Little Joe

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Il fiore rosso della felicità. ‘Little Joe’ di Jessica Hausner, Prix d’interprétation féminine Cannes 2019 a Emily Beecham

@ Agata Motta (13-08-2020)

Un caschetto di capelli rossi e uno sguardo mite e innocuo, il fisico esile come quello di un elfo. Si presenta così Emily Beecham, vincitrice del Premio all’interpretazione femminile al Festival di Cannes 2019, nel ruolo di Alice, una fitogenetista che lavora con un’équipe di scienziati alla creazione di un fiore che dovrebbe innescare una vera e propria rivoluzione sociale ed economica per le proprietà terapeutiche del suo profumo.

Little Joe, in uscita il prossimo 20 agosto, è un delizioso film, diretto con rigore e forte senso estetico dall’austriaca Jessica Hausner, che al di là delle etichette di genere che gli sono state attribuite (distopico, fantascientifico) offre innumerevoli sollecitazioni etiche, un impianto fortemente metaforico e un’atmosfera paranoica che non sembri assurdo definire elegante e stilizzata.

L’ambientazione è londinese, ma naturalmente potremmo trovarci in qualsiasi altra parte del pianeta votata all’industrializzazione, all’ottimizzazione dei profitti e al sacro furore della ricerca scientifica. Che un profumo seduca, influenzi le scelte e determini comportamenti non è una scoperta eccezionale, lo hanno ben capito le star del mondo dello spettacolo, gli imprenditori e le grandi catene alberghiere che usano fragranze accattivanti per predisporre alla sensualità, all’acquisto e al benessere, ma qui il passo compiuto è assai più lungo e non può non condurre nella selva intricata dell’ingegneria genetica praticata con discutibile disinvoltura.

Nel bianco asettico e abbacinante del laboratorio aziendale, il fiore erge la sua fiammeggiante corolla lanciando promesse di successo allo sguardo assorto degli scienziati che lo coccolano amorevolmente, prima tra tutti la solerte e determinata Alice, che non esita ad effettuare mutazioni genetiche poco ortodosse per il raggiungimento dell’obiettivo: il fiore, sprigionando ossitocina, deve indurre al cervello una sensazione di appagamento simile ad uno stato costante di felicità, un vero passo da gigante nella storia dell’umanità da sempre in lotta con la sofferenza e con il malessere interiore.

Malessere che attanaglia la stessa protagonista, madre proiettata alla realizzazione professionale e rosa da sensi di colpa nei confronti del figlio adolescente Joe. Alice tenta di far luce sui propri lati oscuri tramite sedute di psicoterapia che serviranno soltanto a sedare timidi bagliori di lucida coscienza nei confronti della realtà esterna che pare voglia sfuggirle di mano. Per la terapeuta (Lindsay Duncan) infatti, tutto dev’essere ricondotto nell’alveo rassicurante di una razionalizzazione delle pulsioni e dei desideri inconfessabili e pertanto repressi, come quello, inaccettabile per qualsiasi madre che si ritenga amorevole e devota, di volersi alleggerire del peso di un figlio limitante per la propria carriera.

Il malessere soffoca anche Bella (tenera Kerry Fox), l’anziana collaboratrice dal fosco passato, unica portatrice sana di pensiero divergente in un ambiente infetto. La donna comprenderà subito l’impatto devastante degli effetti collaterali dello splendido fiore e, come Cassandra, rimarrà profeta inascoltata di prossime sventure finché il sistema, fallito il tentativo di assorbirla, non ne decreterà l’espulsione. Gli altri colleghi e collaboratori (David Wilmot, Phénix Brossard, Sebastian Hülk), tutti efficacissimi sul piano di una recitazione volutamente pacata e senza eccessi, saranno progressivamente fagocitati dal sinistro fascino olfattivo del fiore che placherà insicurezze, dubbi, e qualsiasi altra manifestazione di disagio. Persino il timido Chris (un camaleontico Ben Whishaw), corteggiatore discreto e paziente perderà le sue specifiche caratteristiche per divenire un ambizioso ricercatore senza scrupoli e un innamorato intraprendente e a tratti prevaricatore nell’intrufolarsi capziosamente nel rapporto di Alice con il proprio figlio.

Joe (Kit Connor), del quale il fiore porta il nome come se per Alice fosse quasi un duplicazione, è un perfetto prototipo di adolescente figlio del suo tempo che vedrà interrotto (o trasformato/evoluto?) il profondo legame affettivo con la madre a causa della presenza del rosso ospite trapiantato illecitamente in casa come innocente dono risarcitorio. Se l’essere umano vive lottando quotidianamente con i propri mostri, la loro definitiva sconfitta porta ad una condizione simile alla morte, come esplicitamente dichiarano, sotto forma di scherzo, Joe e la sua amichetta del cuore in un significativo dialogo che sembra volerci condurre ad una interpretazione risolutiva per poi avviarci nuovamente sui sentieri già battuti del dubbio.

Sotto il profilo squisitamente tecnico, il film possiede un impianto connotato dai contrasti, sia per quanto riguarda le contrapposizioni cromatiche valorizzate dall’ottima fotografia di Martin Gschlacht  sia per quanto concerne il linguaggio delle riprese che dipanano pigramente l’elemento perturbante che si insinua poco alla volta nella mente dei personaggi.

Il bianco e il rosso, con la variante del fucsia, e il verde mela dominano incontrastati negli interni del laboratorio, dai quali emana una sensazione ambigua di freddo – i camici bianchi degli studiosi e i loro calcoli razionali – e di caldo umido – i petali filiformi e folti che si distendono beati nella serra/incubatrice loro destinata – mentre tinte più cupe e tonalità ramate come quella dei suoi capelli dominano l’abitazione di Alice. La macchina da presa avanza con lente carrellate in netta opposizione alla velocità di crescita che si vorrebbe imprimere alle piante per essere pronte per la grande esposizione che segnerà il traguardo dell’ardita sperimentazione.

La sceneggiatura della stessa Jessica Hausner e di Géraldine Bajarde porge dialoghi scarni e asciutti, l’impotenza delle parole scagliata contro il muro di una coalizione di intenti. Vengono invece sfruttate le variazioni quasi impercettibili della mimica facciale che riflette comportamenti nuovi e stati d’animo diversi, i gesti mai esibiti o ridondanti, le atmosfere ora fiabesche ora iperrealistiche che slittano in quelle da costante incubo ad occhi aperti, le musiche del compositore giapponese Teiji Ito che costruiscono un ordito di suoni dolci e percussivi, il montaggio sonoro di Tobias Fleig che inserisce un sottofondo di latrati, quasi ad annodare un filo immaginario con il cane Bello, lo stesso nome declinato al maschile della proprietaria che non esiterà a farlo sopprimere quando non lo riconoscerà più come il proprio oggetto d’amore.

Nessuna violenza esibita, nessuna scena forte da digerire, solo una leggera, serpeggiante inquietudine che di tutti questi contrasti si nutre.

Il fiore è sterile, per sopravvivere ha quindi bisogno di una riproduzione assistita che solo gli esseri umani possono garantirgli in uno scambio di “favori” che potrà perpetuare lo spiraglio di felicità conquistata coincidente con la fine delle emozioni. Un virus (casuale e inquietante riferimento in questa fase storica che al virus è assoggettata) si trasmette al cervello per costringerlo ad amare il fiore e a far sì che non si estingua.

Davvero tante le chiavi di lettura e tra tutte si è liberi di scegliere la propria, sebbene l’autrice  definisca nell’ultima scena il quadro multiforme schizzato con volute polivalenze.

Il messaggio più semplice e superficiale, da fiaba a lieto fine e pertanto assai improbabile, sarebbe che se ci prendiamo cura di qualcuno o di qualcosa esso possa restituirci l’amore e la felicità che meritiamo, ma qui c’è qualcosa di più sottile e inquietante, perché l’amore presenta sempre le sue insidie, porge un conto da pagare. Il fiore, che esala vapori apparentemente benefici e pollini in grado di modificare le strutture psichiche, sembra più che altro la messa in scena di un legame profondo e perverso con le parti più intime e nascoste dell’Io, di un amore simile a quello di Narciso, devastante e impossibile, condannato a ripiegarsi su stesso e a nutrirsi di proiezioni illusorie.

La felicità rincorsa da un’umanità zombificata sarebbe frutto dell’assenza di empatia, di una finzione che porta a recitare se stessi per mantenere un appagamento che possa protrarsi oltre l’effimero degli attimi fuggenti, della messa al bando dei sensi di colpa e degli scrupoli etici, di un parossistico individualismo che bandisce sentimenti potenzialmente dolorosi per crearne di nuovi perfettamente anestetizzati.

Il dubbio resta la sostanza pregnante del film. Si è trattato di suggestioni o dell’avvio verso una nuova società di uguali, di soldatini efficienti impegnati nel perpetuo sogno della conquista della felicità?

https://www.scriptandbooks.it/2020/10/02/il-fiore-rosso-della-felicita-little-joe-di-jessica-hausner-prix-dinterpretation-feminine-cannes-2019-a-emily-beecham/

Tre Piani di Eshkol Nevo

Reperti del dolore. ‘Tre piani’ di Eshkol Nevo, ed. Neri Pozza

@ Agata Motta (27-04-2020)                          Letteratura. Saggistica breve.

Avete presenti quei libri che divorate forsennatamente per sapere come va a finire? Tre Piani di Eshkol Nevo appartiene a questa categoria, ma spiazza il lettore strada facendo, perché, pur illudendolo nell’attesa di un finale che plachi la curiosità, lo soddisfa solo in parte. Delle tre microstorie proposte, infatti, soltanto l’ultima, che è anche la più complessa e avvolgente, ne possiede uno. In sostanza quella che l’autore ha creato è la tensione narrativa e quello che ha tenuto avvinti alle pagine è stato il rovello dei personaggi in parte migrato nelle regioni sensibili delle inquietudini personali.

Con una laurea in psicologia abilmente messa a frutto attraverso l’uso del lessico specifico della disciplina che scolpisce gli arabescati meandri della mente umana, Eshkol Nevo è stato un pubblicitario prima di convertirsi totalmente alla letteratura ed è giunto prepotentemente alla ribalta più con il meccanismo del passaparola che attraverso i canali ufficiali. Dei suoi libri si discetta piacevolmente con gli amici e non è raro trovare i suoi romanzi tra quelli postati sui social come letture consigliate. Ciò nulla toglie a questo raffinato protagonista di una civiltà di transizione, fortemente tentata dall’oblio storico e naturalmente spinta verso un onnicomprensivo virtuale, che  riporta l’uomo e le sue mille contraddizioni al centro del proprio campo d’indagine, l’uomo con le sue relazioni “autentiche” e con il suo patrimonio storico che agisce in chiaroscuro anche quando sembra sepolto e dimenticato.

Marc Chagall (1887-1985)_Het blauwe huis

Marc Chagall, Il sogno di Giacobbe

La sua è un’altra limpida voce che giunge da Israele, dopo quelle già da tempo affermate ed apprezzate della generazione precedente – Abraham Yehoshua, Amos Oz, David Grossman – e con esse condivide la necessità di raccontare storie di disagevoli normalità con lo scavo meticoloso e asettico di un bisturi che si fa spazio dentro i labbri di una ferita infetta, ma senza alcun compiacimento, come mosso da una necessità conoscitiva che trova la sua piena realizzazione nella comunicazione con l’altro, con colui che saprà ascoltare. Già con Nostalgia, pubblicato inizialmente da Mondadori e poi da Neri Pozza, casa editrice che ha continuato a seguire tutto il percorso dell’autore, Nevo aveva raccolto grandi consensi e il successo ha accompagnato anche i lavori successivi.

Tre piani è il penultimo romanzo (seguito a breve distanza da L’ultima intervista sempre per Neri Pozza) che contiene tre lunghi racconti che si incrociano per brevissimi istanti – giusto lo spazio di qualche riga o di qualche periodo in cui il cambio di focalizzazione consente di guardare i personaggi da altri punti di vista – come a voler contenere dentro un’unica cornice narrativa lo srotolarsi di tre vissuti completamente diversi accomunati dal luogo di residenza, una palazzina (che diviene pertanto cornice architettonica) nella zona periferica di Tel Aviv nella quale i tre protagonisti abitano in tre piani diversi.

Marc Chagall, Violinista verde

Come in altri romanzi di Nevo, la casa, luogo di affetti o di disgregazioni, di riconoscimento sociale o di scelte radicali, acquisisce un’importanza simbolica (in costante opposizione al movimento senza meta prestabilita) che, probabilmente, risale al dramma collettivo della diaspora e alla conseguente ossessione di stabilità e di radicamento. Ciò che è stato non si disperde nell’incessante trascorrere del tempo. Ne è dimostrazione una lunga sequenza presente nel testo che narra di una adunata politica giovanile intenta all’esperimento del “sogno collettivo”, e qui torna utile ricordare l’importanza attribuita ai sogni nella cultura ebraica (quanto sogna il giovane Amir in Nostagia!) che nel Talmud li considera come “espressioni di un volere divino” che va interpretato. Viene spiegato che “ogni sogno contiene in sé, oltre agli elementi personali, anche elementi che sogniamo per tutta la società della quale facciamo parte” e si individua ovviamente nella Shoah il livello profondo comune a tutti i sogni di chi vive in quel paese, una sorta di incombente inconscio collettivo presente anche nelle generazioni che non l’hanno vissuta direttamente. Certe tragedie storiche quindi non possono non marchiare a fuoco un popolo e non influire sulle sue scelte individuali e politiche. Ancora in Nostalgia aleggia, con esiti diversi, l’assassinio di Rabin; esso si innesta nel quotidiano senza essere percepito come evidente elemento perturbante ma producendo conseguenze tangibili.

Come è stato più volte sottolineato, i tre piani del romanzo (vale la pena notare il valore simbolico dei numeri, ed in particolare del tre, nella cultura ebraica) coincidono in maniera scoperta con le tre istanze psichiche analizzate da Freud: Es, Io e SuperIo, tanto da ritrovarli esemplificati nei personaggi.

Talmud babilonese

Marc Chagall, Sabbath

Il primo protagonista, Arnon, agisce d’istinto seguendo paure e intuizioni irrazionali ma non eludibili che lo porteranno, nell’implacabile ricerca di una colpa altrui, ad inciampare nei propri errori difficilmente riparabili; nella seconda, Hani, si è guastato il delicato meccanismo della mediazione tra istanze e dell’adattamento alla realtà tipici dell’Io e ciò le farà avvertire come impercettibile il confine tra realtà e immaginazione fino a farla sentire irrimediabilmente calamitata da una condizione di pre-follia pronta a divampare come una scintilla alimentata dal vento; la terza, Dovra, non può che essere un giudice, proiezione corrispondente e simmetrica dell’ultima istanza, il Super Io censore, e lo è in maniera così scoperta da condurla a leggere e commentare l’opera di Freud che cessa, in tal modo, di essere un’ipotesi di riferimento per divenire una dichiarata certezza. Superfluo aggiungere quanto le esperienze pregresse e le relazioni familiari incidano sulle condizioni degli attuali turbamenti dei personaggi.

La forza della narrazione non risiede comunque in quella che potrebbe apparire come una sovrastruttura non indispensabile. A conferire fascino alle storie, oltre al linguaggio sobrio, asciutto, paratattico e pertanto rapido e immediato, con il dialogo libero dal virgolettato e scandito soltanto dalla punteggiatura, è senz’altro la disposizione dei personaggi all’indagine interiore, quel grattare sulla superficie dei fatti per riportare alla luce i reperti di vecchi e insanabili dolori, quella sistematica denuncia delle proprie colpe seguita a corto raggio da arringhe difensive dalle argomentazioni solo in apparenza inoppugnabili. Le rivelazioni dilaganti dei protagonisti sono affidate all’ascolto di interlocutori cui il personaggio/narratore si rivolge direttamente, quasi a prevenirne le obiezioni o a tentare di stornarne il giudizio: un amico scrittore (che potrebbe somigliare allo stesso autore), un’amica lontana da sempre ammirata ed invidiata come modello di perfezione, il marito defunto la cui voce viene riesumata attraverso una vecchia segreteria telefonica. Ed è proprio quel “tu” narrativo di volta in volta diverso che diviene l’altro strumento efficace messo in campo da Nevo per catturare l’attenzione del lettore che, inevitabilmente, finisce per divenire lui stesso privilegiato officiante di un rito simile ad un’intima confessione. Per quanto l’azione si svolga in un rapido presente, il passato si affaccia alla soglia della coscienza per condizionare scelte ed azioni e diviene ulteriore conferma della riemersione del rimosso e del conseguente parziale fallimento di fragili meccanismi di difesa. Basta l’ingresso nella cittadella fortificata dell’Io di un qualsiasi cavallo di Troia – il breve “rapimento” della piccola Ofri, figlia di Arnon, l’arrivo del cognato di Hani, ricercato dalla polizia che chiede temporanea ospitalità, l’incontro occasionale con giovani manifestanti che scardinano le certezze borghesi di Dvora – per ridiscutere codici comportamentali e valori, per imprimere direzioni alternative a monotone consuetudini, per respirare aria pura quando sembra vicina l’asfissia del quotidiano.

Marc Chagall_Russian village

E’ lecito intuire l’epilogo delle prime due storie, Nevo dissemina qualche indizio cui aggrappare le possibili ipotesi di conclusione, mentre apprendiamo con un certo sollievo nella terza storia che è possibile dare una svolta alla propria vita anche in età avanzata, proprio quando sembra non esistano strade praticabili o opportunità per riparare ai danni inferti a chi si ama incondizionatamente, in questo caso al proprio figlio, specie quando esso diventa un “fardello” dal quale, come qualsiasi altra madre, Dvora non vuole liberarsi.

Non resta che aspettare fiduciosi l’arrivo in sala di Tre piani nella trasposizione cinematografica di Nanni Moretti che questa volta non si cimenta su un suo soggetto originale.

https://www.scriptandbooks.it/2020/05/16/reperti-del-dolore-tre-piani-di-eshkol-nevo-ed-neri-pozza/

“Figlio del lupo” di Romana Petri

La notte turbinosa di Jack London. ‘Figlio del lupo’ di Romana Petri, ed. Mondadori

@ Agata Motta (31-03-2020)

Letteratura. Saggistica breve.

Alaska

Tra le immagini dei cercatori d’oro del Klondike, in compagnia dei tanti sventurati e per lo più illusi avventurieri e del mitico e più fortunato Paperon de’ Paperoni, si può aggiungere a pieno titolo quella del giovane Jack London che tornò da quell’impresa con le pive nel sacco e un filone inesauribile di idee in testa.

Figlio del lupo, ultimo romanzo di Romana Petri edito da Mondadori, racconta la mirabolante vita di uno degli scrittori più prolifici e celebri che si mossero a cavallo di due secoli pregni di eccellente letteratura, ma sarebbe ingeneroso e addirittura fuorviante sostenere che il suo libro si limiti a questo. La Petri consegna un altro testo irrinunciabile per lo scavo profondo nell’intimità e nel percorso umano e letterario di uno scrittore che le è per certi versi affine, per quella massa incandescente di rappresentazioni che attingono a mondi lontani facendone avvertire la presenza attraverso tutti i sensi, come se fossero appena dietro l’angolo, per certe frasi di autentica bellezza che restano impresse nel cuore come se appartenessero al lettore e non a chi le ha concepite.

Le iniziali pagine in corsivo, che si distendono con brevi intervalli irregolari per una buona metà del testo, bloccano il protagonista, ospite di un caro amico, nel momento dello snodo che lo ha consacrato al successo e della rottura – sotto certi aspetti vile – con la prima moglie Bessie che gli ha dato due figlie femmine. Sarà una notte di turbinosi ricordi avviata dalla rievocazione delle cascate del Niagara, luogo di perfetta identificazione e metafora possente di una vena inarrestabile di pensiero e di azione che indicherà la rotta ad un marinaio/scrittore sedotto da mille altre vocazioni, tutte seguite con ieratica solennità e, spesso, concluse in catastrofiche sconfitte.

Jack London

London appare inizialmente come lo scrittore in grado di “trasformare buona parte del piombo che aveva nella testa in oro scintillante”, l’artista che voleva consegnare ai posteri “una letteratura con poco profumo ma molto odore di vita”, guardando a Kipling come alla stella cometa. Poco alla volta, si trasformerà in uno scrittore compulsivo alla perenne ricerca di nuovi traguardi, in una macchina per produrre denaro, quel denaro essenziale all’edificazione dei suoi straordinari progetti: una nave con la quale effettuare il giro del mondo in sette anni, una casa/castello, la Tana del Lupo, sulla più bella e progredita tenuta della California nella quale realizzare la propria utopia socialista. Denaro che entra a palate e fuoriesce a fiumi, perché la generosità (spesso ottusa e fuori misura) è la virtù o il vizio che lo accompagna sin da bambino, quando consegnava alla madre Flora – una spiritista in perpetuo colloquio con i defunti baciata in fronte da idee disastrose – tutto il guadagno raggranellato nei lavori più faticosi e disparati.

La consueta prosa della Petri, tersa, distesa, ricercata sotto il profilo lessicale, è percorsa dal fremito delle agili capriole di un periodare fluido e corposo che si insinua nell’intreccio, continuamente franto da analessi e prolessi che rendono il tempo ondivago e sovrapponibile, per sorreggerlo, restituendo stabilità a pagine che inseguono la velocità del pensiero.

La staticità non appartiene allo scrittore protagonista, votato ad un vorace assalto alla vita e a tutte le sue manifestazioni, quindi non possono esserci ristagni ed esitazioni nel processo affabulatorio di un’autrice che si immedesima nei personaggi fino a farsene possedere completamente, fino a coincidere con essi. E il meccanismo giunge alla perfezione quando la Petri incontra i bisogni, le pulsioni, i desideri, le angosce, i sogni di London, perché sono entrambi scrittori di sulfurea materia, ciò che scrivono sembra appena eruttato da vulcani impetuosi e possiede proprietà taumaturgiche ambivalenti: curano l’autore, che si libera di porzioni dilaganti di creatività – spesso somigliante ad un malessere che incide senza misericordia l’animo di chi la possiede – e curano il lettore, che attraverso quella stessa creatività – potenziale confronto o brusco scossone – si nutre e si fortifica. Non è un caso se l’aggettivo “sulfureo” torna spesso per definire lo stato d’animo e la prosa di London, non può che apparire tale chi ha consumato la propria breve vita a tappe forzate, incendiandola di fallimentari furori, dissipandola in eccessi autodistruttivi e accecandola con il bagliore di sogni grandiosi che la sorte – madre affettuosa, esigente e ingrata come quella biologica – non gli consentì di realizzare, neanche nelle richieste più umili, come la nascita di un figlio maschio destinato ad accompagnarlo in impetuose cavalcate solo nella fertile immaginazione. Una beffa del destino per chi di padri ne ebbe due – quello che lo rinnegò ancor prima di nascere e quello che lo amò pacatamente dandogli il proprio cognome – e avrebbe fatto qualunque cosa per dimostrare di poter essere lui stesso un buon padre. E per farlo in maniera piena e completa era necessario che venisse al mondo un altro piccolo Jack, una prosecuzione di se stesso, un duplicato o comunque un essere della sua stessa carne e del suo stesso sangue cui lasciare in dotazione il proprio sapere, le proprie scoperte, il proprio animo assetato di infinito. Un desiderio tanto disperato da portarlo infine a concepire l’adozione di tutti i bambini che sarebbero cresciuti nella sua tenuta, in un continuo ed inesauribile ricambio.

Se non si conosce la biografia di London, la scoperta che morì a quarant’anni folgora come un’assurdità inaudita. Possibile? Tutta quella vita e tutti quegli scritti in soli quarant’anni? Tante vite in una soltanto, in un procedimento in fondo simile a quello messo in atto dalla seconda moglie Charmian che invece, per amore, riusciva ad essere tante donne in una, fino alla metamorfosi finale, suggeritagli dall’uomo venerato ormai in vistoso stato di degrado fisico, nella saggia donna “che lascia libero il marito di rovinarsi con le sue mani”.

Non si dubita del fatto che la Petri abbia attinto a fonti primarie per la ricostruzione puntuale di una vita sulla quale è stato possibile sbizzarrirsi per avallare l’ipotesi dello scrittore tutto genio e sregolatezza, alcolizzato, scialacquatore e probabile suicida, o quella dell’uomo complesso, sofferente e roso dalle tante contraddizioni, ma non è stata l’etichetta da apporre sul personaggio ciò che l’autrice ha cercato nel suo lavoro. Scovare corrispondenze, menzogne letterarie o verità assolute è del tutto irrilevante, perché la Petri racconta l’avvincente storia di un uomo e della lotta per l’affermazione delle sue idee e dei suoi sogni, di un uomo sentimentalmente combattuto tra un’idea d’amore romantica (la fragile e borghesissima Mabel) o astratta (la sofisticata, bellissima e troppo intellettuale Anna) e una concezione del matrimonio basata sulla “ragionevolezza” e la concretezza, il matrimonio visto come barra equilibratrice per le tante derive dello spirito.

Romana Petri

Muse, compagne, amiche, amanti, le donne furono sempre e comunque fonte di confronto e di ispirazione, motivo di lancinanti dolori e magiche ebbrezze, prime tra tutte la bizzarra madre e la materna sorella e poi la poesia struggente delle donne mai realmente avute e la prosa rassicurante delle mogli mai profondamente amate.

E allora Jack London potrebbe essere qualsiasi altro uomo e il suo fascino resterebbe intatto, perché Figlio del lupo scavalca il genere biografico per consegnarsi come romanzo puro, con un procedimento simile a quello adottato ne Le serenate del ciclone, in cui la storia del proprio padre, il cantante lirico e attore Mario Petri, è appunto la storia di un uomo e delle sue fragili e precarie conquiste, dei suoi affetti, della sua vitalità prorompente, delle sue disillusioni.

Di Jack London, l’uomo con il vento in testa e il fuoco nelle vene, le immagini che non si sradicheranno dalla memoria sono quelle che lo ritraggono con le prime crepe addosso, con quell’amarezza profonda per i pochi “atti mancati” non compensati dalla miriade di atti compiuti, con quell’insopprimibile tensione di morte già presente negli anni in cui la brama di vita lo divorava interiormente.

Eppure, nonostante tutto l’amore che Jack metteva nelle cose, le cose gli si spegnevano tra le braccia.

Le fiamme che lambiscono pian piano la Tana del Lupo sino a devastarla sono il sipario calato anzitempo su una vita troppo breve nell’ottica della normali aspettative ma infinita se calcolata con il tempo effimero del passaggio delle stelle cadenti.

Romana Petri

Figlio del lupo

Mondadori

pagg. 375

€ 19.50

https://www.scriptandbooks.it/2020/05/16/la-notte-turbinosa-di-jack-london-figlio-del-lupo-di-romana-petri-ed-mondadori/

anche su Artcicolo21

https://www.articolo21.org/2020/04/la-notte-turbinosa-di-jack-london-figlio-del-lupo-di-romana-petri-ed-mondadori/

“Viva la vida”spettacolo su Frida Kahlo

L’anima prigioniera di Frida. ‘Viva la vida’, con Pamela Villoresi, al Teatro Biondo di Palermo

@ Agata Motta (08-03-2020)

Teatro. Saggistica breve.

Palermo – In questi giorni di confuso smarrimento, di attesa, di rabbia, di impotenza, il Teatro Biondo ha aperto per tre pomeriggi (dal 6 all’8 marzo) il proprio sipario virtuale in sala Strehler proponendo Viva la vida, spettacolo su Frida Kahlo liberamente tratto dall’intenso monologo di Pino Cacucci, che ha definito la pittrice come colei che meglio ha saputo dipingere l’anima profonda e ancestrale del Messico.

Diretto con precisione e grande sensibilità da Gigi De Luca, che ne ha curato anche il progetto e il fedele adattamento, il lavoro, prodotto dal Biondo, riesce a fondere gli ossimori stridenti che hanno caratterizzato l’esistenza di una donna fuori dal comune, innamorata della vita nonostante la presenza di un dolore necessario e perenne.

Inizialmente la voce galleggia nel buio a narrare le proprie origini – quasi una sorta di predestinazione alla complessità – poi la luce incontra e svela il corpo di Frida, ovvero il corpo di una magnifica Pamela Villoresi che indossa immediatamente il personaggio per impossessarsi del suo dolore, della sua voracità e della sua carne.

L’arbusto rampicante trafitto da fiori rossi che si abbarbica sulla poltrona/letto che accoglie il corpo tormentato della donna è il primo timido segnale di una natura che ha prodotto aridità e passioni, ma è anche il simbolo dell’importanza attribuita a radici culturali mai rinnegate e sempre coltivate.

Poi la trama compatta e preziosa della drammaturgia e il sicuro incedere verbale della protagonista accendono l’incanto di uno spettacolo vertiginoso e coinvolgente, in cui la scelta registica di inserire il canto risulta vincente, il canto come compagno/antagonista, perché tutto in questa esistenza martoriata è lotta, contrasto, coesistenza di opposti e bisogno di mescolarne i succhi per trarne nutrimento. Ecco che la struggente voce di Lavinia Mancusi diviene anch’essa corpo vivente, quello di Chavela Vargas, altra mitica figura messicana che accompagnerà Frida nell’ultima parte del suo percorso umano e artistico: “Le due donne si incontrano per caso e si riconoscono”, la bambina malata e la gatta randagia, nella bella definizione della scrittrice Silvana La Spina. Alla parola allora saranno affidati il dolore rabbioso, il ruggito, la stanchezza, l’amore, l’arte; al canto il soffio vitale, anche quando è velato di malinconia, anche quando traveste la sofferenza con i panni colorati dell’allegria.

La Villoresi conduce magistralmente il gioco spietato degli ultimi giorni – quelli del riepilogo, della sintesi, del bilancio, dell’immersione memoriale e della trasfigurazione nel sogno – con azioni minime ma con tutte le modulazioni vocali necessarie a restituire la multiforme esperienza di un’anima inquieta prigioniera di un corpo malato: la scoperta della pittura e delle sue capacità catartiche, l’impegno politico condiviso con il marito due volte sposato, Diego Rivera, muralista illustre e adultero impenitente, amore fatto di tormento e sollievo, amore indispensabile come l’aria, lo strazio degli aborti ripetuti e l’impossibile maternità per un ventre profanato da un’asta metallica nel terribile incidente che, a soli diciotto anni, devastò il fragile corpo già segnato dalla malattia marchiandolo con l’infamia di continui interventi e onnipresenti dolori, il sollievo tratto dall’alcol e dalla morfina, l’interesse per il suo popolo e le sue tradizioni cui si sente legata a doppio filo, l’attrazione per le donne e la complicità tutta femminile che rende unici certi legami, il desiderio sorprendente suscitato in altri uomini e talvolta ricambiato, l’ostinazione alla vita nonostante tutto, l’abitudine alla sofferenza e alle insospettabili risorse che da essa possono scaturire.

Elementi dedotti dalla biografia e dalla pittura si offrono come fertili sollecitazioni per le scelte registiche che agiscono in sinergia con quelle più propriamente tecniche.

Frida Kahlo, La colonna spezzata

Nell’impianto scenografico Maria Teresa D’Alessio accoglie, reinventa e restituisce con grande scrupolo e precisione questi elementi, per cui il grande specchio, che nel lunghissimo periodo dell’immobilità aveva consentito alla donna di ritrarsi o di decorare i busti indossati come una seconda pelle, diviene occasione per una recitazione non convenzionale, con l’attrice seduta di spalle ma perfettamente visibile al pubblico sullo specchio; il celebre dipinto La colonna spezzata detta il tema pittorico che la body painter Veronica Bottigliero riproduce sul corpo nudo dell’attrice – bende bianche che lasciano scoperto il seno – con il valore aggiunto di sapore metaforico delle cicatrici deturpanti che si trasformano in quegli intrichi di foglie e natura lussureggiante tanto cari all’artista. E ancora Le due Frida e Autoritratto come Tehuana guidano le mani esperte di Roberta Di Capua e Rosario Martone nel confezionamento del corpetto ricamato e del manto/copricapo che l’attrice indosserà dopo aver scrollato l’immobilità dal corpo nudo per lasciarsi sedurre da altre movenze e altri stati d’animo.

Anche le luci di Nino Annaloro giocano un ruolo importante nella messa in scena perché occultano e svelano, seguendo il ritmo della narrazione, o aprono squarci onirici, come nella scena bellissima in cui Frida, sulla scia di un fascio di luce che sembra una strada da percorrere con il pensiero, rievoca un’abitudine contratta sin da bambina, quella di disegnare una porta sul vetro appannato e da lì intrecciare dialoghi con un’amica immaginaria eppur presente nelle lunghe giornate di immobilità e solitudine. “A che servono le gambe quando si hanno ali per volare?” I sogni, quelli tossici e maledetti che anticipano la morte o quelli salvifici e forieri di refrigerio, restano l’unico senso da attribuire alla vita, l’unica via di fuga quando tutto ciò che si ha intorno diventa insostenibile.

La pioggia battente che ha battezzato la nascita Frida e la sua crescita, la pioggia sottile che si è fusa tante volte alle sue lacrime, la pioggia violenta che ha flagellato la sua anima in pena, la pioggia tante volte evocata nella narrazione si placa infine in un gocciolare assorto e continuo, lento come la Pelona – la Morte – che finalmente si fa strada a viso scoperto per porre fine al suo capolavoro: averla risparmiata tante volte affinché la vita tanto amata potesse assassinarla lentamente.

Frida Kahlo, Viva la vida

Sulla polpa rossa e succosa delle angurie raffigurate in una natura morta l’artista scriverà poco prima di morire “Viva la vida”, un manifesto artistico, una dichiarazione d’amore, un epitaffio, uno sberleffo al destino idiota.

Appare superfluo sottolineare che uno spettacolo visto su streaming viene mortificato in quella che è la vera essenza del teatro – la percezione con tutto il corpo delle vibrazioni provenienti dal palcoscenico – purché sia chiara “l’eccezionalità” della proposta che in alcun modo deve far sorgere tentazioni future in questa direzione. Il cambio epocale prodotto dalle pay tv nell’universo cinematografico, che ha portato molti illustri studiosi a preconizzare la morte imminente del film fruito in sala, dovrebbe portare ad innalzare barriere protettive verso qualsiasi fenomeno di “disumanizzazione” dell’evento artistico o di desertificazione dei luoghi d’incontro, pena una forma di onanismo culturale dall’orrido aspetto.

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L’Hotel degli amori smarriti” di C. Honoré

Le avventure oniriche di Maria. ‘L’hotel degli amori smarriti’, con Chiara Mastroianni

@ Agata Motta (03-03-2020)

Uno spunto non proprio originale ma promettente – un marito scopre per caso il tradimento della moglie – una strizzatina d’occhio a maestri del cinema vicini e lontani, molti dei quali ringraziati nei titoli di coda, una regia disinvolta e a tratti sofisticata, una sceneggiatura che spazia dal leggero ma non troppo al profondo con moderazione, un cast affiatato di sicuro gradimento ed ecco pronta una commedia che, pur avendo fatto parlare molto di sé, non appare esaltante né pienamente convincente.

Mettere assieme tutti questi elementi per ricavarne un prodotto accattivante è l’operazione condotta dal poliedrico ed eclettico Christophe Honoré in L’hotel degli amori smarriti (titolo originale Chambre 212), film da lui scritto e diretto e interpretato da Chiara Mastroianni (che ha ottenuto il premio per la migliore interpretazione nella sezione Un certain regard dell’ultimo Festival di Cannes e la nomination come miglior attrice al Cesar 2020) affiancata dal giovane Vincent Lacoste e dall’ex marito musicista Benjamin Biolay – rispettivamente nei ruoli del marito Richard da giovane e da adulto – da Camille Cottin, che incarna l’insegnante di musica nonché passione giovanile di Richard, e dal tarchiato e gioviale Stéphane Roger, che ha l’ingrato compito di rappresentare la coscienza sopita dell’affascinante fedifraga non particolarmente incline ai sensi di colpa.

Motori dell’azione sono dunque la scoperta di un tradimento, l’ultimo di una lunga serie per essere più precisi, e la decisione di Maria, questo il nome della serena e consapevole adultera, di allontanarsi dal proprio appartamento per osservare il marito, o meglio le tracce del proprio matrimonio, dalla finestra di fronte, quella di un hotel nel quale pernotterà per far chiarezza nella propria vita e, assai generosamente, in quella del marito, per il quale elabora un fantasioso ritorno compensativo ad un romantico passato. La chambre 212 diverrà allora un luogo sovraffollato di incontri tra il presente e il passato che si materializza sotto il suo sguardo per nulla sorpreso e su quel letto – tanto diverso e lontano dal talamo coniugale – il sesso tornerà ad essere stuzzicante perché consumato con il corpo ancora giovane del marito.

L’impianto teatrale è gradevolmente evaso dalle frequenti panoramiche aeree sulla strada, che accoglie la casa dei coniugi e, di rimpetto, l’hotel/rifugio dalla vivace insegna rossa, e sugli interni scoperchiati come nelle case delle bambole di infantile memoria in cui oggetti e personaggi sono manovrati da piccole mani che agiscono con demiurgica sapienza e determinazione. Naturalmente la scelta di inserire queste inquadrature spiazzanti e di sicuro impatto visivo ed emotivo non è puramente estetica ma risponde ad una logica narrativa. Maria è essa stessa bambola manovrata dalle tante presenze evocate che affollano il suo letto e i suoi pensieri, ma è anche la bambina intenta al gioco combinatorio che si consuma in una notte tutta da vivere, in cui non può esserci spazio per il sonno ristoratore che porta consiglio. C’è invece posto per l’affollarsi di ricordi reali, di ipotesi plausibili ma irrealizzate, di barlumi di coscienza intermittenti e bizzarri e di intercambiabili compagni d’avventura che hanno colorato di giovinezza e passione l’opacità di una relazione che nel tempo si è trasformata fino a divenire qualcosa di completamente diverso.

Eccoci, quindi, al nucleo centrale e più denso di questo racconto che gioca con il piano onirico per affondare con finta leggerezza nelle pieghe più intime del rapporto coniugale: qual è il momento preciso in cui una coppia rodata e apparentemente solida e affiatata comincia ad allontanarsi per percorrere strade parallele che non riescono più a convergere? Qual è il punto in cui, una volta scoperto e conosciuto tutto del partner, si comincia a pensare di avere accanto a sé un estraneo con il quale condividere l’appartamento? Qual è la stagione fisica e mentale in cui il desiderio deve necessariamente esplorare altri corpi per confermare a se stessi di essere ancora sessualmente attivi e appetibili? Il tempo è il principale responsabile dello sfaldarsi silenzioso, freddo e impalpabile dell’amore, questo è evidente, il tempo che trasforma il corpo bello e invitante della giovinezza lasciandovi sopra segni che agli occhi del partner devono apparire come graffi malvagi e traditori, il tempo che mette di fronte ad un vissuto che ha imboccato traiettorie senza possibilità di mutamenti, il tempo che porge bilanci non corrispondenti alle aspettative.

Maria ha reagito con una vitalità incontenibile, Richard si è adagiato in un quotidiano spento ma rassicurante al quale pensa di poter ancora dare il nome di amore. Eppure è proprio lui quello che ha fatto le rinunce più grosse – come quella della paternità – ma riacciuffare il bandolo della matassa abbandonato in gioventù è possibile solo nelle fantasie e il mescolare le carte del “se avessi…” per distribuirle in assetti nuovi è il trucco di un mazziere baro e beffardo.

Gli amori smarriti resteranno tali, gli amori usurati forse resisteranno se si riescono ad accettare i cambiamenti e le sconfitte, se si riesce a considerare che le ferite non portano sempre alla morte.

Gli spunti insomma sono tanti, ma appaiono diluiti e talvolta quasi soffocati in un plot totalmente divorato dalla dimensione onirica e non bastano piccole invenzioni (come la personificazione della volontà/coscienza in fattezze vagamente simili al mitico Aznavour), ritmi serrati e dialoghi indugianti in un sottile umorismo a rendere brillante la sceneggiatura. Il regista ha perso per strada qualcosa, era animato da buoni propositi che gli sono scivolati dalle mani in corso d’opera e si stenta a comprendere se alla fine abbia voluto porgere una matura riflessione sull’argomento o semplicemente omaggiare la propria attrice/musa confezionandole un film su misura.

Se volessimo isolare un momento di vera poesia la scelta cadrebbe sulle scene che conducono al finale, in cui la girandola di volti e personaggi del passato e del presente si mescolano e finalmente vibrano di autenticità sulle splendide note di Could It Be Magic di Barry Manilow.

In sostanza l’unica a restare fedele a se stessa in questo andirivieni di fantasiose apparizioni e nostalgici ritorni è Maria. La ritroveremo identica nella scena iniziale e in quella conclusiva che la propongono in strada mentre inforca, sfrontata e seducente, la propria vita come se fosse una bicicletta. In fondo basta pedalare e andare avanti senza voltarsi. Il fermo immagine che le blocca sul volto un abbozzo di sorriso ci dà la matematica certezza che le sue abitudini non cambieranno di una virgola.

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Una terzina in attesa del countdown

Una terzina in attesa del countdown. Ulisse, la virtù, la conoscenza, il limite

@ Agata Motta (25-02-2020)

Manca ancora un anno, ma già si pianificano progetti e iniziative di diverso genere per arricchire la catena di eventi legati al settecentenario della morte di Dante, tra cui la bizzarra proposta dell’istituzione di un “Dantedì” o “Dante day” da dedicare al genio fustigatore di papi, sovrani, concittadini, città e nazioni.

Che i classici siano tali perché continuano a parlare al cuore e alla mente dei contemporanei non è una verità sulla quale sia necessario imbastire dibattiti o effettuare puntualizzazioni, così come non dovrebbe suscitare meraviglia che dei classici ci si possa innamorare perdutamente e vergognosamente fino al punto di rileggerli con bulimica voracità e con la certezza di trovarvi risposte soddisfacenti e fresche come pane appena sfornato.

Dante è un classico il cui consumo può produrre assuefazione e seri effetti collaterali. Tra questi, molto comuni, specie mentre si consuma un peccato di qualsiasi foggia e natura, il pensiero ossessivo della pena da scontare in aeternum, mentre, più rare ma devastanti, possono verificarsi allucinazioni che portano il lettore ad immaginare il Sommo Poeta vivo e operante accanto a sé, magari assiso nel salotto di casa propria o alla poco parca mensa quotidiana, arcigno e nasuto, sprezzante e altero, magro e coronato d’alloro come in una delle tante raffigurazioni ottocentesche del Dorè, ospite assai scomodo e ingombrante, pronto a sentenziare e ad indicare, come farebbe Minòs orribilmente attorcigliando la coda intorno al corpo, in quale girone collocarci per le nostre sciagurate inclinazioni; mai che si materializzi su una cornice purgatoriale, accanto all’angelo biancovestito intento a cancellare la P di peccato dalla nostra fronte con l’aluccia compassionevole, o immerso nel rapimento estatico dei cieli paradisiaci ad indicarci, con un sorriso dolce come una promessa, il luogo di delizie che potrebbe appartenerci! Nelle inquiete apparizioni da sovradosaggio, il Nostro passeggia severo e cupo, ruminando atroci contrappassi, giudice inflessibile dei nostri vizi, ma pur sempre gigantesco e “divino” come la sua Commedia, definita tale da Giovanni Boccaccio, uno dei primi entusiasti commentatori.

Dante non fu solo Divina Commedia, questo è ovvio, ma non si può negare che ad essa principalmente ci si accosta con perdurante passione e devozione, forse perché con naturalezza si è imposta come il “testo sacro” degli italiani, non solo per l’avvio del processo che portò all’unità linguistica e per aver effettuato una sintesi perfetta di tutto il sapere del suo tempo, ma anche per la costruzione di un’identità comune fatta di versi mandati a memoria da generazioni sempre nuove di studenti, di immagini e personaggi scolpiti a tutto tondo nella memoria collettiva, di un patrimonio condiviso di bellezza che coincide con l’espressione massima della poesia e con l’altezza di una voce che ha saputo plasmare sintassi e lessico come creta per adattarli all’immensità delle proprie esigenze espressive.

Isolare soltanto alcuni versi non è impresa facile, perché sono davvero tanti quelli che possono offrirsi oggi con l’identica freschezza e solennità di un tempo, tanti quelli che invitano a percorsi sempre aperti, fecondi di input filosofici, politici e morali e linguisticamente preziosi, ma l’operazione va fatta per non rischiare di perdere la bussola in un viaggio impervio che egli potè compiere guidato dalla Ragione e soprattutto sorretto dalla Grazia divina, elementi non facilmente reperibili per chiunque si accinga adesso a comprare un biglietto per quella stessa meta: le “stelle”, bellissima, raggiante parola che chiude le tre cantiche consegnandole alla luce e al suo allegorico significato.

Amos Nattini, Inferno, Canto XXVI

Come lucciole che volteggiano al tramonto appaiono le anime dei consiglieri di frodi che risplendono sul fondo dell’ottava bolgia nascoste da lingue di fuoco. Siamo nel XXVI canto, il grosso del percorso infernale è già compiuto, manca poco per giungere a Lucifero, l’angelo ribelle conficcato nel centro della terra. Da solerte maestro Virgilio soccorre l’avida curiosità di Dante, ma l’allievo ha già compreso che il fuoco avvolge i peccatori e desidera invece arrivare subito al cuore del suo dubbio: chi avanza in quella fiamma divisa in due nell’estremità superiore? Sono Ulisse e Diomede che affrontano insieme il castigo divino così come insieme peccarono, spiega Virgilio, ed elenca con mirabile sintesi alcuni degli inganni più noti alla tradizione letteraria. A questo punto, immaginatelo pure il Dante personaggio che freme e desidera con tutto se stesso conoscere la verità sulla fine dell’eroe greco, ma immaginate anche il Dante autore con un sorrisetto sornione da primo della classe, pronto a risolvere una questione assai dibattuta nel Medioevo, periodo in cui la conoscenza dei testi omerici, scritti in greco, non era diretta e giungeva mediata da autorevoli scrittori latini. Dante dell’eroe conosceva le caratteristiche che erano state esaltate ed immortalate nel corso dei secoli, l’astuzia e la sete di conoscenza, quelle che avevano edificato la fama di un personaggio verso il quale il Nostro provava un’ammirazione smisurata e nel quale coglieva alcuni tratti dominanti della propria personalità, senza che questo gli impedisse di stigmatizzare la componente marcia dell’astuzia, cioè il ricorso all’inganno. Naturalmente non è la prima volta che in Dante coesistono sentimenti in aperto contrasto verso i dannati, molto spesso la condanna morale non esclude la comprensione, la pietà, l’ammirazione, la commozione; gli episodi legati alle indimenticabili figure di Paolo e Francesca o di Pier della Vigna ne sono solo gli esempi più eclatanti e noti.

Ma torniamo alla questione della fine di Ulisse. Dante propone una soluzione originale e non supportata dalla tradizione, ma del tutto coerente con l’altissimo profilo del personaggio: dopo tanto viaggiare, giunto alle colonne d’Ercole, invalicabile confine oltre il quale si affronterebbe l’ignoto, Ulisse esorta i pochi compagni di viaggio rimasti con lui a proseguire per conoscere anche il mondo sanza gente. Andranno incontro alla morte attraverso il folle volo, ma da questa orazion picciola sgorga il miracolo di una terzina che ha sfidato i secoli e che continua a costituire essa stessa una sfida per i suoi lettori:

Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e canoscenza.

Eccoli i nostri versi perfetti, li conosciamo tutti, almeno una volta nella vita ne abbiamo considerato distrattamente il messaggio o li abbiamo pronunciati come un mantra per cogliere e assaporare fino in fondo l’universo concettuale racchiuso in una semplice terzina.

Come parlano all’uomo contemporaneo questi versi? Che significato si attribuisce oggi alla virtù e alla conoscenza? Sono ancora i tratti distintivi dell’essere umano? E l’uomo che uso ne fa? Possono essere collocati nella sfera sempre più mutevole e relativa dei valori universalmente riconosciuti e accettati come tali?

Per il Nostro il bisogno di conoscenza è insopprimibile, ad esso vota la propria esistenza – anche quando lo porta consapevolmente nella selva oscura, anche quando lo seduce fino a condurlo alle soglie della superbia – nella sua piena soddisfazione pone l’espletarsi della beatitudine.

Ecco perché il suo Ulisse, nella piccola nave travolta da un turbine e poi inabissata, non appare sconfitto; è rassegnato ad un volere superiore e consapevole della propria audacia, ma non vinto nel nobile impulso che lo ha posto al di sopra dei bruti. Dante umanamente lo comprende e lo sente a sé affine, ma sa di non dover temere il naufragio perché conosce il limite, sa che ogni passo avanti nella conquista del sapere può essere effettuato esclusivamente tramite il soccorso della grazia e ad essa si affida.

Questo, dunque, l’altro intrigante elemento di riflessione: la questione del limite. L’impulso tutto umano di conoscenza che si trasforma in implacabile arsura, in sogno faustiano e in acrobazie volte a spostare sempre più in là il confine della scienza con l’inevitabile prezzo da pagare necessita di limiti? E chi e in nome di cosa potrebbe imporli? Uno scienziato in base al calcolo preciso dei pro e dei contro di ogni manovra che possa incidere sulla natura? Un filosofo che forgi l’etica su nuovi basi dettate da nuovi bisogni? Un legislatore che alla luce dei cambiamenti in atto codifichi nuovi comportamenti legittimi e allenti le maglie su condotte discutibili? Un religioso che accolga tra le braccia l’essere umano in quanto tale con il suo carico di imperfezione e fallibilità?

La questione naturalmente è aperta e, sebbene ci si ritrovi sempre meno baciati dalle luminose certezze dantesche, è impossibile non avvertirne il fascino. Un limite può dunque farsi certezza di equilibrio? Un limite può contenere l’inquietudine e restituirla sotto forma di energia?

Snow Storm, William Turner

Ma è sul significato di virtù che bisognerebbe interrogarsi con maggiore volontà interpretativa; è questo forse oggi l’aspetto più seducente e meno dibattuto dei versi danteschi. Cosa significasse per Dante “seguire virtute” non lascia adito ad alcun dubbio: il suo concetto di virtù è quello mediato dalla teologia cristiana che additava principalmente la via del bene con la conseguente fuga dal male, il vivere rettamente in ogni ambito e settore seguendo le virtù morali e intellettuali; Dante si spende molto sul proprio personale modo di vivere e di sentire la virtù, ma la prioritaria finalità della Commedia è quella di indicare la via a tutti gli uomini di buona volontà affinché possano salvarsi e realizzare la felicità terrena e quella celeste. Ciò che nel De Monarchia era stato teoria nella Commedia diviene pratica.

Cos’è attualmente la virtù? Quell’insieme di imperativi morali innati nell’uomo, dei quali il mondo classico si è fatto lucido interprete, che hanno attraversato il Cristianesimo e poi le grandi rivoluzioni del pensiero, della politica, della tecnologia, per giungere intatti all’epoca del relativismo, del solipsismo e delle relazioni liquide? Un codice comportamentale intimo e personale e quindi non condivisibile a livello sociale? Chi si riallaccia al passato è un moralista o uno che continua a guardare all’essenziale che non soffre le offese del tempo? Sono cambiati gli occhi che guardano o le cose da guardare? Il ripiegamento intimistico di tanti individui è frutto di una rinuncia? E’ un compromesso valido chiudersi al mondo esterno per negarsi poi ogni pudore e riservatezza sulla grande piazza virtuale? Avere le idee chiare su ciò che si vuole e tentare di ottenerlo a ogni costo può costituire un modello esemplare?

Naturalmente è un gioco che non prevede risposte giuste o sbagliate.

Conoscere prima le regole e sapere come collocarsi sulla scacchiera della vita rende le finalità della partita semplici e chiare, tentare di costruirle man mano è senz’altro più eccitante ma disorientamento e sradicamento stanno in agguato dietro l’angolo. A tanti sta bene così, Dante di certo avrebbe avuto qualcosa da ridire.

E allora? L”importante è continuare a considerare la nostra semenza e a ricordare che fatti non fummo a viver come bruti… Ecco su questo ci sarebbero altre considerazioni da fare, ma lasciamo perdere…

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“Come un delfino”di Gianluca Pirozzi

La fugace conquista della felicità. ‘Come un delfino’ di Gianluca Pirozzi, Giulio Perrone Editore

Saggistica breve. Letteratura

@ Agata Motta (07-01-2020)

Capita spesso di incrociare vite attraversate in apnea, alla perenne ricerca di uno spiraglio di ossigeno che possa restituire senso e compiutezza a dolori pervasivi e tenaci, che possa compiere il momentaneo miracolo di piccole felicità raggiunte, di attimi in cui l’insopprimibile bisogno di sentirsi amati possa considerarsi colmato. In Come un delfino, romanzo edito lo scorso novembre da L’Erudita di Giulio Perrone, lo scrittore Gianluca Pirozzi, che ha già pubblicato diverse raccolte di racconti e un romanzo, accompagna il suo protagonista Vanni in un percorso che prende le mosse dall’infanzia napoletana per poi portarlo alla piena maturità lontano dai luoghi natali, impregnati di traumi irrisolti e relazioni familiari conflittuali, nel tentativo (riuscito) di raggiungere la piena consapevolezza delle sue esigenze e il riconoscimento dei suoi bisogni.

Quella di Vanni potrebbe essere una famiglia normalmente felice: padre, madre, fratelli, nonna, ma si avverte subito che qualcosa non funziona per il verso giusto, che un’atmosfera tossica guasta cose e persone, che prima l’infanzia e poi l’adolescenza devono elaborare fantasmi inquieti nonostante l’affettuosa complicità che lega Vanni al fratello più piccolo Maso e l’amore evidente che madre e nonna riversano su di loro. Anche il padre, forse a suo modo, ama i figli, ma è segnato dal marchio dell’arte, è affetto dal gigantismo della propria personalità, dal narcisismo distruttivo che spesso accompagna l’artista che si ritrova invischiato in un quotidiano ostile e avvilente, dalla frustrazione per una carriera che avrebbe potuto essere meravigliosa e in continua ascesa senza il peso della famiglia e dei doveri ad essa connessi.

Music Zoran, Autoritratto, 1988

Per quanto negativo e talvolta meschino possa apparire nell’insieme, questo padre, che sa diradare il senso di colpa di Vanni per la morte del fratellino e che si eclissa quando le scelte di vita (prima fra tutte l’omosessualità) dell’ormai unico figlio maschio diventano chiare e non equivocabili, è una delle figure più riuscite, i suoi accessi d’ira non gli alienano l’empatia del lettore, non lo confinano nella tipizzazione che spesso nuoce a personaggi così monolitici. Tutta la prima parte del romanzo è dominata proprio dal personaggio rappresentato più di sguincio, le sue mani possenti che danno vita alle sculture sono capaci di plasmare esistenze e di seminare macerie esistenziali, sono le mani che Vanni ricorderà da adulto con un pizzico di invidia, mani che non lo hanno saputo sorreggere o accarezzare nei momenti in cui i dubbi e i turbamenti lo avevano fatto vacillare. Quelle mani operose e taumaturgiche appartengono invece a nonna Iole, donna colta e saggia che sa rifugiarsi nell’ombra durante le ire paterne e sa rinascere come l’araba fenice non appena il terremoto ha finito di scuotere le fondamenta domestiche. E appartengono alla madre, mite e apparentemente remissiva, traduttrice immersa in interminabili letture, anche lei un po’ artista ma schiacciata dalle più roboanti e rabbiose aspirazioni del marito. Eccolo qui, dunque, il destino dei figli dei giganti, tutta una vita a lottare per conquistarsi uno spazio vitale in cui godere di luce propria, tutta una vita a capire chi si è e cosa si voglia diventare. Vanni preferisce la fuga, andar via dal padre e lasciarsi alle spalle le tracce odorose della madre e della sorellina, nata poco prima che il lutto si abbattesse sulla famiglia, figurina che rimarrà in ombra anche da adulta, appendice quasi insignificante (e quindi non necessaria) del nido familiare dal quale salvare soltanto qualche ricordo. Lo spostamento insomma è vissuto come svolta, il viaggio come ricerca di identità. Una scelta che probabilmente riporta allo stesso autore che ha molto viaggiato e che di queste esperienze ha lasciato visibili impronte nel romanzo in cui ambienti, strade, atmosfere sono descritti con mirabile precisione.

Gustav Klimt, Speranza II, 1907-08

Che sia Roma o Bruxelles o Skopje (ad essa è dedicata un’ampia e discutibile parte diaristica), lo scenario della crescita e dell’emancipazione affettiva e lavorativa di Vanni si propone come luogo di possibili incontri e di ipotetici traguardi, ma non si avverte più la potenza di immagini e di sentimenti che aveva corroborato la prima parte. Vi si gettano però le basi per le scelte definitive, quelle che condizioneranno il futuro tramite l’irrompere di due personaggi decisivi, Tiago, che sarà l’amore vero e stabile nonostante il mestiere di giornalista che li costringerà a continue separazioni, e Amandine, amica di Vanni e Tiago quasi per vocazione istintiva e poi artefice della realizzazione del sogno genitoriale della coppia. Se Tiago vive della propria schietta e sulfurea personalità, Amandine non convince appieno nella sua gravidanza non soltanto proposta ma addirittura sollecitata come soddisfacimento di un proprio bisogno, quello di mettere al mondo una vita per farne poi dono a chi non può farlo. Certo resterà presente nella vita della piccola Tea, sarà la premurosa zia Amandine, ma lo spessore di questa donna altruista che ci tiene a camuffare la sua gratuita generosità risulta artificioso.

L’autore si muove tra romanzo autobiografico e romanzo di formazione (elementi rimarcati dalla narrazione autodiegetica che non si porge come semplice artificio letterario e da una catena di eventi traumatici che segnano snodi e tracciano percorsi di evoluzione) attingendo ad un registro stilistico classico tramite una lingua pulita, distesa e senza asperità in cui le scelte lessicali sono accurate, lontane da azzardi e sperimentazioni che avrebbero soltanto potuto confliggere con l’impianto dell’opera. Eppure sottopelle si avverte l’urgenza di mettere a fuoco le conseguenze dei cambiamenti nel mondo contemporaneo, specie quelli afferenti la trasformazione del nucleo familiare che deve fare i conti con la metamorfosi dell’impianto tradizionale e guardare alle nuove realtà in cui due persone dello stesso sesso realizzano il proprio bisogno di genitorialità scontrandosi con le difficoltà legate ai pregiudizi sociali e alle falle legislative. Giusta e in perfetta sintonia con i tempi dunque l’intuizione che viene innestata nel percorso narrativo, ma persino troppo ottimistica la visione generale, perché le disponibili Amandine in giro per il mondo probabilmente non sono così tante.

Edvard Munch, Morte nella camera della malata, 1893

Nell’ampio romanzo di Pirozzi le sequenze dialogiche occupano una parte cospicua, ma difettano di freschezza e di autenticità, sono lunghe, talvolta esasperanti, troppo spesso letterarie, cavillose, ripetitive. E’ vero che tutti i personaggi del romanzo appartengono a classi sociali che ne determinano l’alto profilo culturale e che quindi credibilmente utilizzano un altrettanto alto registro linguistico, ma dietro l’esposizione puntuale e dettagliata dei propri sentimenti (accettabile soltanto nelle riferite sedute psicoanalitiche), dietro certi dialoghi densi di periodi lunghi e formalmente ineccepibili, si avverte un limite profondo, quello di non affidarsi ad un semplice gesto, ad un singolo sguardo, ad un’asciutta battuta per far parlare ai personaggi la lingua pulsante e calda delle emozioni non dichiarate ma semplicemente suggerite.

L’autore in realtà quest’arte dell’emozionare il lettore la conosce e svettano per la potenza rappresentativa e la suggestione delle immagini le pagine dedicate alla morte, tragicamente incontrata in più occasioni dal protagonista bambino e poi adulto, al suo impatto devastante e alle conseguenze immediate e a lungo termine, all’impossibilità decretata per legge di natura di guardare ancora dentro occhi che hanno saputo guardare dentro i nostri, di ascoltare parole che sono state trascurate per puro istinto di dissipazione. La morte come concretizzazione fisica e psicologica del concetto di assenza, quelle assenze eterne che scavano tunnel da percorrere rannicchiati e a capo chino, perché ogni urto è un’altra menomazione, ogni inciampo una frana rovinosa, ogni spiraglio di luce una boccata d’ossigeno indispensabile per poi tornare in apnea, come un delfino.

L’autore dichiara in copertina di aver trattato “la fugace conquista della felicità”, ed in effetti è proprio così, perché non c’è felicità che non abbia conosciuto il dolore, quello che apporta un danno non risarcibile ma che non nega la possibilità del suo superamento, quello che per contrasto può spalancare le porte alla scoperta della bellezza della vita.

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Gianluca Pirozzi

Come un delfino

L’Erudita, novembre 2019

pp.359; € 25.00

“Studio per contrabbasso”di G. Sangiorgi

Struggimento senza redenzione. ‘Studio per contrabbasso’ di Giuseppe Sangiorgi da Patrick Süskind ai Cantieri alla Zisa di Palermo, prima nazionale

Teatro. Saggistica breve.

@ Agata Motta (13-12-2019)

Palermo – Una bella sfida artistica quella proposta in prima nazionale allo Spazio Franco dei Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo, nell’ambito del progetto Scena Nostra, da Giuseppe Sangiorgi, regista e interprete di Studio per contrabbasso, rilettura del monologo dello scrittore tedesco Patrick Suskind, assurto alla celebrità nella metà degli anni ’80 con il romanzo bestseller Profumo.

Lui e L’Altro si fronteggiano sulla scena. L’artista e l’uomo, distanti ma non troppo, accomunati da rabbia inesplosa e frustrazioni serpeggianti. Lo strumento, grosso, ingombrante, disarmonico nelle forme da vecchia signora, è il mostruoso trait d’union tra le parti sdoppiate di una personalità dolente che fa dell’amara autoironia un mezzo di sopravvivenza, una zattera malsicura sul mare piatto di un’esistenza vissuta all’insegna dello spreco affettivo e del livore per i grandi geni del passato che l’uomo è costretto ad omaggiare con la sua musica.

L’artista è interpretato dal musicista Damiano D’Amico, primo contrabbasso della Foss (Fondazione Orchestra Sinfonica Siciliana), che ha curato la partitura sonora dello spettacolo e che si presta sornione e complice al gioco scenico, l’uomo da Giuseppe Sangiorgi che porge il suo flusso di coscienza ad un interlocutore occulto, in una lucida confessione che scava all’origine del malessere interiore e mette a nudo i meccanismi che lo hanno condotto ad una precoce senilità non confortata dall’amore e dal successo. Tutto ruota intorno allo strumento, vero e proprio perno esistenziale e generatore di una catastrofe morale irreversibile, del quale inizialmente si certifica il ruolo essenziale nell’ambito di un’orchestra per poi svelarne pian piano la natura esigente e l’atrocità del suono, quindi l’argomentata impalcatura teorica che ne dovrebbe accreditare il valore si rivela improponibile sul piano strettamente pratico-musicale. Suonarlo insomma è un atto di forza – le mani martoriate e callose ne sono placide vittime – che ha poco a che fare con la musica, è un ostacolo più che uno strumento, possiede un’aria idiota e uno sguardo accusatorio che compromettono perfino la spontaneità dell’atto sessuale. Così il pubblico non può esimersi dal partecipare emotivamente al disprezzo manifestato dall’uomo, ma contemporaneamente deve ammettere che il gioco musicale proposto dall’artista (sul quale sarebbe piaciuto un maggiore indugio) confuta le parole dettate dall’esasperazione.

La regia di Sangiorgi è pulita, matura e accurata, ricca di risorse inventive nel trasformare gli scarni arredi di scena in rappresentazioni narrative pregne di rimandi simbolici più o meno scoperti. Le tante bottiglie di birra vuote, rovesciate sul palco come onde che lambiscono i pensieri e alimentano le recriminazioni del protagonista, perseguitato da un bisogno compulsivo di reidratazione, si trasformano nell’unica, fida compagnia pronta a spezzare una solitudine affollata di sogni in cui si agitano le illusioni perdute, racchiuse nel guscio protettivo di un piccolo appartamento completamente insonorizzato che isola dal mondo esterno lacerato dal rumore assordante di prodigi edilizi in fieri. Le stesse bottiglie divengono anche figure indifferenti di una gerarchia orchestrale che inevitabilmente rimanda alla rappresentazione della società umana e alla dicotomica partizione tra sconfitti e vincitori di matrice schopenhaueriana filtrata attraverso Svevo e tutto il filone dell’inettitudine mitteleuropea. Il nostro affranto quarantenne però sa di non poter aspirare ad un’ascesa che lo riscatterebbe agli occhi del mondo e della fanciulla vanamente amata, sa che nell’orchestra il contrabbassista di fila (la terza per la precisione) è destinato sempre e comunque all’anonimato, più dell’insulso timpano che almeno gode del privilegio di essere piazzato più in alto e quindi di una visibilità a lui ineluttabilmente negata. E quindi giù tutte assieme le maledette bottiglie, in un effetto domino calibrato e di forte impatto visivo. Funzione analoga a quella delle bottiglie, cioè di oggetti vivi e funzionali al monologo, è affidata alla mastodontica custodia del contrabbasso, prima depositaria dell’impulso omicida (di questo si tratta considerata la vera e propria personificazione dell’odiato strumento) e poi di quello erotico.

Ogni gesto, ogni ammiccamento della maschera facciale dell’interprete è studiato nei minimi dettagli, ogni cambio di timbro vocale, ogni passaggio dall’ironia lieve al dramma intimo, ogni nota accennata con voce sottile e morbida testimoniano una duttilità più volte dimostrata in passato e una capacità di immersione che non teme le modulazioni e i cambi di registro. Sangiorgi si appropria del testo attraverso un adattamento intelligente e non riduttivo, lo manipola in modo personale, lo indossa come il frac di scena, elegante testimone di uno struggimento senza redenzione ipotizzabile. Certo, il suo scialbo ometto potrebbe anche fare una pazzia, urlare il nome della donna amata subito prima dell’inizio del prossimo concerto e così sconcertare i presenti e magari conquistare il cuore freddo della giovane e frivola soprano, ma sarebbe davvero la svolta cercata, il passaggio al gradino superiore dell’altrui considerazione? La riflessione resta aperta nel rispetto del testo di Suskind e del pensiero del regista stesso.

Forse la lacerazione è destinata a rimanere insanabile, forse l’atto dissacrante, qualora effettuato, non produrrebbe i risultati attesi, forse siamo fatti proprio così, tutti, in quanto esseri umani, perennemente dilaniati da aspirazioni troppo alte e strattonati da impulsi opposti e contraddittori. E forse è proprio in questo che andrebbe cercata la grandezza, nell’incessante tentativo di mediazione, nella percezione dell’insuccesso e nella conseguente capacità di ripartenza, nel tentativo di conquistare quella porzione di bellezza comunque concessa, se si è in grado di comprenderla e di trattenerla.

Il prossimo appuntamento con Scena Nostra è per i prossimi 20 e 21 dicembre con Volver scritto e diretto da Giuseppe Provinzano.

STUDIO PER CONTRABBASSO

regia e adattamento di Giuseppe Sangiorgi

drammaturgia musicale di Damiano D’Amico
in scena Giuseppe Sangiorgi e Damiano D’Amico

produzione Compagnia Massimo Verdastro

https://www.scriptandbooks.it/2020/01/09/struggimento-senza-redenzione-studio-per-contrabbasso-di-giuseppe-sangiorgi-da-patrick-suskind/

anche su Articolo21

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Natale 2019. La lettratura russa ieri e oggi

Natale 2019 | La letteratura russa ieri e oggi

@ Agata Motta (02-12-2019)

Il Giocatore di Fëdor Michajlovič Dostoevskij. E’ stato scritto in meno di un mese e sotto la pressione di un editore già pronto a fregarlo se il testo non fosse stato consegnato nei tempi concessi, un anno per la verità, che il Nostro invece utilizzò per la revisione di Delitto e castigo. La situazione economica di Dostoevskij è disastrosa, il gioco d’azzardo è diventato una vera e propria malattia e proprio dalla coscienza lucida e distaccata di un vizio al quale si abbandonerà per tutta la vita, nasce questo godibilissimo romanzo breve, che diverte anche quando affronta la rovina spirituale e materiale dei suoi personaggi. Bisogna però superare la delusione prodotta dalle prime pagine, perché l’opera parte un po’ in sordina per crescere pian piano fino ai deflagranti capitoli centrali nei quali il personaggio indimenticabile della nonna siede al tavolo da gioco dissipando gli averi che i parenti ingordi e inetti, in speranzosa attesa di un telegramma che annunziasse la sua dipartita, avevano già sognato nelle proprie tasche.

Il luogo è una immaginaria cittadina termale tedesca, Roulettenburg (ma se andate a Baden Baden non dubitano che si tratti della loro splendida città), dove bere le acque della salute o compiere lunghe passeggiate terapeutiche sono occupazioni del tutto secondarie, mentre la passione si accende invece nel Casinò, in cui una torma di disperati si mescola a dame annoiate, nobili decaduti, parassiti in cerca di nuove vittime, usurai mascherati da gran signori, fanciulle disposte a sperperare le vincite dell’ultimo sciocco pollastro appena abbindolato. Denaro e amore sono i motori dell’azione, il primo vissuto come unica panacea in grado di risollevare le sorti dei giocatori o di imprimere una svolta concreta ad esistenze piatte e grigie, il secondo occupa i pensieri di uomini senza qualità disposti ad essere usati e umiliati da rappresentanti del gentil sesso ciniche e volubili.

Edvard Munch. Tavolo della roulette a Monte Carlo, 1892

Lo sguardo acuto dell’autore regala anche una passerella assai poco edificante di rappresentanti delle varie nazioni che si incontrano nell’amena cittadina: dai francesi ai tedeschi, dai polacchi ai russi, tutti mostrati nei punti deboli, nelle caratteristiche negative, nei lati oscuri, tutti radiografati in modo impietoso, nessuno escluso, nemmeno il protagonista/narratore che descrive le febbrili dinamiche di ubriacante follia e di disperato sconforto che si creano intorno alla roulette con la precisione e la consapevolezza dettate dalla conoscenza diretta del demone del gioco.

Una panoramica desolante esposta con l’amaro umorismo di chi vede con chiarezza il proprio volto nello specchio deformante che ha appena realizzato.

...per quanto poi riguarda le perdite e le vincite, gli uomini, allora, non solo alla roulette, ma ovunque, cercano di vincere o portar via qualcosa l’uno all’altro. Che poi il guadagno o il lucro siano in generale una cosa sporca, questa è un’altra questione. Non sarò comunque io a risolverla qui.

Anna Karenina di Lev Tolstoj. Tempi lunghi e distesi, ovviamente, per leggere questo grande classico che solo apparentemente concentra la sua attenzione sul personaggio eponimo.

La nota vicenda dell’infelice amore di Anna per il vanesio Vrònskij è in realtà solo uno dei nuclei tematici dell’opera che vive e si fortifica attraverso le vicende parallele di altre due coppie, quella costituita dalla giovane Kitty e dal posato Lévin e quella formata da Dolly e Oblònskij, cognati di Levin.

Proprio quest’ultimo personaggio è il perno sul quale ruota la visione d’insieme dell’autore, il suo alter ego, il portavoce di un’interiorità dinamica e profondamente lacerata che opacizza le personalità degli altri uomini, dediti ai piaceri, alla carriera, ad un’arte sterile di puro autocompiacimento, ad elucubrazioni ideologiche sulle quali l’autore fa pesare il proprio giudizio. Dalla dimensione corale del romanzo, che supera le vicende personali dei protagonisti per amalgamarle in una complessa composizione d’insieme, emergono le voci e i volti della grande massa contadina, degli ufficiali dell’esercito, dei nobili oziosi e parassiti e di quelli incuriositi e stimolati dalle novità nella delicata fase di passaggio vissuta dalla Russia all’indomani dell’abolizione della servitù della gleba, la fase di trasformazione che avrebbe dovuto modernizzare un sistema restìo ai cambiamenti e legato ai privilegi di classe.

Stati d’animo, sensazioni, riflessioni dei personaggi sono sviscerati con precisione da un narratore onnisciente che consente al lettore di affacciarsi nell’interiorità di ciascun personaggio, di scrutare ogni piega dell’animo, di conoscerlo, insomma, come se fosse una persona vera e viva con la quale intrattenersi in piacevoli conversazioni davanti ad un buon caffè.

Certo, tra tutte le donne presenti nella vicenda, Anna svetta per la sua superiore capacità di inabissarsi nella passione, per il dolore scaturito dalle sue due maternità, la prima frustrata e recisa dall’ex marito, la seconda involontaria e poco gratificante, sicuramente mai compensatoria rispetto alla precedente. La rinuncia ad una vita agiata e rispettabile in cambio di una passione violenta rende vero e pulsante il personaggio “colpevole” molto più dei personaggi positivi, le sorelle Dolly e Kitty. Pur nella consapevolezza della precarietà del suo amore e dell’imminente catastrofe alla quale è destinato – solo a tratti addolcita da un ottimismo disperato che coincide con un animale istinto di sopravvivenza – la donna si getta a capofitto in un’esperienza che le regala il gusto per la vita, la percezione di un corpo capace di desiderare, l’ascolto di un battito che segue i ritmi frenetici dell’eccitazione e avverte i morsi feroci della gelosia.

Gørild Mauseth in ‘Karenina & I’

Anna morirà volontariamente, pensando in tal modo di punire se stessa e il suo ingrato amante, ma in realtà la donna è travolta dalla propria vitalità insopprimibile che non tollera confini e limitazioni e l’incolore Vronskij, per il quale non si riesce ad avvertire un briciolo di compassione, dovrà fare i conti con un suicidio che imprimerà una svolta di cupa espiazione alla sua tragica avventura.

Dopo, sulla sventurata coppia cala il silenzio. La vita continuerà a scorrere dopo aver distrattamente raccattato le macerie e dopo averle gettate in un angolo nascosto. Di tanta passione non resterà nulla, di tanta felicità neanche una sbiadita traccia. Come ciò sia possibile è un mistero, uno tra i tanti misteri che la vita porge quando spegne astri troppo luminosi o che non hanno avuto il tempo di risplendere.

L’uscita di scena vera e propria appartiene a Lèvin. La ricerca del senso e del fine ultimo dell’esperienza terrena, che assilla quest’uomo d’azione e di pensiero, si ricompone in una spiritualità intensa che non prevede premi e assoluzioni, quella che segnerà l’opera di Tolstoj nell’ultima fase della sua vita.

Questo nuovo sentimento non mi ha mutato, non mi ha reso più felice, non mi ha improvvisamente illuminato, come io fantasticavo…Se questa sia o no la fede io non lo so, non so cosa sia, ma questo sentimento è penetrato in me attraverso le sofferenze e si è stabilito saldamente nella mia anima.

Lauro di Evgenij Vodolazkin, Elliot Edizioni. Ambientato nella metà del XV secolo, questo romanzo pluripremiato, scritto da uno degli autori di punta della letteratura russa contemporanea, paragonato per la potenza delle raffigurazioni e per le competenze storiche al nostro Umberto Eco, segue la parabola umana di Arsenio, orfano cresciuto con il nonno in un’izba vicino al cimitero del villaggio di Rukina e straordinario interprete dello spirito del suo tempo.

Vodolazkin ricostruisce con grazia sorprendente e icastica precisione la storia del suo singolare protagonista, dalla nascita alla morte, con una narrazione piana e scorrevole impreziosita qua e là da immagini poetiche e profonde riflessioni filosofiche. Il linguaggio, delicato e potente ad un tempo, porge l’ingenuità, il dolore, la tensione spirituale, il male, l’amore con uno stile e una scelta lessicale di perfetta mimesi emotiva e aderenza agli ambienti. La presenza di un narratore eterodiegetico, sotto il profilo delle possibilità empatiche, nulla toglie al lettore che sente, percepisce, si immedesima e palpita come se a soffiare nelle sue orecchie quella storia siano il protagonista e i tanti personaggi che pian piano incrociano il suo cammino. Si conosceranno, dunque, il nonno Cristoforo, erborista e guaritore di cui erediterà l’arte, la giovane Ustina, fanciulla amata con un trasporto che supera i confini della ragione e oltrepassa il limite invalicabile della morte, i tanti malati che riceveranno beneficio dalle sue parole o semplicemente dal tocco delle sue mani, i folli personaggi con i quali per una parentesi della sua vita condividerà abitudini e stravaganze, i pellegrini con i quali si recherà in Terra Santa, le ieratiche figure degli starec con cui mantiene un intenso dialogo spirituale al di là delle barriere spazio-temporali.

Arsenio, dunque, dopo essere stato guaritore con i soprannomi di Rukinese e di Medico, diverrà un “folle in Cristo”, prendendo il nome di Ustino, poi tornerà ad essere Arsenio e poi, da monaco, verrà chiamato Ambrogio (in memoria di un amico scomparso), e infine, giunto al grado più alto del percorso mistico, quello di schima, gli verrà attribuito il nome di Lauro, perfetto per il riferimento alla pianta curativa e sempreverde che simboleggia la vita eterna. Tanti nomi che corrispondono a tante vite.

La colpa è il motore dell’azione, quella colpa che è il fulcro dell’universo medievale. Il grande medico acclamato dalle folle non è riuscito a salvare la donna amata che è morta dando alla luce un bambino già morto. La colpa e l’amore, indissolubilmente legati, e il tentativo disperato di trovare la salvezza, per lei e per il bambino, non per se stesso, guideranno le scelte dell’uomo.

La natura, con la sua forza e con la sua violenza, domina paesaggi sempre cangianti. Ma il viaggio, inteso come spostamento fisico, si sostanzia di un altro elemento altrettanto seduttivo, lo slittamento del tempo affidato ad Ambrogio, un singolare italiano dotato di virtù divinatorie che cerca di svelare i misteri sulla fine del mondo, avvertita come imminente, con sofisticati calcoli basati sulla sacre scritture. L’espediente consente di aprire varchi sul futuro e di riflettere sulla dimensione temporale e sul senso della vita.

La fine del mondo però non arriva e la storia di Arsenio si sfrangia e si ramifica come il delta di un fiume dopo un percorso molto accidentato. I tanti volti incontrati hanno lasciato nella sua memoria un’impronta, gioiosa o dolorosa, finché la vita, quell’impetuoso susseguirsi di fatti slegati eppur intimamente connessi, non gli offrirà l’ultima occasione, che nelle sue vecchie mani diverrà l’arma del riscatto lungamente atteso.

Anche la storia non ha scopo, come non ce l’ha tutta l’umanità. Solo un uomo può avere uno scopo. E anch’esso non sempre.

La tormenta di Vladimir Sorokin, Bompiani editore. Apparentemente leggero e decisamente surreale questo romanzo breve del camaleontico Sorokin è uno scherzo letterario di raffinata crudeltà intessuto sul racconto lungo di Lev Tolstoj Il padrone e il lavorante, in cui le dinamiche tra classi sociali differenti si sviluppano con diverse modalità ed esiti.

In realtà c’è poco da sorridere, perché Sorokin porta alle estreme conseguenze la sua analisi politica di una Russia al collasso e, dopo aver indagato nei precedenti romanzi sulle storture del totalitarismo, si sofferma su uno scalcinato futuro, non identificabile attraverso una datazione precisa, che volge lo sguardo al passato in una commistione esilarante e grottesca (definita dal critico Mark Lipoveckij “retrofuturo”) esaltata da uno stile che filtra e raggela ogni possibile emozione.

Platon Il’c Garin è un coscienzioso medico di provincia che deve raggiungere in breve tempo il villaggio di Dolgoe per vaccinare gli abitanti decimati dalla peste nera boliviana (la droga, senza troppi sforzi di fantasia) che prima di uccidere rende gli uomini simili a zombie. Alla stazione di posta non trova cavalli disponibili ed è costretto a rivolgersi a Raspino, un tenerissimo personaggio che vive trasportando il pane da un villaggio all’altro con un singolare mezzo di trasporto, la propulsoslitta, azionata dalla forza motrice di cinquanta minuscoli cavallini. A complicare lo spostamento una tormenta di neve che non accenna a placarsi.

Paesaggi ancestrali e ambientazioni d’epoca convivono dunque con bizzarrie futuribili e scoperti rimandi letterari (Dostoevskij, Tolstoj, Gogol, Cechov) per inscenare l’incubo contemporaneo che incombe sulla Russia come una bufera intenta a travolgere con il suo bianco manto ogni traccia di umanità e resistenza. Il rischio del congelamento è sempre in agguato, reale o metaforico non importa, ciò che conta è che quel gelo penetra nelle azioni dei personaggi e nei pensieri del lettore e ne paralizza il sorriso, perché presto risulterà evidente che la meta sempre più vicina paradossalmente si allontana fino a configurarsi semplicemente come uno stimolo ad andare sopravvissuto alla neve, al ghiaccio e al vento, un impulso categorico al compimento di un dovere per entrambi i viaggiatori.

La categoria umana – e quella animale – in questo futuro impastoiato nel passato si è frattanto frammentata, per cui accanto ad uomini di dimensioni normali vivono giganti e lillipuziani, gli uni ridotti a meri esecutori di lavori di fatica gli altri perfidi, potenti e prevaricatori. I concetti di grande e piccolo quindi si invertono sul piano della considerazione sociale e trovano un corrispettivo, ancora capovolto, su quello dei valori da perseguire, per cui la grande missione del medico si riduce a puro movimento fisico, lotta contro le intemperie, ottusa ostinazione.

Il lungo ed estenuante cammino dei due personaggi è costellato da incontri gradevoli e accoglienze perturbanti – come quelli con la prosperosa mugnaia, che si concede al dottore senza riserve, e con gli sconcertanti vitaminder, che dispensano allucinazioni ad alto costo dentro accampamenti edificati con feltro viviparo – e da inciampi e scontri con oggetti/simbolo, come la piramide di cristallo e il pupazzo di neve dal grande fallo, in una via crucis di piaceri, sofferenze e speranze che culmineranno infatti con un supremo sacrificio foriero di salvezza.

Sbriciolate nella narrazione scorrevole e guizzante, come le bricioline di Pollicino, riflessioni morali e metafisiche che allertano sul contenuto estremamente serio del romanzo, sulla voglia di scuotere coscienze intorpidite. L’incubo allucinatorio del dottore, posto a friggere in olio bollente sulla pubblica piazza di fronte ad una folla plaudente, e il delirio mistico che ne deriva disturbano nonostante lo stile umoristico che sorregge le tante pagine ad essi dedicate e segna quasi una cesura tra gli eventi. Dopo l’euforica e transitoria sensazione di pieno benessere ottenuta dal dottore alla fine del trip, la tormenta, con la complicità di ostacoli sempre più giganteschi, avvolgerà nelle sue spire gli uomini e i loro ridicoli e goffi tentativi di sopravvivenza. E non ci sarà pietà né per il popolano umile e di buon cuore né per il detentore della scienza esatta, con loro tramontano i sogni di progresso ottocenteschi e quelli di un domani ipertecnologico e salvifico dai piedi di sabbia.

E se all’improvviso questa luna splendente crollasse a terra e la vita terminasse, io, in quell’istante, sarei degno di chiamarmi Uomo, perché non avrei deviato dal mio cammino. E questa è un’ottima cosa!

Le donne di Lazar’ di Marina Stepnova, Voland editore. La vita di un genio della matematica e della fisica, raccontata da un’autrice sorprendente e dallo stile versatile e accattivante, attraverso quella di tre figure femminili che ne hanno determinato lo svolgimento e alle quali ha imposto il marchio di una presenza ingombrante e di un nome gigantesco e schiacciante.

Lazar’ Iosifovič Lind è un orfano ebreo agnostico e razionale. Proviene da uno sperduto villaggio, ma lo incontriamo a Mosca, diciottenne, lacero, magro e infestato dai pidocchi, sulla soglia dell’Università a chiedere, anzi quasi a pretendere, un incontro con l’accademico Sergej Aleksandrovič Čaldonov, uomo aperto ed illuminato che si accorgerà immediatamente delle sue doti eccezionali diventandone quindi mentore e amico sincero. La Stepnova, in realtà, non si sofferma sul personaggio eponimo, ma ne costruisce le fondamentali tappe della vita e della carriera attraverso il racconto minuzioso e psicologicamente denso e perfetto delle tre donne che sono le vere protagoniste del robusto romanzo che ha, tra gli altri, il pregio di farsi leggere d’un fiato, di stimolare nel lettore un’arsura che si placa solo bevendone le pagine fluide, chiare e compatte ad ampi sorsi.

Marusja, Galina Petrovna e Lidočka, sono queste le donne di Lazar: la prima è la moglie del suo mentore, molto più anziana di lui ed inutilmente amata di sentimento puro e inestinguibile, la personificazione di ogni possibile virtù femminile che ricambierà il suo amore con affetto materno; la seconda, giovanissima e bellissima ragazza, sposata in età ormai decisamente avanzata, rappresenta invece la sensualità e la perfezione estetica, la bambola capricciosa e fredda da adorare; la terza, mai conosciuta, è la piccola nipote che a cinque anni assisterà impotente al copovolgimento del suo piccolo mondo perfetto e che mendicherà attenzioni e affetto trovando invece gelo e disciplina nel raggiungimento di eccellenze artistiche non desiderate. Il destino di queste donne verrà segnato da eventi improvvisi, da lacerazioni imprevedibili, dai riflessi della grande storia che attraversa la Russia e poi l’Unione Sovietica, dalla rivoluzione bolscevica all’agonia del secolo scorso, eventi e fatti i cui risvolti piombano rapaci o consolatori con conseguenze ineludibili. Costretta da un vile ricatto ad un matrimonio che pone una pietra tombale sul suo sogno d’amore, Galina Petrovna, la perfida e anaffettiva moglie del genio, che non riuscirà nemmeno da vedova a gioire della sua spropositata ricchezza e della conquistata libertà sessuale, è il personaggio più sofferto e riuscito, quello per il quale si può provare compassione a dispetto dell’esibito benessere e dell’irritante bellezza. L’autrice ne porge il rovello interiore, fa avvertire la sua repulsione fisica per quel corpo di vecchio famelico di carne giovane, conduce a provare le sue paure e a respirare il suo terrore, a riflettere sulla mostruosità di un apparato politico disposto, senza ombra di remore, ad immolare esseri umani agli appetiti del Genio, purché questi continui a produrre meraviglie utili al sistema. Tanto tutto si può comprare, con il denaro o con la violenza.

Lindt, dunque, resta avvolto in un mistero che in parte deriva dalla sua natura sui generis, dentro la quale nessuno, neanche l’autrice, può penetrare, e in parte da una scelta precisa, da una manovra tecnica che privilegia il non detto e lo svelamento parziale ottenuto tramite lo sguardo di chi lo vede agire, di chi incrocia il suo fulgido cammino professionale e il suo angusto e infelice percorso umano e affettivo. Osannato dagli alti vertici, prestato alla ricerca pura e all’utilizzo del nucleare a scopi bellici, ricco e privilegiato per il suo status di uomo chiave del governo, Lindt subirà le sue più clamorose sconfitte nell’ostinata ricerca di amori prevedibilmente infelici (una donna felicemente sposata e troppo anziana e una ragazza già innamorata di un altro e troppo giovane), in quelle che si configurano come scelte autopunitive per colpe oscure in cui affiora l’origine semita, prima fra tutte quella sovrabbondanza intellettiva che lo inchioda a responsabilità precise senza vie di fuga.

La regia del romanzo è perfetta come un ingranaggio sofisticato, la fabula, continuamente scardinata dall’uso insistito di analessi e prolessi, non si incrina mai per mancanza di chiarezza e il lettore non solo non ne è disorientato ma letteralmente risucchiato, perché le azioni che possono inizialmente apparire gratuite e prive di logica si rivelano pienamente coerenti alle motivazioni porte dal vissuto e dai piccoli grandi traumi che le hanno determinate. Una cavalcata attraverso il secolo breve in uno dei territori più complessi sotto il profilo sociale e politico, una finestra aperta sui vizi delle gerarchie al potere e sulle aspettative deluse di un popolo – la grande anima dell’Unione Sovietica e della Russia – che si è abbandonato all’ideologia imperante come un figlio ai voleri di una madre esigente. Il divario economico tra intellighenzia al potere e masse spremute e solo parzialmente gratificate divampa tra le pagine ma senza rancore, come una coscienziosa presa d’atto.

Quasi a siglare ulteriormente una tendenza letteraria della scrittura russa contemporanea, anche qui non ci sono vincitori (solo alla giovanissima Lidočka è concesso qualcosa che assomiglia alla serenità e all’amore) e nemmeno il genio resterà immune al triste naufragio e alla morte.

Lindt comprese.

– Dunque è così – disse con voce roca. – E io che pensavo di essere caduto.

Strinse spaventato le dita di Galina Petrovna, come un bambino, come in cerca di aiuto, come se si potesse fare almeno qualcosa, ma si riprese subito e le lasciò la mano. Non importa – mormorò. – Non importa, feygele, non aver paura. A pensarci bene, non è che un esperimento, e per di più molto curioso.

“La creatura del desiderio” di A. Camilleri e G. Dipasquale

Lucidità e delirio di Alma e Oskar. ‘La creatura del desiderio’ di Andrea Camilleri e Giuseppe Dipasquale al Biondo di Palermo

Saggistica breve. Teatro

@ Agata Motta (30-11-2019)

Palermo – Che il tema affrontato sarà quello del “simulacro”, con tutte le sue implicazioni e i suoi eruditi riferimenti è subito dichiarato nel breve prologo che apre lo spettacolo La creatura del desiderio di Andrea Camilleri e di Giuseppe Dipasquale, che ne cura anche la regia, in scena alla sala Strehler del Biondo fino al primo dicembre.

Il sorriso sornione del Maestro Camilleri – che ripesca le origini del simulacro nella palinodia scritta da Stesicoro per la bella Elena, per poi transitare su Euripide, Pigmalione, Nikolaj Gogol, Tommaso Landolfi, Gabriele D’Annunzio – sembra apparire per pochi minuti in quel “prenderla da molto lontano”, ma, che si tratterà di una storia tragica e dai risvolti grotteschi, anche questo è subito chiaro. Il sorriso scomparirà prestissimo e quasi ci si dimenticherà che questo lavoro appartenga proprio a lui. Sebbene alla passione che esplode e che brucia, alle vampe amorose che avviluppano senza requie, all’attrazione magnetica esercitata da un corpo femmineo il Nostro abbia dedicato molte pagine, in questo scovare una storia reale ma non troppo nota, in questa documentazione scrupolosa e quasi pignola, in questo indugio voluttuoso sui risvolti patologici del gioco amoroso sembra spirare qualcosa di nuovo e di doloroso, una riflessione filosofica e amara che scavalca un intero secolo per porgere, tra le righe, sollecitazioni attuali e chiavi interpretative per certe ossessioni contemporanee.

Un abito rosso assai poco vedovile e la bellezza straripante di Alma Mahler, dietro la quale persero il senno artisti di sommo valore, come l’Orlando di Ariosto per la bella Angelica, accendono il grigio opaco di una scenografia volutamente neutra ed essenziale, atta ad accogliere la proiezioni di immagini su quinte costituite da morbidi teli. Siamo a Vienna nel 1912. E’ il primo incontro tra la vedova di Mahler e Oskar Kokoschka, l’artista selvaggio e maledetto, impregnato di espressionismo, che tenta di farsi strada con uno stile che irrita la critica e seduce gli esperti.

Lui è giovane e inquieto, lei è più grande e decisamente navigata. La passione immediata è delineata felicemente attraverso il doppio punto di vista dei due protagonisti, prima lui e poi lei, in identiche battute porte con toni ed espressioni diverse. Le lancette di un enorme orologio proiettato sullo sfondo si inseguono velocissime a sottolineare il vortice che afferra sin dall’inizio due esseri accomunati dall’amore per l’arte e dalla sfrenata voglia di ingurgitare tutto il piacere che la vita possa offrire.

Valeria Contadino e David Coco si impossessano subito del ruolo, anzi sono proprio loro, Alma ed Oskar, belli e appassionati, mani che si cercano, corpi che si attraggono come calamite. L’Eros si impossessa di entrambi, ma nell’uomo, che ha trovato la Musa con la quale celebrare un vero e proprio matrimonio artistico (La sposa del vento ne segna l’apice), il sentimento rivendica l’esclusività, l’amore si tinge di sofferenza perché avvelenato da un’insana gelosia che si rivolge persino al marito defunto, al celebre musicista del quale non tollera la memoria nemmeno nelle tristi sembianze di una maschera mortuaria. E non saranno i viaggi o la prossima maternità a placare la sete di possesso totale di Oskar, mentre la natura libera di Alma, non sostenendo più la prigionia fisica ed emotiva in cui si sente relegata, deciderà di sottrarsi ad essa e di rinunciare a quel figlio che avrebbe potuto significare l’avvio di una famiglia “normale”.

Lo smalto iniziale dello spettacolo però non è duraturo, l’adattamento del testo non asseconda le esigenze proprie del linguaggio scenico, per il quale sarebbe stato forse opportuno snellire il periodare fortemente ipotattico che talvolta smorza la fluidità delle battute. Se il testo nel complesso regge, è perché reggono entrambi i protagonisti, che affrontano con grande professionalità e precisione certi passaggi impervi. Nei quadri intermedi, che condurranno al culmine della vicenda amorosa e poi allo snodo dell’abbandono, agiscono anche i personaggi dei servitori di casa Kokoschka, interpretati da Leonardo Marino e Antonella Scornavacca. Essi dovrebbero costituire una sorta di contraltare leggero e malizioso (la lettura delle lettere degli amanti è proposto da lei come intrigante gioco seduttivo) e farsi portavoce dei commenti e dei giudizi del mondo esterno sulla coppia che fa scandalo e suscita invidie, ma una scelta registica discutibile li guida verso interpretazioni un po’ caricaturali che urtano con un contesto che vira vistosamente verso una tragica spannung, accompagnata dalle belle e suggestive musiche di Matteo Musumeci.

Ecco dunque la caduta nell’abisso della guerra, rappresentata in rapidi fotogrammi di truppe al fronte e di scenari bellici, e il risveglio malato di Oskar nella Dresda che accoglierà la messa in scena della follia amorosa, lungamente covata e quindi minuziosamente preparata. Il pittore non potrà più avere la donna amata per sé, ma potrà partorirla in un simulacro perfetto, in una creatura dalle fattezze simili a quelle di Alma, una bambola costruita dalle abili mani dell’artigiana Herminie Moss che seguirà le istruzioni dell’uomo fatte di esaurienti bozzetti ed accuratissime descrizioni. Strano ma vero. La realtà che supera la fantasia.

Valeria Contadino si cala con una duttilità che turba e seduce (nonostante costumi che non aiutano) nelle forme finalmente realizzate del simulacro – un po’ bambola triste, un po’ meccanico congegno per solitari piaceri – mentre David Coco frena la tentazione di abbandonarsi agli eccessi e crea un mix di lucidità e delirio che congiungeranno finalmente l’Eros iniziale all’abbraccio liberatorio di Thanatos, un occhio strizzato a Freud, vicino di casa e di epoca che l’autore non poteva certo far rimanere chiuso in soffitta.

Uno spettacolo certamente ambizioso che convince solo parzialmente, ma del quale si può – o forse si deve – parlare per quell’immediato riferimento a certo frastornante uso del virtuale (diffuso in verità nell’universo maschile ma anche in quello femminile) per approcci sessuali che divengono surrogati di facile consumo dell’incapacità affettiva di intere generazioni e per quell’allarmante equivoco (questo sì soltanto maschile) che porta ad identificare l’amore con il possesso e che conduce all’uccisione del giocattolo sfuggito di mano.

https://www.scriptandbooks.it/2020/01/09/lucidita-e-delirio-di-alma-e-oskar-la-creatura-del-desiderio-di-andrea-camilleri-e-giuseppe-dipasquale-al-biondo-di-palermo/

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La creatura del desiderio

di Andrea Camilleri e Giuseppe Dipasquale
Regia Giuseppe Dipasquale

Interpreti
Valeria Contadino
David Coco
Leonardo Marino
Antonella Scornavacca

Scene e costumi Erminia Palmieri
Musiche Matteo Musumeci
Movimenti scenici Donatella Capraro

produzione Teatro della città di Catania

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