e civettuola di questo complesso procedimento di accumulazione lessicale, quelle di cui il protagonista subisce il fascino, che vengono disseminate qua e là a seconda dei contesti e che costituiscono il sottotitolo alle fotografie mentali che Gabriel conserva di piccoli momenti che assumono importanza cruciale nel suo personalissimo percorso di crescita.
L’autore guarda al Giappone con l’interesse che ormai da più di un decennio appartiene alle giovanissime generazioni e lo innesta in modo singolare in un rione romano con una commistione sapida e accattivante. Lo sguardo posato sulle vite sdrucite dei giovani emarginati è però prevalentemente letterario, la voglia di raccontare storie sembra prendere talvolta il sopravvento e dominare le pagine in cui personaggi come Kojo diventano narratori di secondo grado pur di incrementare il piacere del racconto quasi (perché comunque una funzione interna Principessa ad essi attribuisce) fine a se stesso. Ecco allora che questa chiave di scrittura se da una parte allontana da un processo di mimesi dall’altra ne costituisce l’originalità.
Preziosa la copertina di Bianca Bagnarelli, per grafica e colori, che attira lo sguardo a chilometri di distanza.

Valerio Principessa
La casa del tè
Feltrinelli editore
pp.283
16,00 €

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Dante di Pupi Avati

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Pellegrinaggio di Boccaccio sulle tracce di Dante, in sala il nuovo film di Pupi Avati

@ Agata Motta, 04-10-2022

Sergio Castellitto e Pupi Avati

Se è vero che ogni regista ambisce ad un film che possa consegnarlo sopra tutti gli altri alla memoria dei posteri, probabilmente Dante rappresenta proprio questo per Pupi Avati che alla genesi dell’opera ha dedicato più di un decennio di amorevoli studi e di sconfinata ammirazione. Il regista aveva già pubblicato lo scorso anno il romanzo L’alta fantasia, Solferino editore, che contiene per intero la sceneggiatura in una suggestiva forma narrativa dal linguaggio ricercato e dalla singolare struttura.
Accingersi a narrare del Sommo Poeta dev’essere stata un’impresa titanica non soltanto per l’altezza inarrivabile del “personaggio” ma anche per l’esiguità delle fonti che da secoli costringe i dantisti ad ipotesi e congetture. Ecco allora giungere in soccorso un altro gigante, Giovanni Boccaccio, che dell’opera dantesca era stato appassionato didattico e che da Dante aveva ricevuto in dono l’amore per la poesia, unica vera gioia della sua vita. Il regista ha dunque sentito di aver trovato una soluzione perfetta nel parlare di Dante attraverso lo sguardo innamorato di Boccaccio, sguardo che in sostanza coincide con il proprio ma che gli ha offerto la possibilità di creare un affascinante gioco di richiami letterari.
Interrogarsi sul rapporto di Dante con la propria creatività e sperare che nella consapevolezza del suo genio abbia vissuto la sublimità, come Avati dichiara nelle note al romanzo, sono stati gli input che hanno messo in moto il processo creativo dal quale emerge un Dante, non coincidente in tutto con quello della memoria scolastica, che vive il proprio tempo gravato dal fardello tutto umano della fragilità, del dubbio, della paura, della lacerazione e dell’umiliazione, ma sorretto, dopo l’esilio, dall’indomita speranza di un ritorno in patria aureolato dalla gloria poetica.
Ad Alessandro Sperduti spetta il ruolo non semplice di incarnare il Poeta e di farsi carico di tutte queste sfumature che restituisce con puntualità e aderenza, specie negli ampi e segmentati passaggi dell’amore per Beatrice e dell’affetto per l’amico Guido Cavalcanti, tanto da commuovere con certi sguardi tracimanti amore e dolore ad un tempo. Boccaccio è interpretato con evidente dedizione da un magnifico Sergio Castellitto, che ne fa un personaggio vero e sofferente, le mani bendate e martoriate dalla scabbia che lo tormenta e il bisogno di riabilitare, mettendone in luce la profonda spiritualità, un poeta considerato eretico per aver fustigato papi indegni e immorali consuetudini ecclesiastiche.
Il film prende avvio dalla canzone Donne ch’avete intelletto d’amore, lirica che orgogliosamente Dante rivendica, per bocca di Bonagiunta Orbicciani incontrato tra i golosi del Purgatorio, come quella che diede avvio alla “nuova maniera di poetare”, cui segue l’agonia del Poeta a Ravenna vegliata da una piccola folla e dal figlio Iacopo. Trent’anni dopo Boccaccio sarà incaricato dalla Compagnia di Orsanmichele di portare una borsa di dieci fiorini d’oro a suor Beatrice, la figlia di Dante, come risarcimento per le pene inflitte dalla città di Firenze al padre.

Basilica di Sant’Apollinare in Classe

Il viaggio di Boccaccio si trasforma dunque in un pellegrinaggio attraverso i luoghi percorsi dal Poeta che ne conservano le vestigia: le antiche dimore in cui si era mosso, il campo di battaglia di Campaldino, la pineta che conduce alla basilica di Santa Apollinare in Classe dai cui mosaici furono ispirati alcuni versi del Paradiso. Il vissuto del Poeta emerge per frammenti da quelli che tecnicamente sono flashback, ma, sotto il profilo della narrazione, l’espediente di legare quei tasselli ai luoghi e ai testimoni diretti, che seppur vecchi potevano offrire a Boccaccio il balsamo di un ricordo o la soluzione di un enigma (il mistero del ritrovamento degli ultimi canti del Paradiso), àncora l’uomo Dante al suo tempo, a quel complicato brandello di Medioevo fatto di lotte tra fazioni avverse, ingerenze papali e contratti matrimoniali. E al suo tempo appartengono anche gli efferati fatti di cronaca che giungono fino a noi nei ritratti immortali di Paolo e Francesca e del conte Ugolino (gli unici evidenti richiami alla Divina Commedia) che avevano suscitato la commozione del Poeta e ne avevano acceso l’immaginazione. La Morte, che in quell’epoca mieteva vittime in quantità spropositate, aleggia con prepotenza nel racconto e nell’ambientazione, sembra creare un contrappunto necessario ai sentimenti amorosi, e il regista insinua, attraverso le tante immagini cupe, un’amara riflessione sulla durata e sul valore della vita umana.
Nella scelta di costruire una sorta di cornice narrativa dentro la quale innestare il racconto biografico e quello poetico (le liriche tratte dalla Vita Nova costituiscono una sottotrama di suggestiva efficacia) è probabile che il regista abbia voluto omaggiare implicitamente anche Boccaccio che proprio in quegli anni – siamo nel 1350 – stava portando a termine il Decameron.
Ad un oggetto malandato, “la bambola nuziale di una gran signora”, simbolo di fertilità che diviene invece foriero di morte, è affidato il compito di farsi cerniera tra il tempo narrato e quello della narrazione, un oggetto appartenuto a Beatrice che dovrà divenire il dono di un padre, Boccaccio, alla figlia bambina della quale cerca di conquistare l’affetto.

Ecco che il personaggio Boccaccio, nel quale Avati si rispecchia e che pronuncia parole che in realtà gli appartengono, diviene protagonista accanto al suo idolo, si fa riflesso di una visione nuova e sotto certi aspetti romantica che consegna Dante agli spettatori negli anni della giovinezza segnata dal dissidio tra ragione e sentimento.
Dante è anzitutto guidato da Amore, una forza occulta e devastante che determinerà il suo percorso come essere umano e come poeta e la sua Beatrice è più donna terrena che donna angelo. L’esile e bionda Carlotta Gamba ne fa una fanciulla inquieta e turbata dalla dedizione di un ragazzo, incontrato per la prima volta bambino, che la segue per guardarla da lontano, che le sorride il giorno del matrimonio nonostante il dolore gli stia schiantando il petto. Ed è bellissima la scena in cui Beatrice, salendo le scale che la condurranno alla sua dimora di donna sposata dove a breve consumerà le nozze, sembra suggerirgli il sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare in un’atmosfera di magica sospensione. Altrettanto poetica la scelta di rappresentare il volto di Beatrice morta deturpato dal vaiolo, quel volto che agli occhi del poeta resterà splendido in eterno, quel volto che lo indurrà a “dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna”. Beatrice infatti tornerà nei suoi versi come beata e lo guiderà nell’ascesa al Paradiso, nessuna donna era mai stata cantata in questo modo.
L’esilio è compresso in poche simboliche scene, come quella in cui cui l’esule traccia su un lenzuolo i nomi dei morti da collocare nei mondi ultraterreni, e infine il cerchio si chiude tornando all’immagine iniziale: Dante muore. Il momento è sottolineato dal temporale come gli altri passaggi ritenuti cruciali dal regista, e Avati immagina di far raccogliere al figlio Iacopo le ultime parole del Poeta giunto finalmente a Dio, “alla fine di tutti i disii” (Paradiso, XXXIII).
Il film è diretto con una squisita ricerca formale di forte impronta pittorica, valorizzata dalla fotografia di Cesare Bastelli, che veste di luci e ombre gli interni e di una patina di antico gli esterni, e dal dirompente commento musicale di Lucio Gregoretti e Rocco De Rosa.

Di alto livello tutta la recitazione, ma emergono, per la particolare forza espressiva, Romano Reggiani che ben rappresenta la fierezza aristocratica di Guido Cavalcanti, Leopoldo Mastelloni che porge un Bonifacio VIII grottesco, untuoso, viscido e querulo, e poi ancora Alessandro Haber, l’indignato abate di Vallombrosa, Enrico Lo Verso, il fiducioso compagno di viaggio Donato degli Albanzani, Milena Vukotic, la rigattiera, Erica Blanc, Gemma Donati anziana, Morena Gentile, la donna gozzuta, Gianni Cavina, il vecchio Piero Giardina e Valeria D’Obici che regala a Suor Beatrice un’intensità di rara bellezza. A lei e a Sergio Castellitto la scena finale del film – un approdo per Boccaccio, una carezza per l’anziana monaca amareggiata che non riesce a perdonare – che si imprime negli occhi e nel cuore: un uomo e una donna si tengono per mano nella penombra del chiostro, alle loro spalle, non visibile ma evocato, l’Albero del Paradiso che non produce più mele dalla morte del Poeta e tutt’intorno il tenue baluginio di lucciole che sembrano stelle, quelle stelle di cui il Poeta conosceva tutti i nomi, quelle stelle che chiudono le tre cantiche con un’unica parola.
Con coerenza Avati segue per lo più gli spunti biografici forniti dal Trattatello in laude di Dante del Certaldese e nel farlo si discosta talvolta dalle scarne fonti storiche, come per quanto riguarda il matrimonio con Gemma Donati, che era stato contratto in età adolescenziale, quindi ben prima della morte di Beatrice. E, nel mostrarci questo giovane Dante, il regista sfuma, lasciandola in controluce, la chiara consapevolezza del suo genio che dovette fargli temere più di ogni altro (forse più della lussuria su cui invece si indugia) quel peccato di superbia che tentava di arginare quanto più ne avvertiva la seduzione. Non per nulla, come acutamente ha osservato Piero Trellini nel suo Danteide, la Divina Commedia può essere percepita come l’edificazione della risarcitoria mitologia di se stesso voluta dal poeta. Il tratto dato da Avati alla sua opera, che costituisce un unicum nella sua filmografia, è quindi frutto di una scelta precisa, ciò che vuole definire e circoscrivere è l’immagine del Dante a lui più caro, quello che vagheggerà per sempre con “l’alta fantasia” che appartiene ai grandi artisti, il Poeta che ha “fatto sì che la sua emozione divenisse l’emozione del mondo”.

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