“La creatura del desiderio” di A. Camilleri e G. Dipasquale

Lucidità e delirio di Alma e Oskar. ‘La creatura del desiderio’ di Andrea Camilleri e Giuseppe Dipasquale al Biondo di Palermo

Saggistica breve. Teatro

@ Agata Motta (30-11-2019)

Palermo – Che il tema affrontato sarà quello del “simulacro”, con tutte le sue implicazioni e i suoi eruditi riferimenti è subito dichiarato nel breve prologo che apre lo spettacolo La creatura del desiderio di Andrea Camilleri e di Giuseppe Dipasquale, che ne cura anche la regia, in scena alla sala Strehler del Biondo fino al primo dicembre.

Il sorriso sornione del Maestro Camilleri – che ripesca le origini del simulacro nella palinodia scritta da Stesicoro per la bella Elena, per poi transitare su Euripide, Pigmalione, Nikolaj Gogol, Tommaso Landolfi, Gabriele D’Annunzio – sembra apparire per pochi minuti in quel “prenderla da molto lontano”, ma, che si tratterà di una storia tragica e dai risvolti grotteschi, anche questo è subito chiaro. Il sorriso scomparirà prestissimo e quasi ci si dimenticherà che questo lavoro appartenga proprio a lui. Sebbene alla passione che esplode e che brucia, alle vampe amorose che avviluppano senza requie, all’attrazione magnetica esercitata da un corpo femmineo il Nostro abbia dedicato molte pagine, in questo scovare una storia reale ma non troppo nota, in questa documentazione scrupolosa e quasi pignola, in questo indugio voluttuoso sui risvolti patologici del gioco amoroso sembra spirare qualcosa di nuovo e di doloroso, una riflessione filosofica e amara che scavalca un intero secolo per porgere, tra le righe, sollecitazioni attuali e chiavi interpretative per certe ossessioni contemporanee.

Un abito rosso assai poco vedovile e la bellezza straripante di Alma Mahler, dietro la quale persero il senno artisti di sommo valore, come l’Orlando di Ariosto per la bella Angelica, accendono il grigio opaco di una scenografia volutamente neutra ed essenziale, atta ad accogliere la proiezioni di immagini su quinte costituite da morbidi teli. Siamo a Vienna nel 1912. E’ il primo incontro tra la vedova di Mahler e Oskar Kokoschka, l’artista selvaggio e maledetto, impregnato di espressionismo, che tenta di farsi strada con uno stile che irrita la critica e seduce gli esperti.

Lui è giovane e inquieto, lei è più grande e decisamente navigata. La passione immediata è delineata felicemente attraverso il doppio punto di vista dei due protagonisti, prima lui e poi lei, in identiche battute porte con toni ed espressioni diverse. Le lancette di un enorme orologio proiettato sullo sfondo si inseguono velocissime a sottolineare il vortice che afferra sin dall’inizio due esseri accomunati dall’amore per l’arte e dalla sfrenata voglia di ingurgitare tutto il piacere che la vita possa offrire.

Valeria Contadino e David Coco si impossessano subito del ruolo, anzi sono proprio loro, Alma ed Oskar, belli e appassionati, mani che si cercano, corpi che si attraggono come calamite. L’Eros si impossessa di entrambi, ma nell’uomo, che ha trovato la Musa con la quale celebrare un vero e proprio matrimonio artistico (La sposa del vento ne segna l’apice), il sentimento rivendica l’esclusività, l’amore si tinge di sofferenza perché avvelenato da un’insana gelosia che si rivolge persino al marito defunto, al celebre musicista del quale non tollera la memoria nemmeno nelle tristi sembianze di una maschera mortuaria. E non saranno i viaggi o la prossima maternità a placare la sete di possesso totale di Oskar, mentre la natura libera di Alma, non sostenendo più la prigionia fisica ed emotiva in cui si sente relegata, deciderà di sottrarsi ad essa e di rinunciare a quel figlio che avrebbe potuto significare l’avvio di una famiglia “normale”.

Lo smalto iniziale dello spettacolo però non è duraturo, l’adattamento del testo non asseconda le esigenze proprie del linguaggio scenico, per il quale sarebbe stato forse opportuno snellire il periodare fortemente ipotattico che talvolta smorza la fluidità delle battute. Se il testo nel complesso regge, è perché reggono entrambi i protagonisti, che affrontano con grande professionalità e precisione certi passaggi impervi. Nei quadri intermedi, che condurranno al culmine della vicenda amorosa e poi allo snodo dell’abbandono, agiscono anche i personaggi dei servitori di casa Kokoschka, interpretati da Leonardo Marino e Antonella Scornavacca. Essi dovrebbero costituire una sorta di contraltare leggero e malizioso (la lettura delle lettere degli amanti è proposto da lei come intrigante gioco seduttivo) e farsi portavoce dei commenti e dei giudizi del mondo esterno sulla coppia che fa scandalo e suscita invidie, ma una scelta registica discutibile li guida verso interpretazioni un po’ caricaturali che urtano con un contesto che vira vistosamente verso una tragica spannung, accompagnata dalle belle e suggestive musiche di Matteo Musumeci.

Ecco dunque la caduta nell’abisso della guerra, rappresentata in rapidi fotogrammi di truppe al fronte e di scenari bellici, e il risveglio malato di Oskar nella Dresda che accoglierà la messa in scena della follia amorosa, lungamente covata e quindi minuziosamente preparata. Il pittore non potrà più avere la donna amata per sé, ma potrà partorirla in un simulacro perfetto, in una creatura dalle fattezze simili a quelle di Alma, una bambola costruita dalle abili mani dell’artigiana Herminie Moss che seguirà le istruzioni dell’uomo fatte di esaurienti bozzetti ed accuratissime descrizioni. Strano ma vero. La realtà che supera la fantasia.

Valeria Contadino si cala con una duttilità che turba e seduce (nonostante costumi che non aiutano) nelle forme finalmente realizzate del simulacro – un po’ bambola triste, un po’ meccanico congegno per solitari piaceri – mentre David Coco frena la tentazione di abbandonarsi agli eccessi e crea un mix di lucidità e delirio che congiungeranno finalmente l’Eros iniziale all’abbraccio liberatorio di Thanatos, un occhio strizzato a Freud, vicino di casa e di epoca che l’autore non poteva certo far rimanere chiuso in soffitta.

Uno spettacolo certamente ambizioso che convince solo parzialmente, ma del quale si può – o forse si deve – parlare per quell’immediato riferimento a certo frastornante uso del virtuale (diffuso in verità nell’universo maschile ma anche in quello femminile) per approcci sessuali che divengono surrogati di facile consumo dell’incapacità affettiva di intere generazioni e per quell’allarmante equivoco (questo sì soltanto maschile) che porta ad identificare l’amore con il possesso e che conduce all’uccisione del giocattolo sfuggito di mano.

https://www.scriptandbooks.it/2020/01/09/lucidita-e-delirio-di-alma-e-oskar-la-creatura-del-desiderio-di-andrea-camilleri-e-giuseppe-dipasquale-al-biondo-di-palermo/

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La creatura del desiderio

di Andrea Camilleri e Giuseppe Dipasquale
Regia Giuseppe Dipasquale

Interpreti
Valeria Contadino
David Coco
Leonardo Marino
Antonella Scornavacca

Scene e costumi Erminia Palmieri
Musiche Matteo Musumeci
Movimenti scenici Donatella Capraro

produzione Teatro della città di Catania

“Chi vive giace” di Roberto Alajmo

Teatro,saggistica breve

La black comedy di Roberto Alajmo al Teatro Biondo di Palermo

ph © rosellina garbo 2019

PALERMO – Il Teatro Biondo accoglie l’atteso debutto in prima nazionale del suo Direttore Roberto Alajmo che, giunto alla scadenza del suo incarico, dichiara di essere quasi certo di aver concluso il suo percorso, nonostante le soddisfazioni e i consensi ottenuti in questi anni. La sua candidatura è comunque tra le altre, si vedrà. Lo spettacolo Chi vive giace, diretto con scanzonata severità dal napoletano Armando Pugliese e prodotto dallo stesso Biondo, ha dunque il sapore amaro di un commiato addolcito dall’affetto di un pubblico che non lesina gli applausi.

Il testo, dalla robusta architettura, contiene un universo narrativo che in parte, e in maniera diversa, ripercorre i sentieri già battuti da Alajmo come romanziere delle specificità della sua terra e in parte si colloca nella dimensione nuova e inesplorata del “realismo metafisico” e della proposta di una lingua perfettamente piegata alle esigenze sceniche, una lingua ispirata al siciliano nei costrutti sintattici e nel recupero di certi termini dialettali intraducibili per la densità dei sottotesti, ad ulteriore conferma che l’identità di un popolo passa pure attraverso la sua lingua.

La vicenda, di per sé tragica, è ispirata ad un fatto di cronaca e ruota su un incidente stradale nel quale perde la vita una donna travolta da un giovane dalla guida disinvolta e distratta. Il vedovo si rode nel vedere il colpevole libero e apparentemente privo di scrupoli e il fatto che lui continui la sua vita a fianco del padre macellaio sembra quasi un insulto alla memoria della moglie.

Alajmo costruisce la trama articolandola in tre movimenti, separati dal cambio di scena e dall’atto del “chiudere gli occhi” (in segno di abbandono a ciò che non è modificabile o di assimilazione tra i vivi e i morti, quest’ultimi connotati da una benda sugli occhi) e trasforma la tragedia in una black comedy dai risvolti comici, in ciò assecondato dalla perfetta orchestrazione registica di Armando Pugliese, che valorizza ogni segmento della drammaturgia atto allo scopo e coordina le ottime interpretazioni dell’affiatato gruppo di attori: Davide Coco e Roberta Caronia, il vedovo afflitto e l’eterea moglie in imperitura simbiosi affettiva, Roberto Nobile e Claudio Zappalà, padre più confuso che persuaso e figlio solo in minima parte consapevole del suo gesto, Stefania Blandeburgo, gustosissima e scaltra madre-chioccia e sagace moglie-dominante che sparge il pepe dell’ironia con perfetto tempismo.

I defunti, insomma, agiscono e parlano con i loro cari da una dimensione altra che li pone al riparo di qualsiasi critica o aggressione con la possibilità suppletiva di ragionare sugli eventi (alla maniera del raisonneur pirandelliano) e di interpretarli da un’ottica diversa per cui il detto “Chi muore giace, chi vive si dà pace” può trasformarsi nel suo opposto e suonare – come proposto dal titolo – nel più irriverente “chi vive giace, chi muore si dà pace”. Non si tratta dei falsi fantasmi di Eduardo, ma di presenze attive al di là dello spazio e del tempo, quel tempo appiattito in cui non succede niente, quello spazio intercambiabile grazie al quale il marito può prendere il posto della moglie per consentirle di sgranchirsi un po’ le gambe, si tratta dunque della creazione di una condizione esistenziale che non ha nulla a che vedere con le credenze religiose. Alzi la mano chi non ha mai chiesto seriamente aiuto e conforto al defunto più caro.

Dal dialogo iniziale tra sagnu/marito e sagnu/moglie (“sangue mio”, nel dialetto siciliano, è la massima esplicitazione dell’affetto) emerge il nucleo linguistico e tematico delle chiacchiere della gente. Esse agiscono sul vedovo come il coltello rigirato nella piaga, ma – chiede accortamente la dolce sposa, più annoiata che rancorosa – la gente parla o dice? E’ un interrogativo che potrebbe sembrare cavilloso, mentre si rivela una sottigliezza linguistica che scava profondamente nell’universo percettivo dei personaggi. Se la gente parla, spende semplicemente qualche parola buttata lì a caso, quasi per accendere la conversazione, se la gente dice, esprime compiutamente pensieri e opinioni che hanno peso e spessore rilevante. Il chiacchiericcio che ruota intorno al fatto, dunque, segue da vicino la dinamica presente in Così è (se vi pare), un formicolìo di frasi e commenti che spingono, anzi costringono, i personaggi pirandelliani che ne sono oggetto a defilarsi o peggio a difendersi, perché le parole possono essere pietre – questo è pacifico – e una volta lanciate prima o poi colpiranno il bersaglio.

Infine quella benedetta pace necessaria per alzarsi e ripartire giungerà proprio dai morti, in parte assolutoria, in parte accomodante, comunque priva dei paventati o consigliati suggerimenti alla violenza e alla vendetta. La vittima – mischina! – comprende bene che nessun atto eclatante o nessun perdono formale può modificare di una virgola la propria condizione, così come la madre dell’assassino – il fango! – pur impegnandosi nella difesa d’ufficio che ogni cuore di mamma riserva al proprio figlio comprende che quell’inutile perdono potrebbe essere la chiave di volta per alleggerire o almeno rendere tollerabile il “dire” della gente.

Un ruolo dunque importante quello affidato alle donne, depositarie di valori immutabili e di atavica saggezza, fulcri risolutori di conflittualità latenti, entrambe pronte a scardinare violenze legate ad abitudini territoriali dure a scomparire. Un ruolo importante che l’autore però attribuisce alle due “morte” con una manovra che tradisce un certo sconforto nei confronti della realtà.

Gli ambienti, nelle scene di Andrea Taddei e nei costumi di Dora Argento, sono caratterizzati da elementi di sdrucito realismo – il quarto di bue penzolante nella carnezzeria, il triste cucinino con pentole nelle quali si finge di cucinare, l’altarino votivo – che sconfinano nel territorio dell’onirico attraverso tele calate dall’alto con nebulosi cieli e desertiche solitudini che sembrano allacciare e tenere ben saldi cielo e terra, fino a definire il surreale luogo/non luogo della commistione finale in cui convergono, senza riconoscersi o distinguersi, il mondo dei vivi e quello dei morti, mondi che in Sicilia sono spesso tenacemente avvinti in una memoria perpetuata fino allo sfinimento. Memoria che si rivela terreno fertile di incontro tra regista e autore, tra Napoli e Palermo, città votate alla modernità senza mai rinnegare le tradizioni.

Non molto incisive le musiche originali di Nicola Piovani che aprono e chiudono i tre movimenti della commedia senza lasciare segni memorabili, giuste le luci di Gaetano La Mela.

Lo spettacolo resterà in scena fino a domenica 27 gennaio.

Agata  Motta

Chi vive giace

di Roberto Alajmo

regia Armando Pugliese

personaggi e interpreti

(in ordine di apparizione)

Marito David Coco

Moglie Roberta Caronia

Padre Roberto Nobile

Madre Stefania Blandeburgo

Figlio Claudio Zappalà

musiche Nicola Piovani

scene Andrea Taddei

costumi Dora Argento

luci Gaetano La Mela

aiuto regia Valentina Enea

produzione Teatro Biondo Palermo

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2019/01/24/la-black-comedy-di-roberto-alajmo-al-teatro-biondo-di-palermo/