Intervista a Giulia Randazzo regista di “A noi due”

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Il destino illeggibile di Gesualdo Bufalino. Intervista a Giulia Randazzo, regista di ‘A noi due’, in scena al Teatro Biondo di Palermo

@ Agata Motta (08-06-2021)

Giulia Randazzo

Strano ma vero: si riparte. Poche parole che si avrebbe voglia di sussurrare per timore che possano svanire, poche parole che si vorrebbero gridare per un’incontenibile gioia che si spera non fugace.

Gran debutto in prima nazionale allo Steri Chiaramonte di Palermo per la nuova produzione del Teatro Biondo: A noi due, ovvero Le menzogne della notte di Gesualdo Bufalino nella messa in scena scritta e diretta da Giulia Randazzo. Lo spettacolo, in scena fino al 13 giugno alle 20.30 (ma con ingresso consigliato alle 20.00 per consentire la visita alle celle dell’ex carcere) è interpretato da Vincenzo Pirrotta, Paolo Briguglia, Mauro Lamantia, Giuseppe Lino, Alessandro Romano.

“In un’isola penitenziaria, probabilmente mediterranea e borbonica, fra equivoche confessioni e angosce d’identità, un gruppo di condannati a morte trascorre l’ultima notte”. Questa la sinossi del romanzo  raccontata dallo stesso autore, poco più di un centinaio di pagine di sublime letteratura. “Fantasia storica, giallo metafisico, moralità leggendaria”, con queste parole l’autore definisce un’opera che non è possibile incasellare in un genere specifico, ma che resta incollata nella mente e nel cuore del lettore.

Sebbene del romanzo storico indossi le sontuose vesti e del Decameron adotti l’espediente della cornice narrativa, Le menzogne della notte è un romanzo originalissimo e di magnetico fascino. Il tempo e il luogo, suggeriti ma non palesemente dichiarati, fungono da supporto per raccontare storie di uomini di tempi andati attraversati dagli eterni dubbi esistenziali che appartengono ad ogni epoca, per narrare di violenze subìte o compiute, di lacerazioni interiori, di amori travolgenti, di passioni mortifere, di gelosie, di malesseri, di vendette. Un romanzo totalizzante, che si snoda tutto in interni, con l’unica eccezione di squarci di cielo intravisti dalla finestra e di uno spicchio beffardo di piazza su cui cresce pian piano Luigina, la ghigliottina eretta nel corso della notte che mozzerà il capo a cospiratori irretiti dall’offerta terribile del Governatore: trascorrere l’ultima notte nell’agio del confortatorio con la possibilità di scrivere, nel rispetto dell’anonimato, il nome che svelerà l’identità del “Padreterno”, il capo supremo della cospirazione, e avere in tal modo la salvezza. Tradire vigliaccamente, e ottenere la scarcerazione di tutti, o morire quando ancora la vita seduce e attrae.

“A noi due”, il titolo scelto per lo spettacolo, è l’ambigua, provocatoria dedica che Gesualdo Bufalino scelse per il suo terzo romanzo, vincitore del Premio Strega 1988, una dedica che è anche uno dei tantissimi prestiti letterari (battuta finale del Père Goriot di Balzac in questo caso) con cui l’autore impreziosì un testo densissimo di riflessioni morali e di scavi introspettivi. Dovrebbe essere logico parlare anche di risvolti politici, considerato il contesto, ma in realtà la politica nel romanzo è solo un pretesto, una ragione di vita per i condannati che vi si sono aggrappati alla ricerca di solide certezze; in realtà non si gioca una partita ideologica ma si indaga su una condizione esistenziale.

A noi due suona quindi come una sfida per questo spettacolo di apertura di Eroica, la stagione estiva del Biondo annunciata con giusto entusiasmo dalla direttrice Pamela Villoresi, una sfida al tempo guasto che si è costretti ad affrontare, una sfida alle pressanti difficoltà che bisogna superare, una sfida all’umore aspro che non dovrà alterare i prossimi assaggi di libertà. Allora a noi due: attori e spettatori, teatro e mondo, musica e parole, vita e morte.

La giovane pluripremiata regista palermitana, che ha già a suo attivo una decina di spettacoli complessi e originali, è stata selezionata per la terza edizione di Fabbrica YAP e ha diretto ‘Farnese Suite’, il lungometraggio dei giovani artisti del ‘Fabbrica Young Artist Program’ del Teatro dell’Opera di Roma, in collaborazione con l’Ambasciata di Francia in Italia e l’Opera di Parigi. A lei dunque il gradevole e non semplice compito di orientarci in uno spettacolo accattivante ricco di sollecitazioni e sorprese.

  • Chi è per lei Gesualdo Bufalino e cosa vuole raccontarci di lui attraverso lo spettacolo?

Bufalino rappresenta un pezzo della mia tarda adolescenza, come qualcuno la definisce oggi; ossia quel periodo meraviglioso della vita che si colloca tra i 18 e i 20 anni. È il periodo in cui ciascuno di noi è animato dai grandi dubbi esistenziali: chi sono? Chi siamo? Siamo veri? Siamo dipinti? Sono gli stessi dubbi di cui lo scrittore di Comiso ci narra attraverso i personaggi delle sue Menzogne.

Non so se ho voluto raccontare qualcosa in particolare di Bufalino, forse ho solo desiderato che lo spettatore di “A noi due” facesse esperienza di questo autore. Fare esperienza teatrale di Gesualdo Bufalino penso possa rappresentare per l’uomo di oggi una possibilità concreta di sfamare il proprio bisogno metafisico.

  • A noi due è definita un’esperienza teatrale “di confine”: quali sono i confini da esplorare o eventualmente da oltrepassare?

Con la pandemia siamo stati letteralmente confinati, separati, ridotti a percepire il mondo attraverso i nostri device, telefoni, computer, Ipad… forse oggi oltrepassare il confine significa ritornare insieme, a condividere una storia nel nostro caso. Ma dobbiamo farlo in sicurezza. Come conciliare la necessità del distanziamento con il bisogno di comunità? Come conciliare l’intimità di un romanzo ambientato in un interno notte con norme che incoraggiano a svolgere spettacoli in grandi spazi esterni?

Dalla necessità di cercare una risposta a queste domande e di superare i confini che connotano dolorosamente il periodo storico in cui viviamo è nata la sperimentazione che – insieme alla scenografa Giulia Bellé e al sound artist Alessandro Librio – ho proposto al Teatro e alla compagnia: mettere il pubblico nelle condizioni di essere vicino alla parola bufaliniana e agli attori che l’hanno incarnata con altri sensi, in questo caso privilegiando quello dell’udito. Ne è nato un rapporto fra spettatore e attore abbastanza inedito, diverso, anche più intimo in un certo senso…

Ho serie difficoltà a definire “A noi due” uno spettacolo: è stata al tempo stesso una sfida e una “affettuosa intimidazione” (come direbbe Bufalino) che, come compagnia, abbiamo rivolto allo spettatore, chiamato a mettersi in gioco in un rapporto uno-a-uno con il palcoscenico, alla ricerca di nuove forme di intimità nella distanza.

  • Il romanzo di Bufalino ha un impianto pienamente teatrale e apparentemente statico, quasi claustrofobico visto che si svolge perlopiù nello spazio chiuso del confortatorio, ma lei ha voluto contrapporvi un andamento più dinamico, legato al luogo della rappresentazione. Quanto ha influito la scelta dello Steri sulla modalità dell’allestimento?

“Apparentemente statico”, hai detto bene, perché in realtà con il passare delle ore i personaggi subiscono una trasformazione incredibile, molto evidente, palpabile, emozionante. Ho puntato sin dall’inizio sulla possibilità che gli attori si facessero portatori della parte più “spettacolare” di questa storia. Ho lavorato insieme a loro per costruire un percorso che potesse trasformare questo linguaggio così desueto e a tratti insidioso, in un viaggio appassionante e coinvolgente. Il “confortatorio” poi, nelle intenzioni dello stesso Bufalino, diventa il palcoscenico del mondo. È una metafora shakespeariana, è nell’essenza del fare teatro e nel testo questo tema ricorre nelle parole di tutti i personaggi: realtà e finzione, essere e apparire, essere degli individui consapevoli o delle marionette nelle mani di un destino illeggibile?

Ho pensato che lo Steri Chiaramonte fosse il luogo ideale per raccontare questa storia, per il suo passato e per le memorie che ancora lo abitano, a partire dai dipinti che i prigionieri hanno lasciato sui muri delle celle. Abitare per l’ultima settimana di prove lo Steri, trovarsi mani e piedi immersi in quelle memorie, più che influenzare a livello prassico le modalità di allestimento, ha segnato nel profondo tutti noi.

  • Tra i personaggi del romanzo quale ha sentito più vicino o più interessante durante la stesura dell’adattamento teatrale?

Ad essere sincera non saprei scegliere un personaggio fra gli altri… e forse questa è la forza di questa drammaturgia. Ognuno di loro è un frammento di un tutto. Ognuno di loro ci parla di qualcosa, di un segreto che gli altri non conoscono. Durante questa “notte di meraviglie” non si rivelano soltanto agli spettatori, ma l’uno con l’altro, generando ad ogni loro racconto una nuova possibilità di senso, di significato per il gesto che stanno per compiere, per il loro sacrificio. È una grandissima soddisfazione vedere come il pubblico si affezioni ad ognuno dei personaggi e apprezzi il cast nella sua interezza e diversità. Ad un certo punto si ha l’impressione di essere nella cella con loro.

  • La pirandelliana ricerca della propria identità è uno dei motivi conduttori dei racconti dei personaggi, sembra quasi che scelgano di smarrirsi nel tentativo di ritrovarsi. In realtà nessuno aderisce in pieno alla propria rappresentazione di sé, la menzogna è sempre dietro l’angolo. E’ il destino dell’essere umano?

Temo di sì. Per paradosso in questa storia la menzogna sembra svelarci, come in un racconto mitico, una verità sull’uomo più autentica di quanto non possa farlo la banalità di una confessione sincera. Come se Bufalino si diverta a confonderci, e a confondersi, per poi riemergere dal caos con un piccolo diamante sulla punta della sua penna. La fragilità umana, la consapevolezza di questa fragilità, e la poesia che ne derivano sono incredibilmente toccanti.

  • “Decisioni sull’uso della notte” è il titolo di uno dei capitoli del romanzo. La notte in questione però è, con quasi assoluta certezza, l’ultima e i personaggi la trascorreranno raccontandosi brandelli di vita. Quanta e quale salvezza si può trovare nelle parole?

Per risponderti, mi viene voglia di citarti per intero una parte della drammaturgia, l’unica che mi sono permessa di interpolare, perché trovavo le interviste di Bufalino sul tema del rapporto fra morte, abisso e racconto, così belle che mi sono sentita in dovere di condividerle col pubblico. Ma non lo farò! Sta agli spettatori più attenti andarle a scovare…

  • Con quanta fedeltà ha affrontato il linguaggio barocco e lussureggiante dell’autore?

Totale, devota, quasi assoluta, mi sono permessa di spostare piccole cose affinché non fosse sacrificata – per i tagli al testo che necessariamente andavano fatti – la comprensione della storia. Anzi durante le prove abbiamo recuperato alcune espressioni che avevo in un primo momento obliato perché temevo impossibili da recitare!

Questo perché abbiamo tutti accettato la sfida di questo linguaggio, così difficile in apparenza, eppure così ricco di senso, generatore di suoni, di poesia, capace di aprire all’improvviso uno squarcio nella tela della finzione.

Il lavoro più duro e appassionante sul linguaggio non è stato dunque nella stesura dell’adattamento, ma nella costante ricerca di una verità nella recitazione di quelle parole. Sono molto grata a ciascuno dei membri del cast, che si è misurato insieme a me in questa impresa coraggiosa e folle.

  • Vincenzo Pirrotta, Paolo Briguglia, Mauro Lamantia, Giuseppe Lino, Alessandro Romano sono attori molto diversi tra loro per presenza scenica, gestualità, inflessioni vocali. L’attribuzione dei ruoli è stata naturale e spontanea?

Sì, naturale e spontanea; non avrei saputo dirlo meglio. Ciò che invece non è stato spontaneo né semplice è stato il processo di direzione attori in una compagnia così eterogenea per percorsi professionali e di vita. Un viaggio ricco e stimolante, anche in questo caso una bella sfida: credo che un regista non possa desiderare di più. Paolo, Vincenzo, Mauro, Giuseppe e Alessandro sono stati 5 meravigliosi compagni di viaggio, ciascuno di loro mi ha aperto con generosità e fiducia una finestra sul proprio mondo. Nel mio piccolo, ho provato a fare lo stesso. Sono estremamente grata alla vita per questa opportunità umana, prima ancora che professionale.

In un’epoca storica in cui il teatro è schiavo di decreti ministeriali ghettizzano under e over 35, nuove drammaturgie e teatro classico, credo sia tornato il momento di ricominciare a prendere sul serio il teatro come fatto intergenerazionale, fatto di incontri, scontri, passaggi di testimone.

  • Il suono, che potrebbe sembrare quasi un intruso nel silenzio tetro del penitenziario in cui si trovano i quattro condannati, diventa protagonista nello spettacolo. Che funzione ha voluto attribuirgli?

Nel romanzo il suono ha un ruolo fondamentale. I detenuti raccontano le loro storie nella penombra. Bufalino spende moltissime parole per descrivere i timbri vocali dei vari personaggi, per raccontare suoni e rumori che caratterizzano l’isola. Alcuni di questi, segnano per i detenuti l’unico modo per percepire lo scorrere del tempo durante la notte nel confortatorio (l’avvicendarsi delle ronde dei soldati, il rumore dei martelli che inchiodano il patibolo, la lama della ghigliottina la cui efficacia viene testata sul capo di alcuni malcapitati animali).

Insieme ad Alessandro Librio abbiamo immaginato lo Steri Chiaramonte come il corrispettivo di un grande labirinto mentale in cui il tempo presente si confonde e si sovrappone a quello del ricordo. Gli ambienti sonori che ha realizzato Alessandro sono paesaggi della memoria in cui si combinano elementi legati tanto al passato dell’autore, quanto a quello dei personaggi del suo romanzo. Dal punto di vista del suono abbiamo cercato di rendere percepibile a livello uditivo l’ambiguità della verità e la sua relatività – centrale nel testo di Bufalino – lavorando sull’integrazione tra suoni distorti e suoni realistici, registrati in presa diretta.

È stato molto divertente assistere allo spettacolo e vedere come il pubblico a un certo punto abbia avuto difficoltà a capire quali suoni fossero veri e quali no, specie per quello che concerne i suoni naturali… la messa in dubbio della verità sonora, insomma!

  • Torniamo alla prima domanda ma con una piccola modifica: cosa vuole raccontarci di se stessa Giulia Randazzo attraverso il suo spettacolo?

Come ho accennato, sono legata allo scrittore di Comiso da ragioni personali e affettive. L’incontro con questo autore ha coinciso per me con l’incontro con un professore che ha segnato profondamente la mia vita personale e artistica e che amo definire “il mio maestro”, nonostante non sia un teatrante. Mi diceva sempre: “Giulietta, se vuoi imparare davvero a scrivere devi leggere Gesualdo Bufalino!”. E così feci… per obbedienza, per affetto. Chissà. A dire il vero, non ho mai imparato a scrivere, ma conservo un ricordo meraviglioso di quelle letture e di quegli anni. Le Menzogne della Notte era il suo romanzo bufaliniano d’elezione e me lo fece amare profondamente.

Forse con questo titolo ho voluto raccontare qualcosa del nostro rapporto, del nostro amore per la ricerca sincera e appassionata della verità.

Le nostre strade si sono separate poco dopo: lui oggi continua a ricercarla nella sua attività accademica; io mi ostino a farlo sulle tavole del palcoscenico, tra la polvere e i testi, insieme a delle creature meravigliose chiamate “attori”.

Credo che il mio prof. non sia mai stato troppo felice di questo… forse avrebbe preferito vedermi in cattedra.

Invece il prof. sicuramente saprà apprezzare la scelta, perché non c’è niente di più bello e prezioso che porgere le ali ai propri alunni e aiutarli a riconoscere la propria strada.

Nelle menzogne di questa anomala notte bufaliniana, si porgono alla coscienza dello spettatore le domande di sempre con la stessa intensità di sempre: sulla vita e sull’uso che ciascuno di noi ne ha fatto quando ormai non si ha più la possibilità di modificare nulla, e sul tempo, nella sua specialissima caratteristica di farsi breve o eterno a seconda delle situazioni e delle percezioni soggettive. Non si finirà mai di tessere meravigliosi orditi sui grandi misteri che l’uomo è tenuto, suo malgrado, a guardare dritto negli occhi.

A noi due

ovvero Le menzogne della notte di Gesualdo Bufalino

drammaturgia e regia Giulia Randazzo

scene e costumi Giulia Bellé

musiche originali e sound design Alessandro Librio

con Vincenzo Pirrotta, Paolo Briguglia

e con Mauro Lamantia, Giuseppe Lino, Alessandro Romano

luci Antonio Sposito

fonica Danilo Pasca

direttore di scena Sergio Beghi

https://www.scriptandbooks.it/2021/06/21/il-destino-illeggibile-di-gesualdo-bufalino-intervista-a-giulia-randazzo-regista-di-a-noi-due-in-scena-al-teatro-biondo-di-palermo/

anche su Articolo21

https://www.articolo21.org/2021/06/il-destino-illeggibile-di-gesualdo-bufalino-intervista-a-giulia-randazzo-regista-di-a-noi-due-in-scena-al-teatro-biondo-di-palermo/

Faust di V. Pirrotta

L’Inferno ovunque. ‘Faust’ di Marlowe al Teatro Biondo di Palermo

La vicenda dell’eroe negativo e della sua eterna dannazione contenuta ne La tragica storia del Dottor Faust di Cristopher Marlowe godette di grande notorietà sulla scene per poco più di una cinquantina d’anni a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, almeno finché il gretto moralismo dei puritani non chiuse i battenti ai teatri. Il Novecento, passando ovviamente per la più nota e letta ripresa goethiana, ha tributato nuovamente grandi onori all’autore e non sono stati pochi i registi e gli attori che hanno voluto cimentarsi con il delirio di onnipotenza e di onniscienza che hanno reso Faust un personaggio estremamente complesso e affascinante.

E anche molto simpatico, diciamolo senza remore. Se persino un poeta come Dante, di ferreo rigore morale, aveva ammirato nel suo Ulisse, dannato e ridotto a lingua di fuoco per l’agire fraudolento, questa sete inestinguibile di sapere, non può stupire che l’attrazione magnetica per i temerari che spingono sempre più il là l’asticella del traguardo da raggiungere, costi quel che costi, si sia perpetuata e rinvigorita attraverso i secoli. L’uomo contemporaneo, sostenuto da una scienza di matrice positivista e sempre più lontano da ipotetiche remore morali, del mito faustiano è ovviamente intriso fino al midollo e l’andare oltre è assurto a valore assoluto, oltre la natura, oltre la malattia, oltre la vecchiaia, oltre la morte, a dispetto della saggia lezione di moderazione e misura proposta da altri grandi del passato.

Prodotto dal Teatro Biondo, Faust ovvero arricogghiti u filu, sanguigna e densa rilettura del testo di Marlowe operata da Vincenzo Pirrotta, inaugura degnamente la stagione nella sala Strehler dello stabile palermitano e si colloca nella giusta dimensione di un’ulteriore riflessione sull’argomento, attuale oggi come lo era già stato secoli addietro.

Nell’accostarsi al testo, Pirrotta ha operato una drastica scrematura, ha agito, espellendole, sulle parti legate alla dispersiva congerie dei tanti interlocutori del protagonista, sul racconto delle beffe operate ai danni dei potenti della terra, sulla processione dei peccati mortali, e ha ricomposto, questa volta con devota fedeltà, uno spartito drammaturgico per poche voci, quelle necessarie a tracciarne il tormentoso percorso.

Pirrotta dirige egregiamente se stesso e l’ottima Cinzia Maccagnano – nei ruoli di Mefistofele e Lucifero – firma scene e costumi e imbandisce un banchetto infernale dalle atmosfere fortemente caratterizzate da pochi oggetti di scena pregni di significato e dalle musiche originali di Luca Mauceri che costruiscono un itinerario sonoro di grande suggestione parallelo a quello interiore del personaggio.

Nella preziosa scansione del dialetto ritmico che ormai Pirrotta indossa come una seconda pelle, Faust incarna la voluttà del libero arbitrio e sguinzaglia la sua ambizione, quella che gli farebbe mordere, senza esitazione e come novello Adamo, il frutto dell’albero della conoscenza. Al sapiente Faust non bastano più le vette altissime della filosofia, della teologia e della medicina, forse ridare la vita ai morti… questo sì potrebbe essere un vero traguardo! Allora l’esoterismo e l’evocazione delle forze del male saranno l’ultimo tentativo praticabile per placare il bisogno di ricchezza e di potere, per soddisfare la vocazione al divino attraverso la negazione del Divino stesso.

Dall’Angelo buono e dall’Angelo Cattivo, lo specchio illuminato d’azzurro e quello solcato dal rosso posti alle estremità destra e sinistra del proscenio, giungono i suggerimenti per la via della salvezza e per quella della perdizione, ma Faust ha già fatto la sua scelta nel momento in cui ha percepito gli angusti confini del vivere umano, nel momento in cui ha capito che essi non avrebbero mai potuto contenere il suo bisogno d’assoluto. Neanche l’ombra di tristezza che attraversa il viso di Mefistofele, quando rievoca il dolore per l’impossibilità di godere della visione divina e quando ribadisce l’esistenza dell’inferno come condizione possibile in ogni luogo e in ogni momento, può convincerlo a desistere.Ventiquattro anni da trascorrere con l’alleanza di Lucifero e dopo l’anima potrà essere consegnata al signore delle tenebre. Tanto non esiste una vita dopo la morte, cosa dovrebbe temere Faust?

Il patto deve essere firmato col sangue e Pirrotta porge una soluzione scenica di grande effetto, perché vomita materialmente quel sangue che non vuole sgorgare, che si coagula in un raccapricciante segnale di avvertimento seguito dal rinnovato appello alla fuga di una voce interiore ancora vigile. Quella voce che sopravvive in un roco rantolo di pentimento, in un’invocazione che suona ormai blasfema viaggiando sulle vibrazioni acustiche alle quali Pirrotta ha abituato il suo pubblico.

Ma la discesa è già iniziata e prenderà la forma di un’ascesa gloriosa veloce come un battito di ciglia, perché a questo infine si riducono i lunghi ventiquattro anni di godimento pattuiti con Lucifero.

Cinzia Maccagnano, che unisce alla padronanza recitativa belle movenze da danzatrice, traccia la via della tentazione e dei suoi tentacolari aspetti. E’ un Mefistofele che può assumere voce e movenze da maschera della commedia dell’Arte o forme tentatrici da donna fatale, è un inquietante Lucifero celato da bende funebri che si libra sull’altalena dopo il suo trionfo, quasi a ribadire che per lui, signore del male, si tratta solo di un gioco come un altro.

Pirrotta ha fatto dunque una scelta registica netta: soppresso qualsiasi elemento farsesco si concentra sul lato oscuro e spettrale del suo eroe, sulla coscienza dilaniata, sull’orgoglio supremo e infine sulla disperazione e nel far questo utilizza lo spazio come alleato.

Tutti gli oggetti del culto sacro, maneggiati da chi ha rinnegato Dio pur percependone voce e sostanza, sono presenti ma capovolti nella loro destinazione d’uso: sul bastone da negromante Faust si abbarbica con le braccia per farne bracci di croce e farsi a sua volta Cristo crocifisso; le lapidi pietose del culto dei morti si issano arroganti per divenire specchi vanesi; l’ampolla atta a contenere il sangue sgorgato per suggellare il demoniaco patto è quella dell’offertorio, l’ampolla del vino che diventa sangue nel misterioso rituale della transustanziazione; l’aspersorio e l’incensiere sono gli strumenti del battesimo e della benedizione della salma, cioè quelli dell’entrata e dell’uscita nel patto cristiano tra Dio e i suoi figli; i lumini votivi delimitano un cerchio luminoso atto a contenere l’ultima celebrazione possibile, quella dell’ultima ora di vita.

Nella bellissima scena conclusiva, Faust raccoglie il filo rosso della propria esistenza. Esso non porta gioiosamente all’uscita dal proprio labirinto esistenziale ma dritto dritto all’abisso della propria cattiva coscienza. Se il biblico Giosuè aveva chiesto a Dio di fermare il corso del Sole per concludere vittoriosamente la battaglia contro gli Amorrei, Faust formula analoga richiesta affinché possa compiersi il tempo del suo pentimento o affinché la pena, per quanto lunga e terribile, possa essere sottratta all’eternità, l’attributo infernale per il quale Faust ha maggiormente orrore.

Ma l’uomo sa di non potere ottenere grazia e si avvia muto e sconfitto tra le braccia di Mefistofele che lo accoglie senza trionfo, consapevole di una disperazione che appartiene anche a lui, angelo ribelle che ha voltato le spalle ad aeternum alla contemplazione divina.

Faust

ovvero

Arricogghiti u filu

di Vincenzo Pirrotta

da La tragica storia del Dottor Faust di Cristopher Marlowe

con Cinzia Maccagnano e Vincenzo Pirrotta

musiche originali di Luca Mauceri

regia, scene e costumi di Vincenzo Pirrotta

assistente alla regia Marta Cirello

produzione Teatro Biondo Palermo

repliche fino al 4 novembre

Autore: Agata Motta

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“Horcynus Orca” di C. Collovà

Il mestiere del critico

 

OCEANO D’ARRIGO

“Horcynus orca” reinventato per il teatro in uno spettacolo-fiume di Claudio Collovà- Di scena al Teatro Biondo di Palermo

di Agata Motta

L’acqua, come elemento di vita e di morte, liquido amniotico che accoglie il feto e massa indistinta che avviluppa cose e persone, l’acqua come l’inizio e la fine dei personaggi, del romanzo, dello spettacolo. Il Teatro Biondo vara con Horcynus Orca – Transito e ricongiungimento (in scena fino al 15 maggio) tratto da Stefano D’Arrigo un progetto ambiziosissimo e lo realizza con un dispendio di forze e di energie che porta all’impeccabile realizzazione, nelle mani cesellatrici e nello sguardo raffinato ed elegante di Claudio Collovà, di uno spettacolo-fiume nel quale immergersi dopo aver rinunciato alla frenesia quotidiana. Chiunque abbia fretta di vedere, di sentire, di capire, chiunque sia avvezzo al consumo di un rito seriale, chiunque non riesca a scollegarsi dagli ultimi post virtuali, dovrebbe rinunciare all’impresa.

(continua su www.inscenaonlineteam.net)

Presentazione “Horcynus Orca” di S. D’Arrigo

Prima della prima

 

IL TEATRO PER STEFANO D’ARRIGO

Al Teatro Biondo di Palermo, Claudio Collovà ‘sfida’ “Horcynus Orca”

di Agata Motta

 

Claudio Collovà ha realizzato con Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo (1919\1992, foto in alto) un progetto a lungo accarezzato e finalmente trasformato in realtà grazie alla produzione del teatro Biondo.

Prima della prima   IL TEATRO PER STEFANO D’ARRIGO Al Teatro Biondo di Palermo, Claudio Collovà ‘sfida’ “Horcynus Orca” di Agata Motta   Claudio Collovà ha realizzato con Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo (1919\1992, foto in alto) un progetto a lungo accarezzato e finalmente trasformato in realtà grazie alla produzione del teatro Biondo. Presentazione “Horcynus Orca” di S. D’Arrigo (continua su inscenaonlineteam.net) » Read more