Fiction Rai1 “L’amica geniale”, “Blanca”, “Noi”

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La sostenibile seduzione di Rai1

@Agata Motta, 20-04-2022

Al di là delle fisiologiche oscillazioni negli ascolti, la fiction di Rai 1 ha goduto in questa stagione di ottima salute grazie ad un’ampia gamma di offerte in grado di blandire variegati palati. Tra le tante proposte di prima serata, almeno tre meritano attenzione: L’amica geniale, terza stagione, Blanca e Noi, entrambe al debutto.

Chi ha amato la tetralogia di Elena Ferrante, ma anche chi non l’ha mai letta, avrà sicuramente provato l’impulso di accostarsi ad una serie tv che, riprendendo un discorso già avviato con successo negli anni precedenti, continua a non deludere nello spontaneo confronto con l’opera letteraria.

Sarà perché la stessa Ferrante firma la sceneggiatura, in un eccellente lavoro di squadra, insieme con Saverio Costanzo (il regista delle prime due serie), Francesco Piccolo e Laura Paolucci, ma davvero i nuclei tematici fondanti del romanzo si ritrovano intatti e, in questa stagione sottotitolata “Storia di chi fugge e di chi resta”(come l’omonimo romanzo da cui è tratta, che risulta il più ostico dei quattro), il complesso contesto politico-sociale degli anni Settanta e le vicende private di Elena e Lila si intersecano creando un affresco di grande bellezza. Il cambio di regia si avverte appena, Daniele Luchetti mantiene una continuità nei ritmi, nella struttura e nel lavoro già impostato delle brave protagoniste, Margherita Mazzucco (Elena) e Gaia Girace (Lila). La contestata mancata sostituzione delle due giovanissime attrici, che si sono ritrovate nei panni di due donne trentenni, si è rivelata invece una scelta giusta, perché entrambe hanno mantenuto una forza e un’intensità tali da mettere a tacere qualsiasi voce critica.

La storia segue il percorso accidentato di un’amicizia tanto travolgente quanto tossica che si incunea nel malsano rione di provenienza, la Napoli ben conosciuta dalla Ferrante, e nei tanti luoghi di fuga e di rinascita in cui il talento di Elena, ormai divenuta promettente scrittrice, cerca conferma.

Senza dubbio la forza della fiction sta nel sostrato letterario e nell’ottima sceneggiatura, che isola dialoghi perfetti e lavora sul malessere trasversale di generazioni che, pur appartenendo ad ambienti diversi, si nutrono di ideali convergenti. È soprattutto lo sguardo delle donne quello che si posa su istanze sociali che riguardano sì i lavoratori e la coscienza del loro sfruttamento ma soprattutto una nuova consapevolezza intrisa di rancore, rivendicazioni e dolore. Quello che viene rappresentato è un mondo ancora dominato dagli uomini ma filtrato dalla sensibilità femminile che reclama i propri spazi in ogni ambito, compresa la sfera sessuale nella quale è adesso possibile confrontarsi ed esprimere insoddisfazioni. Ed ecco che il dialetto si piega agli usi più diversi: diventa il modo più spontaneo per relazionarsi nel microcosmo del rione, ribolle sulfureo nel grande serbatoio della rabbia sociale o consente di ribadire le proprie origini in ambienti solo in apparenza accoglienti, sempre comunque in netta contrapposizione alla lingua italiana, quella della cultura, del riscatto e della salvezza, la lingua che seduce promettendo cambiamenti e rivoluzioni che restano appannaggio di chi la possiede veramente e si trova nelle condizioni di dirigere e indirizzare quei cambiamenti e quelle rivoluzioni.

Ma tutto ciò potrebbe non bastare per garantire lo spessore di questa fiction se non ci fossero tanti altri robusti interpreti a sostenere l’altissima prova delle protagoniste. Primo fra tutti Matteo Cecchi, uno straordinario Pietro Airota, giovane talento accademico e rampollo di illustre famiglia, che sposerà la combattuta e già esitante Elena decretandone di fatto l’affossamento nel ruolo di moglie e di madre. Immerso nel proprio universo letterario, Pietro crede di poter attuare la sua rivoluzione dalla scrivania domestica e dalla cattedra universitaria, ma non si accorge di quanto essa possa trovarsi lontana anni luce dai fermenti sociali che di altre lotte e di altri strumenti si stanno frattanto dotando. Da una parte esorta la moglie a proseguire il suo percorso artistico dall’altra la vincola a ruoli tipicamente femminili, come se si potesse scrivere un libro nei ritagli di tempo tra un’incombenza domestica e l’altra o tra due maternità subite e non desiderate. Nello sguardo, nella modulazione della voce, nei gesti, Cecchi costruisce un personaggio a tutto tondo con le sue spossanti contraddizioni e riesce a farlo amare nonostante tutto, perché proprio l’amore per la donna che ha scelto di sposare, superando l’enorme divario sociale, è tangibile e pieno di sofferenza.

Buona la prova di Francesco Serpico che interpreta Nino Sarratore, il grande amore di Elena, un uomo apparentemente aperto e incline ad incoraggiare la nuova condizione femminile, ma in realtà spavaldo e impunito seduttore, disposto a qualsiasi bassezza pur di soddisfare i suoi appetiti assai poco moderni e rivoluzionari.

Molto intensi anche Giovanni Buselli nel ruolo di Enzo Scanno, l’amorevole e paziente compagno di Lila, unico personaggio maschile di matura e piena sensibilità, ed Eduardo Scarpetta in quello di Pasquale Peluso, compagno pieno di risentimento e di bisogno di rivalsa che non esiterà a sbattere in faccia all’amica d’infanzia un imborghesimento ritenuto disgustoso. E non ha in fondo tutti i torti, perché Elena, ormai imparentata agli Airota, si prodigherà per denunciare la condizione degli operai nelle fabbriche e per proteggere l’amica devastata dai ritmi lavorativi, ma lo farà ricorrendo alle amicizie dei potenti, all’ala protettiva di una famiglia illuminata e progressista che agisce in soccorso dei deboli dall’alto della propria posizione privilegiata e che usa pertanto proprio quei metodi contro i quali dovrebbe per coerenza lottare.

A Rosaria Langellotto, che interpreta Gigliola Spagnuolo, moglie del boss del quartiere Michele Solara (Alessio Gallo), va un monologo da brivido, quello in cui, con una gelida sofferenza che diviene carne viva e sanguinante, rivela la sconcertante percezione dei corpi femminili del marito e i sentimenti suscitati invece da Lila, unica donna da lui veramente amata e mai posseduta, donna della quale ammira la straordinaria intelligenza con ottuso sbigottimento.

Tutti gli attori (Gabriele Vacis, Giulia Lazzarino, Elvis Esposito, Giovanni Amura, giusto per citarne alcuni) contribuiscono comunque, anche nei più piccoli ruoli, a quell’effetto corale di contrasto e dissonanza che in fondo è la nota peculiare di questa serie.

A restare sottopelle è infine la vibrante malinconia della colonna sonora di Max Richter, eccellente musicista già da tempo prestato al cinema (Valzer con Bashir, Arrival, Venuto al mondo, Perfect sense, La chiave di Sara, The Congress) e alla tv (The Leftovers – Svaniti nel nulla), che riesce a dar corpo alle immagini e sostanza ai sentimenti. Il tema di Elena & Lila è pura emozione.

Si possono dunque perdonare certe piccole cadute, come l’effetto cartolina sullo sfondo dei cambi di ambientazione.

E poi ci sono quelle fiction che, nonostante la volatile aderenza alla realtà, hanno il pregio di predisporre lo spettatore ad una sorta di disponibilità all’accoglienza, di naturale stupore.

È il caso di Blanca, serie poliziesca diretta con cura da Jan Maria Michelini e Giacomo Martelli liberamente tratta dai romanzi di Patrizia Rinaldi, scrittrice napoletana con una notevole esperienza nella gestione e nella cura di ragazzi difficili e pertanto particolarmente adatta all’analisi di situazioni limite e personalità fragili e complesse.

Maria Chiara Giannetta è Blanca Ferrando, una giovane non vedente esperta in décodage, l’ascolto analitico di tutti i materiali audio delle inchieste. Basta perdersi nel suo sguardo perso per constatare che la sua è una superba prova attoriale, basta seguirne il passo incerto, guidato da Linneo, il bulldog femmina divenuto star della serie, per sentire quanto lo spazio, agevolmente abitato dagli altri personaggi, possa essere insidioso e attraente per chi ha scelto di non arrendersi e di inseguire le proprie ambizioni nonostante gli evidenti limiti. Il lavoro d’ufficio, al quale potrebbe validamente contribuire con le sue competenze, le calza stretto, lei vuole immergersi nelle indagini, divenire membro attivo del Commissariato presso il quale lavora come stagista.

Un passato fin troppo tragico, che avrebbe abbattuto anche una quercia, sorregge la necessità di Blanca di giungere alla sorgente del male per snidarlo e affrontarlo a qualsiasi costo. L’omicidio della sorella Beatrice e l’incendio che le fa perdere la vista continuano a martellare i suoi ricordi in flashback sparsi che stuzzicano lo spettatore per il quale non è difficile intuire come in quei ricordi qualcosa si sia inquinato e che la verità processuale su quelle vicende potrebbe non essere la verità dei fatti realmente accaduti. La vocazione per la giustizia, scaturita da quel passato, ha bisogno di continui banchi di prova e i casi, man mano affrontati nelle sei puntate, le offrono l’opportunità di combattere nonostante la diffidenza, se non addirittura il fastidio, che l’ambiente lavorativo le riserva. Le sue armi sono state affilate dalla paziente dedizione di un padre (il valido Ugo Dighero) che ne ha costruito pezzo per pezzo l’autonomia e che la segue a distanza con discrezione per non invadere la fragile indipendenza alla quale comunque la donna è giunta. Per questa tenace e deliziosa creatura l’amore è in agguato, quello che si fa strada con difficoltà nel seducente commissario Liguori (il calibrato Giuseppe Zeno) e quello che si insinua come una serpe velenosa assetata di vendetta in Nanni (Pierpaolo Spollon), personaggio chiave che condurrà alla vera risoluzione dell’omicidio di Beatrice.

Prima serie al mondo realizzata con la tecnica dell’olofonia, che permette di riprodurre il suono in modo simile a come viene percepito dall’apparato uditivo dell’uomo, Blanca è un prodotto ben confezionato, con una buona regia, attori di consolidata esperienza nel settore delle fiction e una complessiva resa di bell’impatto visivo e sonoro. La sceneggiatura talvolta annaspa in situazioni che sfiorano l’assurdo ma più spesso costruisce tensione e si concede qualche battuta di alleggerimento politicamente scorretta sulla disabilità, affidandola al Commissario Mauro Bacigalupo (Enzo Paci), ormai disilluso e allergico alle complicazioni. Sullo sfondo una Genova “con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così” che intriga senza esagerare.

Per quanto suoni fiabesca, l’idea che si possa danzare sotto la pioggia invece di aspettarne la fine (uno dei preziosi insegnamenti paterni) è talmente bella che si può far finta di crederci e sorridere, perché illudersi e sognare sono pratiche sane per chiunque.

Si sono appena conclusi i sei appuntamenti con Noi – remake di This Is Us, popolarissima serie tv creata da Dan Fogelman vincitrice di due Emmy Awards e un Golden Globe – la cui sceneggiatura porta i nomi prestigiosi di Sandro Petraglia, Flaminia Gressi e Michela Straniero. Mettere da parte il confronto con la serie statunitense, che ha già prodotto malumori e recriminazioni di ogni genere, è l’atteggiamento più saggio per accostarsi alla vicissitudini della famiglia Peirò e per lasciarsi trasportare dalle affascinanti debolezze di personaggi dilaniati da conflitti interiori che inevitabilmente si riverberano nelle relazioni affettive.

La vita di Pietro e Rebecca (Lino Guanciale in stato di grazia e Aurora Ruffino, ottima nelle vesti di Rebecca da giovane e inadeguata in quelli della donna matura, complice un trucco inaccettabile), profondamente diversi per collocazione sociale, cultura e ambizioni ma folgorati da un’attrazione reciproca che diventa amore profondo, viene messa alla prova dall’arrivo di tre gemelli. In realtà uno morirà durante il parto e la coppia, con un atto di generosità che rasenta l’incoscienza, porterà a casa ugualmente un terzo figlio attraverso l’adozione di un bambino di colore abbandonato e portato in ospedale da un vigile del fuoco. I tre fratelli crescono insieme creando di fatto una frattura nella giovane coppia, spossata da una genitorialità che risucchia ogni energia e chiude per qualche tempo il sipario sui sogni artistici di Rebecca. Claudio e Cate si aiutano a vicenda, uniti dal viscerale legame spesso presente nei gemelli, mentre Daniele vive alla perenne ricerca di un’approvazione che si trasforma in perfezionismo,

Conosciamo i tre fratelli alle soglie dei trentaquattro anni, con vissuti diversi e problemi che affondano le radici nell’infanzia: Claudio – l’adorabile Dario Aita che imprime un’impronta fortissima e personale ad un ruolo che suona come una sfida – è un attore insoddisfatto che non ha ancora metabolizzato la propria percezione di invisibilità rispetto ai due fratelli più problematici che hanno invece fagocitato le attenzioni dei genitori; Cate – una Claudia Marsicano in perfetta simbiosi con il personaggio ma in maniera incostante – è talmente condizionata dai propri problemi di sovrappeso da non riuscire ad abbandonarsi con naturalezza alla dedizione di Teo – un Leonardo Lidi impeccabile in ogni sfumatura – e si accontenta di impartire lezioni di musica rinunciando a quel talento musicale che potrebbe fare la differenza; Daniele – il bel Livio Kone che non può supplire con la gestualità esasperata alla sdrucciolevole aderenza emotiva di volto e di voce – pur avendo goduto di affermazione sociale e pienezza affettiva, scava nel proprio passato alla ricerca dei genitori naturali per colmare il vuoto percepito sin da piccolo. Con loro entrano in relazione molti altri personaggi, con interpretazioni non esaltanti come quella di Angela Ciaburri (penalizzata anche da battute e psicologia discutibili dettate dalla sceneggiatura) nel ruolo di Betta, moglie di Daniele, o di Timothy Martin in quello di Mimmo, padre naturale di Daniele, che avrebbero invece dovuto dare un contributo determinante alla ricerca di identità del personaggio. Poco incisiva Francesca Agostino nei panni di Sofia, amica d’infanzia di Cate e primo amore di Claudio, più convincente Liliana Fiorelli in quelli di Chiara, attrice egocentrica che condivide con Claudio un difficile debutto teatrale corredato da coinvolgimento sentimentale, altalenante la resa scenica di Flavio Furno (anche lui migliore da giovane e un po’ impacciato da adulto), il Michele amico di Pietro e poi nuovo compagno di Rebecca. Massimo Wertmüller giganteggia nel ruolo del dottor Castaldi, uno di quei medici capaci di trasformare il dolore in distillato di saggezza che chiunque vorrebbe incontrare almeno una volta nella vita. Un plauso va ai fratelli Peirò da piccoli (Francesco Mandolini, Anna De Luca e Girum Felicani) e da adolescenti (Gianmaria Brambillasca, Giulia Barbuto C. Da Cruz e Malich Cisse) che contribuiscono alla creazione di un tessuto familiare solido e veritiero.

Luca Ribuoli, che ha firmato moltissime fiction di successo (La squadra, Don Matteo, La mafia uccide solo d’estate), è attento alla creazione di un contesto italiano (Torino, Milano, Roma e Napoli sono le città di riferimento, ma l’intento rimane parzialmente realizzato) per una storia molto americana nella quale l’identificazione non è immediata, si avvale dell’impegnativo montaggio di Pietro Morana e si affida ad una birichina e assai orecchiabile colonna sonora, il cui brano portante Mille stelle, scritto da Andrea Farri e da Nada (che la canta) sembra solleticare dolcemente le corde dei sentimenti.

I continui flashback, giocati su più livelli temporali, che creano una continua corrispondenza tra passato e presente e che movimentano con un perfetto disegno la linea narrativa, costituiscono l’aspetto più avvincente e tecnicamente ben riuscito di un plot senza grandi colpi scena che spinge sull’acceleratore delle emozioni perché intorno ad esse in sostanza si gioca tutta la partita.

Lo scavo introspettivo, che avrebbe dovuto essere la nota più alta nella rappresentazione del vissuto di ogni personaggio, appare però talvolta diluito per qualche falla nella sceneggiatura (molti dialoghi sono densi e graffianti altri risultano sciatti) e per un livello di recitazione poco omogeneo e compatto che inficia in parte il risultato complessivo.

Se l’intenzione era quella di fare di Noi il prodotto di punta della stagione, qualcosa non ha funzionato perché gli ascolti non sono stati quelli previsti. Sarebbe meglio accoglierlo per quello che invece è riuscito ad essere, un appuntamento domenicale di buona qualità e perfettamente godibile, una parentesi dentro cui racchiudere qualche lacrima e qualche sorriso. Con mille stelle che vengono giù e la ricerca mai conclusa dell’amore.

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“Le vie dell’Eden” di Eshkol Nevo

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Le vie dell’Eden, l’ultimo romanzo di Eshkol Nevo edito da Neri Pozza

@Agata Motta, 03-04-2022

Scritto durante la forzata reclusione della pandemia, Le vie dell’Eden, ultimo romanzo di Eshkol Nevo edito da Neri Pozza, torna alla modalità narrativa già sperimentata in Tre piani e continua la ricognizione delle presunte verità che l’uomo si racconta per non soccombere e delle colpe mai confessate che rendono sanguinosa l’esplorazione dell’Io.

Tre racconti lunghi in cui le vicende di tre personaggi, giunti ad una sorta di resa dei conti con la propria natura e con le proprie scelte, corrono su binari differenti fino a convergere per brevi istanti o in incontri casuali. Persuaso dalla felice esperienza di Tre piani, l’autore segue l’impulso di assecondarne la forza ipnotica e dirompente, ma nel farlo rinuncia all’effetto novità e smussa la solidità dell’architettura della narrazione, resa esplicita e coesa dalla palazzina borghese di Tel Aviv e dal suggerimento delle tre istanze freudiane, del precedente romanzo. Qui invece è la Bolivia, che racchiude in sé i semi della morte e della rinascita, l’esile punto di contatto delle prime due storie, mentre i loro protagonisti entrano di sguincio nel terzo racconto. Freud o comunque la tentazione psicanalitica non sono lasciati fuori dalla porta perché la confessione e la scrittura di sé restano gli strumenti privilegiati di conoscenza.

Gli accadimenti, attraversati da una moderata corrente di inquietudine, sono comunque trascinanti, perché in sostanza ciò che affascina in Nevo non è l’impalcatura che di volta in volta decide di costruire nei propri testi, ma l’indagine condotta su personaggi che si siedono davanti al tribunale della propria coscienza e che, in questo caso, sono chiamati a difendersi da accuse precise e concrete che arrivano inaspettate come frustate su corpi nudi e inermi.

Omri, un giovane musicista, alto e bello come un vichingo, si ritroverà accusato di complicità in un omicidio; il dottor Asher Caro, un anziano primario vedovo e padre di due figli, dovrà difendersi da accuse di molestie sessuali; una donna, testimone della scomparsa del marito, dovrà dimostrare di non esserne la causa.

Nessuno di loro è colpevole, ma, alla luce di quanto raccontano, neanche totalmente innocente. Bisogna dunque individuare il punto di rottura dell’equilibrio, il momento in cui si capisce che niente potrà più essere come prima e lo scavo dei personaggi apparirà di conseguenza proporzionato alla gravità delle accuse.

Omri, durante un viaggio in Bolivia che rappresenta l’esigenza di assestamento interiore dopo un divorzio che gli ha lasciato ricordi agrodolci e una figlia molto amata, vive la brusca svolta durante l’incontro casuale con una coppia in luna di miele attraverso il pericoloso coinvolgimento erotico e affettivo ottenuto dalla giovane sposa divenuta subito dopo vedova; invece il dottor Caro, per comprendere l’attrazione magnetica provata per una giovane specializzanda, deve ripercorrere a ritroso la relazione con la moglie adorata e cercare l’origine di quello che lui interpretava come istinto di protezione in un atto compiuto molti anni addietro e sepolto nella sua memoria. Allo stesso modo, la donna, rimasta sola e scombussolata ad aspettare invano il ritorno del marito scomparso durante la consueta passeggiata nei frutteti, è costretta a scoperchiare ipotetiche responsabilità delle quali rispondere anche ai propri figli.

Per tutti loro il rientro alla normalità, se tale si può definire ciò che ha subito strappi e lacerazioni, potrà avvenire a costo di dolorose rinunce e di una nuova definizione di ciò che può restituire senso alla quotidianità.

La tradizione ebraica da una parte, presente nell’ultimo episodio tramite l’allusione precisa al Pardès, il giardino dell’Eden di cui si parla nel Talmud, e le istanze di diverse generazioni in bilico tra vecchio e nuovo sono vissute con intensità da un autore molto amato che sa rovistare negli agguati e nelle strettoie di pulsioni non domabili, di giustificazioni logiche atte a tacitare i sensi di colpa, di menzogne lucide indispensabili alla sopravvivenza.

Le vie per l’Eden si mostrano con il loro carico di seducenti richiami e sembrano indicare con chiarezza la strada da percorrere, ma qual è l’Eden che i personaggi di Nevo cercano, quello verso il quale tutti gli esseri umani tendono con la speranza di potervi entrare o quello che ci si è lasciati alle spalle senza averlo riconosciuto? Accade spesso di provare rammarico per le cose a portata di mano che non sono state afferrate, per le parole non pronunciate che bruciano in gola come acido corrosivo, per le fughe del cuore che sono state percepite come bisogni insopprimibili, ma se è vero che il tempo non si srotola al contrario è anche vero che prendere coscienza di ciò che non abbiamo visto o compreso aiuta a sintonizzare mente e corpo in direzione di nuove onde emotive.

Come sempre in Nevo, le parole si poggiano semplici e chiare sulle pagine ma senza ombra di banalità, i dialoghi scorrono agili senza il virgolettato, le interrogative dirette piovono fluide senza l’urgenza delle risposte. Per esse è sufficiente la complicità del lettore che determina, tramite la propria empatica adesione, la riuscita del gioco avviato dall’autore. Gioco senza vincitori, come la vita di ogni essere umano in grado di guardarvi dentro senza inganni.

Eshkol Nevo
Le vie dell’Eden
Neri Pozza editore, Vicenza, 2022
pp. 248
€ 18,00

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“Leonora addio” di Paolo Taviani

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Le ceneri di Pirandello. In sala ‘Leonora addio’ di Paolo Taviani

@Agata Motta, 24-03-2022

Unico titolo italiano al Festival di Berlino 2022 e vincitore del premio FIPRESCI, Leonora addio, ultimo lavoro di Paolo Taviani, giunge in sala in questi giorni e si porge come testamento spirituale di un uomo attento alle istanze politiche e alle trasformazioni sociali che non ha mai cessato di confrontarsi con la grande letteratura e di nutrirsene ma, questa volta, ha dovuto farlo con lo sguardo orfano di quello simbiotico del fratello Vittorio, a cui il film è dedicato.

Il ritorno a Pirandello, dopo Kaos e Tu ridi, denota una scelta cosciente e un abbandono fiducioso a quello che sembra essere divenuto un nume tutelare del proprio percorso artistico e probabilmente esistenziale. Immagini d’epoca mostrano la consegna del Nobel nel ’34 e raccontano la percezione dell’amaro di cui è stata impregnata siffatta gloria. Poi, in un bianco e nero voluto come raffinata scelta estetica e valorizzato dalla bella fotografia di Paolo Carnera e Simone Zampagni che ne accentua i contrasti, Taviani racconta la grottesca vicenda del viaggio da Roma ad Agrigento delle ceneri di Pirandello e ad essa aggiunge, tramite un rapido passaggio in dissolvenza al colore, il libero adattamento della novella Il chiodo, scritta poco prima della morte dell’Autore, in cui è narrata l’atroce vicenda di un ragazzo che uccide una bambina (Pirandello si era ispirato ad un fatto di cronaca avvenuto a Brooklyn) senza alcun motivo, spinto dall’ineluttabilità di un destino che deve compiersi. Taviani però non rinuncia ad una delle sue cifre stilistiche e costruisce invece per quell’assassino adolescente un vissuto di emigrazione dettata dal bisogno, riproponendo in tal modo tematiche sociali care e frequentate e regalando frammenti di cupa bellezza.

Il film avrebbe potuto concludersi con la realizzazione delle ultime volontà di Pirandello, il ritorno delle sue ceneri alla campagna natia, e l’aggiunta della novella potrebbe ragionevolmente apparire incongruente e forzata, ma è una sensazione che svanisce in fretta, basta ripercorrere a ritroso le immagini e cogliere le innumerevoli corrispondenze formali e la compattezza del messaggio, basta guardare ai continui contrappunti visivi e tematici all’insegna del doppio pirandelliano che creano un dialogo ininterrotto tra le varie tessere, sproporzionate e difformi, di un mosaico libero da convenzioni filmiche e da necessità diegetiche.

L’onnipotenza capricciosa del tempo, che rapido attraversa i giorni depredandoli delle quotidiane conquiste o fissandone poche ore indelebili nella memoria, si impone subito nella scena onirica in cui le assorte e desolate considerazioni del protagonista/narratore della novella Una giornata divengono quelle dell’Autore malato e allettato in una stanza/scatola di un bianco abbacinante nella quale gli arredi e la porta sembrano sospesi, come sospeso dev’essere il tempo della morte nei brevi istanti in cui se ne respira la presenza e ci si interroga su come sia possibile morire se appena ieri si era ancora giovani.

Io già vecchio? Così subito? E com’è possibile? Già finita la mia vita? Quale amarezza, quale stupore, quale percezione di ingiustizia in queste parole che dal personaggio scivolano all’Autore affinché diventino quelle del regista novantenne in un gioco di specchi che riguarda ogni essere umano.

E torna ancora il tempo, sovrano assoluto, a ricucire con andamento circolare le ultime scene del film in cui si mostra, in rapidissima successione, l’invecchiamento del ragazzo che visita ogni anno, a mantenimento di una promessa, la tomba della piccola Betty dai capellacci rossi, trafitta dal chiodo caduto “apposta” da un carro. I riferimenti all’opera di Pirandello sono così insistiti e fitti che sarebbe sterile elencarli tutti, essi sono spesso affidati a semplici inquadrature, come quelle contenenti il gioco della carriola (che torna due volte a siglare il tempo della partenza della famiglia emigrante e quello della perdizione del ragazzo) che suggeriscono l’intero universo filosofico contenuto nella novella La carriola, o disseminati in maniera bizzarra, come nel caso del falso indizio legato al titolo del film, quel Leonora addio che rimanda ad una novella del tutto assente sotto il profilo narrativo e visivo, ma riconducibile alla funzione salvifica (e foriera di morte) del teatro e del canto. La vicenda stessa della sepoltura dello scrittore si trasforma in ottima occasione narrativa che Taviani compone pirandellianamente con tocchi grotteschi e umoristici. Ne sono esempi lampanti le sequenze della processione per le vie della città con la piccola bara che contiene le ceneri di un gigante o della partita di “Tressette col morto” giocata in treno.

Ma il regista non dimentica di omaggiare anche film particolarmente amati (Paisà, LAvventura, Estate Violenta, Il bandito, L’Amore Difficile, Il sole sorge ancora, l’autocitazione di Kaos), ne prende in prestito alcuni spezzoni e li innesta nel proprio percorso narrativo per descrivere gli eventi che coprirono il tragico decennio, tra la morte e la riesumazione delle ceneri dello scrittore (1936/46), in cui la guerra e la Resistenza sconvolsero il Paese. Prendono quindi avvio le peregrinazioni del delegato del Comune di Agrigento (un persuasivo Fabrizio Ferracane dallo sguardo dolce e determinato) con le ceneri racchiuse in una cassetta: dapprima il rifiuto del superstizioso pilota americano di volare con un morto a bordo e poi il lungo viaggio in treno al quale Taviani imprime un andamento di pura poesia. Un’umanità da poco uscita dalla guerra, con i volti segnati dalla fame e dalla povertà, appena sbozzata come in certe pagine di Elio Vittorini, si mostra timida e speranzosa in un viaggio di ritorno alle proprie radici o di nuovi inizi, e persino nel ballo non ci sono sorrisi e allegria ma la semplice presenza di una vita che vuole riappropriarsi del suo monotono e tranquillizzate passo.

Che le opere di Pirandello siano state così tanto frequentate dal grande schermo è un fenomeno curioso se consideriamo che il rapporto tra lo scrittore e il cinema, com’è noto, fu piuttosto complesso e contraddittorio. Già il romanzo Si gira del 1916, poi ripubblicato nel 1925 con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore, aveva esplicitato il curioso fascino e il forte turbamento che il nuovo mezzo espressivo esercitava sullo scrittore che talvolta collaborava persino alle sceneggiature altrui o consentiva l’adattamento per lo schermo, non senza perplessità e malcontenti, di sue novelle o romanzi.  Si arrivò al paradosso nel 1930, quando dalla novella In silenzio venne liberamente tratto il primo film sonoro italiano La canzone dell’amore diretto da Gennaro Righelli. Pirandello si era pubblicamente esposto in diverse occasioni con pareri trancianti sul sonoro e il suo ideale di film era stato da lui racchiuso nel concetto di “cinemelografia”, cioè una pellicola che avrebbe dovuto puntare sulla vista e sull’udito in un’unica esperienza immersiva fatta di immagini e musica.

Paolo e Vittorio Taviani

Vero è che poi tornò ancora sull’argomento esprimendosi in maniera meno rigida e più conciliante, ma è probabile che Paolo Taviani, nel tornare all’amato autore, abbia voluto avvicinarsi a quella visione puramente sensoriale, costruendo un film in cui la sceneggiatura è ridotta a ordito essenziale fatto di parole dense e ricche di impliciti, mentre il fluire lento delle immagini si compenetra delle musiche di Nicola Piovani con tenace adesione. Persino nella scena stilisticamente stridente della lite tra le due bambine, anch’essa avvenuta “apposta” come la caduta del chiodo, le parole scompaiono per lasciare il posto ad uno scontro feroce ed epico, con inquadrature fisse, oltre le quali debordano i corpi rabbiosi, o con campi lunghi che sembrano accogliere tori schiumanti nell’arena o gladiatori in attesa che l’imperatore (nel caso specifico il ragazzo assassino interpretato efficacemente da Matteo Pittiruti) ne determini la sorte.

Taviani non sembra cercare in questo film unanimi consensi, chissà quanto poco possa importargli, si limita a consegnare le proprie considerazioni sul Tempo e sulla Morte con un disordine apparente dal quale affiorano rapide intuizioni e limpide visioni. Ha accanto a sé il ricordo del fratello e il genio di un classico. Possono bastare.

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“Donna sulle scale” di Bernhard Schlink

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Ritratto di donna scomparsa: esce per Neri Pozza “Donna sulle scale” di Schlink

@Agata Motta, 24-01-2022

Acclamato e blandito dalla critica che lo ha definito “un filosofo-scrittore”, Bernhard Schlink ha consegnato ai suoi lettori l’ultimo romanzo Donna sulle scale, edito da Neri Pozza.

Questa volta però l’unanime consenso che gli è stato tributato non convince e non sembra pienamente condivisibile. Sarà per la disomogeneità qualitativa o per l’infelice scelta di un argomento non certo originale o per lo snodarsi di vicende che vorrebbero creare suspence e curiosità senza però riuscire nell’intento, ma in sostanza le prime vere emozioni giungono quando la narrazione sta per concludersi.

Una profonda cesura tra un prima e un dopo rispetto all’evento centrale – la scomparsa di una donna e del quadro che la ritrae – cristallizza gli eventi come se tutta la vita che ha continuato a scorrere in mezzo fosse stata soltanto un’ampia parentesi, come se dalla risoluzione di quel giallo a lungo accantonato dipendesse la riformulazione di esistenze in qualche modo spezzate o quantomeno condizionate da quelle scomparse.

Un meccanismo narrativo che era già stato magistralmente collaudato da Schlink, con ben altri esiti, nel romanzo evento del ’95 Il lettore: anche lì esistevano un prima e un dopo, anche lì una donna scomparsa riemergeva dal passato, anche lì interrogativi che aspettavano di essere soddisfatti e il dubbio terribile di essere soltanto vittime di un errore del destino. Ma nel romanzo che ha giustamente entusiasmato la critica e dal quale Stephen Daldry ha effettuato la trasposizione cinematografica The Reader, con Kate Winslet e Ralph Fiennes, il valore aggiunto alla storia della passione di un adolescente per una donna adulta era dato da un’indagine sul periodo oscuro e psicologicamente irrisolto per il popolo tedesco dell’avvio alla normalizzazione dopo la scoperta degli orrori della Shoah.

Ancora oggi Il lettore si configura come una riflessione acuta, lucida, drammatica ed eticamente coinvolgente sulla colpa e sulla responsabilità, è la messa a nudo di azioni nefaste compiute durante la follia collettiva del nazismo, è l’analisi delle ripercussioni di quella follia sulle nuove generazioni che si sono ritrovate sulle spalle il fardello di genitori coinvolti a diverso titolo nella più grande vergogna della storia contemporanea. E poi vi giganteggia l’amore per la lettura che intacca la dura scorza della donna, affetta da un analfabetismo tenacemente nascosto che è simbolo di analfabetismo affettivo. Da questo amore giunge la spinta ad un gesto che vorrebbe essere risarcitorio nei confronti di una delle vittime sopravvissute alla strage di cui la donna si era macchiata. Prima però, nell’immobile silenzio del carcere, si era dovuto compiere il piccolo miracolo della lenta consapevolezza del male compiuto.

Forse proprio per questo, il nuovo romanzo di Schlink delude, forse è proprio da un istintivo e involontario confronto che scaturisce l’insoddisfazione.

Esili personaggi, tronfi, ciascuno a suo modo, del proprio successo professionale, tre uomini – un industriale, un artista, un avvocato – innamorati della stessa donna, si affrontano in un duello verbale e in una successione di azioni spesso moralmente discutibili. Lei invece, che dell’industriale è la giovane moglie, dell’artista la recente amante e dell’avvocato la folgorazione amorosa, si sottrae a tutti perché non vuole essere né un trofeo, né una Musa, né una principessa da salvare. E come darle torto? Restare ingabbiati in una forma che non si è scelta non è esattamente il massimo delle aspirazioni per nessuno e non può esserlo per Irene, bella, giovane e con spiccate aspirazioni ad una libertà di cui non conosce ancora il volto con precisione, ma che ha sembianze vagamente somiglianti alla ribellione.

Al centro della storia dunque un bellissimo quadro – l’autore si sarebbe ispirato ad un dipinto del ’66 di Gerhard Richter intitolato Ema (Nudo su una scala) – che ritrae l’oggetto del desiderio in posa sensuale ed enigmatica: nuda, un piede sospeso nell’atto di scendere il gradino, la testa un po’ china, lo sguardo assorto e quasi rassegnato.

Quadro che a distanza di decenni ricompare all’Art Gallery del teatro dell’Opera di Sidney come un amo gettato nel mare del tempo trascorso con la certezza di tirarlo su con grossi agguerriti pesci, perché l’idea di sanare una sconfitta è ammaliante quanto il canto di una sirena.

Il primo ad abboccare è l’avvocato, all’origine complice involontario di quella scomparsa, che è anche la voce narrante, il meno coinvolto ma il più curioso e il più fragile. L’uomo, del quale non conosceremo mai il nome ma dal quale riceveremo le più aperte confessioni, ormai vedovo e padre di figli adulti, aveva intravisto nella bella Irene la possibilità di salvezza da una vita che si prospettava perfettamente inquadrata, razionale, solida ma tristemente grigia, il fulmine a ciel sereno che avrebbe potuto aprire al fascino irresistibile del punto interrogativo alla fine di ogni giornata, la donna che avrebbe potuto amare nel modo giusto, il modo in cui le donne si aspettano di essere amate. L’uomo, che sentiva di non essere mai stato giovane, si era illuso di poter finalmente indossare la propria età per cominciare a vivere attraverso lei. Ma la vita non sempre tiene conto dei progetti e passa veloce e voltarsi indietro può significare soltanto l’impossibilità di un recupero e la piena coscienza di un rimpianto. Ambivalente sentimento che si rivelerà comune all’avvocato-narratore e agli altri due uomini, ma con una sostanziale differenza: l’avvocato attraverso il quadro cerca la donna; i suoi rivali di un tempo attraverso la donna cercano il quadro, perché tornare in pieno possesso dell’opera significa per l’industriale collezionista fermare il tempo e bloccare nella giovinezza della donna la propria e per l’artista acclamato custodire la più bella opera della propria produzione.

Inutile dire che i tentativi dell’ex marito e dell’ex amante andranno a vuoto, mentre il mesto viaggio a ritroso del narratore avrà un epilogo diverso e in qualche modo compensatorio pur nella sua brevità. Così quel futuro sognato con Irene, che diviene per qualche pagina soltanto una fantasia da raccontare, si porge come la parte più autentica del romanzo, quella che risuona della potente nostalgia e amarezza del non vissuto.

Nessuna simpatia per questi uomini bambini che tentano rabbiosi o compiacenti di impossessarsi dei loro giocattoli del cuore, nessuna simpatia neppure per Irene che però ha tentato un riscatto morale a costi altissimi, più intensa e reale da vecchia e malata che da giovane e bella. L’anziano avvocato, pedante e serio, tutto ragione e calcolo, solo al novantesimo minuto si libera dalla perfetta impalcatura che ha retto le sue scelte conformiste. Dopo aver compreso che l’amore non è solo desiderio ma anche prendersi cura della persona amata, acquista finalmente un suo spessore e solo a quel punto viene voglia di rivolgergli un sorriso.

Da tanta pervicace passione, da tanto rancore, da tanta ossessione però si sprigiona un alito freddo – caratteristica in verità comune a tanta letteratura tedesca – che produce nel lettore lo strano effetto di una fiamma alta cui si avvicini la mano lateralmente: il calore non arriva, il fuoco non riscalda. E neanche il linguaggio, piano, neutro, senza guizzi particolari, controbilancia il materiale non pregevole della narrazione che invece sa farsi diamante nei capitoli finali, quando la mano si sposta sulla fiamma fino a sentirne finalmente l’ustione.

Bernhard Schlink
Donna sulle scale
Neri Pozza editore, 2021
18,00 €

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“È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino

Cinema, Saggistica breve, Paolo Sorrentino, È stata la mano di Dio

È stata la mano di Dio: una psicanalisi catartica

@Agata Motta, 08-01-2022

Con È stata la mano di Dio Paolo Sorrentino apre un capitolo intimo e doloroso della propria vita e lo consegna senza reticenze al grande pubblico come in una liberatoria seduta di psicanalisi necessaria per riesumare fantasmi non pacificati dell’adolescenza. Non stupisce che abbia vinto a Venezia il Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria – né che sia stato selezionato per rappresentare l’Italia agli Oscar 2022 nella sezione “miglior film internazionale”, perché il tratto è felice, la storia delicata, i dialoghi intensi, la recitazione compatta e pregevole, l’ambientazione spruzzata d’affetto, come sempre avviene negli esuli volontari che tornano nei luoghi amati con un carico oscuro di lucida nostalgia.

Giunto fugacemente sul grande schermo per poi passare allo streaming (avallando il perverso meccanismo di agonia del cinema in sala), il film oltrepassa le immagini opulente e le grottesche implicazioni sociopolitiche de La grande bellezza per concedersi uno sprofondamento nei territori noti e battuti delle dinamiche familiari, del disorientamento giovanile, della scoperta delle ipotetiche promesse del destino, dell’esplorazione delle possibili scelte da compiere, della presa d’atto di un patimento devastante che dev’essere scoperchiato e attraversato perché la vita possa continuare a scorrere.

La famiglia Schisa, che è sostanzialmente quella del regista, si muove nella Napoli degli anni Ottanta folgorata dall’arrivo del pibe de oro. È una famiglia come tante, con piccole gioie e sottaciuti tormenti, e lo spettatore impara a conoscerla attraverso lo sguardo limpido del protagonista Fabietto (la focalizzazione, quasi sempre interna e fissa, coincide quindi con quella del regista) alle prese con gli esami di maturità e con un futuro troppo incerto per poter essere atteso con placida curiosità.

Ad una prima parte solare, chiassosa e corale, con molte concessioni al repertorio tipico della commedia napoletana, in cui attori di consumata bravura si esprimono con spontanea naturalezza, si contrappone la seconda, più sussurrata, raccolta, introspettiva, inevitabilmente giocata sulle tappe, talvolta brusche e improvvise altre lente ed impercettibili, che porteranno il colto e taciturno Fabietto – un delicato e tenero Filippo Scotti che ottiene per questa interpretazione il Premio Marcello Mastroianni alla 78ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia – all’emersione dalla coltre d’acqua che rischiava di farlo annegare con il suo strazio di orfano. Acqua che è anche il mare azzurro e straordinario della panoramica d’apertura del film, mare frequentato durante un’infanzia e un’adolescenza affollate di parenti, vicini di casa e conoscenti che costituiscono un’imperdibile galleria di tipi umani che da soli valgono l’intero film.

Al centro la frattura di una duplice morte assurda – i genitori di Sorrentino sono deceduti insieme a causa di una fuga di monossido di carbonio – che coglie di sorpresa come un pugno in pieno volto e che infligge al figlio il dolore aggiunto del permesso negato dai medici dell’ospedale di poter vedere un’ultima volta i genitori morti. E sarà proprio il ricordo martellante di questo commiato sottratto, tirato fuori dal regista mentore Antonio Capuano (Ciro Capano tra il cinico, il paterno e il nichilista) e urlato al mare, la cosa da raccontare, l’episodio degno da consegnare al cinema, il dolore vero dentro il quale raschiare.

Cast in stato di grazia, dunque, diretto da Sorrentino con la consueta cura maniacale, in cui brilla senza offuscare gli straordinari colleghi l’ormai sodale Toni Servillo nel complesso ruolo di Saverio Schisa, marito non proprio esemplare ma sinceramente innamorato della moglie Maria, padre che elargisce perle di saggezza spicciola con la disinvoltura dell’amico scafato, granitico comunista sedotto dalla vita e dalle sue infinite tentazioni, eterno bambino costretto a forza in abiti adulti.

A Teresa Saponangelo è affidato il compito perfettamente assolto di scivolare nel sorriso dolce, nella risata contagiosa e nelle crisi di rabbia (che migrano, attraverso un cordone ombelicale mai reciso, sull’esile corpo del figlio preso da convulsioni durante quelle crisi) di Maria, madre amata con la forza disperata che si rivolge agli affetti strappati, alle figure che nel ricordo assumono un’aura di luce destinata a riverberarsi negli atti e nei pensieri quotidiani.

Luisa Ranieri è la struggente zia Patrizia, richiamo erotico e amore giovanile da proteggere, donna bellissima affamata d’amore e ossessionata dalla mancata maternità che paga un tributo altissimo al marito (efficace Massimiliano Gallo), accecato dal dubbio che la moglie si prostituisca, anche per aver detto la verità (il berretto a sonagli della follia di Pirandello insegna) sul proprio incontro con San Gennaro (un lestofante cui Enzo De Caro dona la credibilità dei suoi candidi occhi azzurri) e con “o munaciello” della tradizione popolare.

Betti Pedrazzi è una superba baronessa Focale, tocca a lei la sequenza più discussa del film, quella dell’iniziazione al sesso del giovane Fabietto, che si concretizza nel dono di una donna anziana senza più sogni ad un ragazzo spezzato dal dolore, un espediente per rimetterlo in sintonia con la vita dopo l’esperienza della morte, un passaggio scabroso, certo, ma sobrio e dolcissimo, in cui l’impossibilità di sedurre con il corpo avvizzito è sostituita dalla potenza perturbante dei gesti e delle parole e dalla magia della finzione.

Biagio Manna, nel ruolo di Armando, è il contrabbandiere dal cuore tenero che svelerà il senso dell’amicizia al solitario Fabietto attraverso la condivisione di una notte spensierata e manigolda nella Napoli poco frequentata dai bravi ragazzi e nello squarcio notturno e deserto di una Capri scenario di apparizioni felliniane, come quella di Kashoggi che si accompagna ad una giovane donna, deludente metafora della triade assoluta dei desideri umani: ricchezza, giovinezza e bellezza. E infine Dora Romano, nei ridicoli e amari panni della superba e altezzosa signora Gentile, l’unica capace di porgere al funerale, come parole di condoglianze, una terzina dantesca tragicamente pertinente, quella che riporta la scritta sulla porta di accesso all’Inferno, la porta che Fabietto ha appena varcato con il suo lutto.

Le parole più delle immagini cuciono la trama, quelle parole così importanti per il Sorrentino sceneggiatore e narratore anche, anzi soprattutto, quando sono poche, scarne, essenziali. Quasi a voler rimarcare il legame tra narrativa e cinema, Sorrentino attinge, per alcuni divertenti aneddoti di famiglia, ad alcuni suoi precedenti libri – i racconti racchiusi in Tony Pagoda e i suoi amici e il romanzo Hanno tutti ragione – che, come acutamente nota il critico Nicola H. Cosentino, “possono essere considerati una specie di incubatrice del regista, una prima stesura di qualcosa che in futuro avrebbe trovato posto nel cinema”.

E davvero certe parole restano scolpite in mente, come quella pronunciata da Marchino (lo scanzonato Marlon Joubert), il fratello di Fabietto, mentre guardano insieme gli allenamenti di Maradona: “perseveranza”, si chiama così ciò che ha reso una divinità il ragazzo argentino in cerca di riscatto. La perseveranza, quella che Marchino comprende di non possedere nei suoi tentativi di fare l’attore, quella che invece bacerà la fronte di Fabietto.

È stata la mano di Dio a salvare Fabietto, questa almeno l’interpretazione dello zio Alfredo (Renato Carpentieri che non lesina la propria solida esperienza teatrale) di quella circostanza fortuita che ha fatto preferire al ragazzo una partita del Napoli in cui rifulge l’astro di Maradona ad un fine settimana nella casa di Roccaraso con i genitori. È stata la mano di Dio, si potrebbe aggiungere, a guidarlo nelle intricate traiettorie che avrebbero potuto trasformarsi in labirinti se fossero state percorse da passi instabili.

Il treno si allontana da Napoli verso la città eterna con lo sguardo fiducioso del protagonista che ascolta in cuffia Napul’è di Pino Daniele. Una città nel cuore e un’altra nella mente.

Com’è andata a finire è sotto gli occhi di tutti.

È stata la mano di Dio

Data di uscita: 24 novembre 2021

Genere: Drammatico, Biografico

Anno: 2021

Regia: Paolo Sorrentino

Attori: Filippo Scotti, Toni Servillo, Teresa Saponangelo, Luisa Ranieri, Renato Carpentieri, Massimiliano Gallo, Betti Pedrazzi, Ciro Capano, Enzo Decaro, Carmen Pommella, Biagio Manna, Lino Musella, Alfonso Perugini, Sofya Gershevich, Paolo Spezzaferri, Rossella Di Lucca, Antonio Speranza

Paese: Italia

Durata: 130 min.

Distribuzione: Netflix

Sceneggiatura: Paolo Sorrentino

Fotografia: Daria D’Antonio

Montaggio: Cristiano Travaglioli

Produzione: The Apartment Pictures

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“L’aviatore” di Evgenij Vodolazkin

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L’enigma dell’esistenza ne ‘L’aviatore’ di Evgenij Vodolazkin, ed. Brioschi

@Agata Motta, 10-12-2021

Sono duri, spietati, tristi i romanzi di Evgenij Vodolazkin eppure di una bellezza gelida e assoluta che non concede tregua. Leggere le pagine di questo straordinario autore russo, noto in Italia soprattutto per Lauro, si rivela un’esperienza edificante che non lascia addosso l’argento ossidato dell’inquietudine ma una leggera patina di consapevole nitore esistenziale. Le sue storie grondano amore e passione, assorta contemplazione e commosso stupore di fronte ad ogni piega della vita, nonostante la lucida distanza che la voce narrante, spesso sfrangiata in una pluralità di punti di vista appartenenti a diversi personaggi, mette tra sé e il mondo descritto.

Da filologo e studioso di medievalistica in Lauro (di cui ci siamo già occupati in queste pagine) Vodolazkin aveva fatto della Russia del XV secolo lo scenario in cui far muovere Arsenio, orfano cresciuto con il nonno, guaritore, folle in Cristo, monaco, immenso personaggio spinto dal senso di colpa a raggiungere i vertici più alti della propria ricerca spirituale.

Con L’aviatore, scritto nel 2016 ma giunto in Italia nel 2019 grazie all’editore Brioschi, l’autore sposta la sua indagine storica ed umana al secolo breve. Si concentra in particolare sui primi decenni, quelli attraversati dalla rivoluzione bolscevica, con la sua valenza di utopia imposta con la violenza, e dalla stabilizzazione staliniana, nella sua accezione totalitaria, per passare poi con un brusco salto all’anno finale, il 1999, scelta sicuramente simbolica in quanto voce ormai esangue di un millennio in agonia. Nell’ampia porzione di secolo omessa, il protagonista, Innokentij Petrovic Platonov, non c’era o sarebbe più corretto dire non ha vissuto. Platonov nasce all’inizio del secolo e si ritrova ancora giovane alla fine. È stato congelato e si risveglia dopo più di mezzo secolo. Elucubrazioni fantascientifiche si potrebbe subito obiettare. Sì, impossibile negarlo, il presupposto è oggettivamente fantascientifico, ma il romanzo si dispiega con un realismo impeccabile e, a ben guardare, l’apparente forzatura dell’ibernazione è solo un’ipotesi scientifica non ancora realizzata, una seducente frontiera che in tanti cercano di raggiungere con gran dispendio di risorse economiche e intellettive.

Al risveglio in un ospedale di Pietroburgo, il malconcio eroe di un’atroce sperimentazione avviata in epoca staliniana nei gulag delle remote isole Solovki (luogo adesso di spettrale bellezza per gli intrepidi visitatori), si ritrova senza memoria e quindi senza quelle coordinate indispensabili alla ripresa della vita quotidiana. Il dottor Geiger e una presunta infermiera lo aiutano con trepidante apprensione a riprendere contatto con la realtà senza rivelargli nulla della sua agghiacciante esperienza ma porgendo indizi atti ad accendere barlumi di coscienza.

Sulle acque morte della sua memoria cominciano a galleggiare immagini dell’infanzia e dell’adolescenza, volti, odori, nomi, sensazioni e soprattutto il sentimento amoroso nei confronti di una ragazza, Anastasija, vittima come tanti di una dittatura che faceva della delazione uno strumento di potere e della cieca obbedienza al sistema un obbligo ineludibile. Il ritrovamento di Anastasija, ormai vecchissima e demente, consente ad Innokentij di riappropriarsi di un sentimento, grottesco per la differenza di età e ovviamente privo di qualsiasi prospettiva futura, necessario nel proprio personale percorso di riappropriazione della vita.

Quale vita, ci si potrebbe chiedere, quella antecedente la grande frattura fisica e interiore del congelamento o quella successiva al risveglio? In entrambe Innokentij è un naufrago come il Robinson Crusoe più volte citato, in nessuna sembra trovare una collocazione soddisfacente. L’identità sfugge e si modifica, sollecitata da ricordi filtrati dalla distanza temporale ed emotiva e dalla nuova prospettiva aperta dall’essere divenuto un caso mediatico, un fenomeno da osservare, intervistare, sfruttare anche sul piano pubblicitario con appetibili contratti, tra cui quello paradossale che lo vuole testimonial di un’azienda di surgelati.

Il destino mette sulla sua strada la giovane omonima nipote di Anastasija e, attraverso lei, il tempo, che non può riavvolgere il suo nastro, concede un nuovo inizio, un nuovo amore che si nutre del precedente e sembra da esso generato. Pian piano riaffiorerà anche la memoria legata ai campi di lavoro e alla lotta per la sopravvivenza che cederà presto il posto al desiderio della morte come unica speranza di sollievo, come unica via per far cessare i tormenti fisici e il logoramento psicologico. La possibilità di diventare un “lazzaro”, una cavia da laboratorio programmata per la resurrezione, viene colta infatti al volo, per qualche mese si sarebbe aperta una parentesi di vita simile a quella del bestiame ben pasciuto per il macello, alla boccata d’aria dell’annegato. Se Innokentij sia finito in quella lurida sacca priva di umanità da omicida, come recita l’accusa, o da calunniato, come appare, è un particolare che lentamente si svelerà alla coscienza dell’uomo sempre più affievolita dai disturbi fisici legati all’anomalia della sua condizione. “Da dove comincerò a piangere le azioni della mia vita maledetta?” Le parole del Grande canone penitenziale incontrano il pensiero dei grandi padri della letteratura russa, Puškin e Dostoevskij, così colpa e innocenza, vendetta ed espiazione cammineranno tenendosi per mano, tutto apparirà filtrato dal tempo e da una sorta di tiepido abbandono. Persino l’incontro con il decrepito aguzzino Voronin, che ribadisce la sua assenza di pentimento e manifesta solo una blanda curiosità per il prodotto di un esperimento ben riuscito, non alimenta odio nella vittima ma apre un varco in cui insinuare una semplice constatazione: quando non c’è più cattiveria né rimorso, l’anima sprofonda nel sonno.

La statuetta di Temide, che tanto aveva turbato i sogni infantili di Innokentij, sarà uno dei pochi oggetti di quell’epoca lontana ad essere ritrovato a casa della giovane Nastja. Da sempre ha la bilancia rotta, ciò che rappresenta è una giustizia guasta che non ripara nonostante la carica seduttiva che ne sprigiona. Ma la giustizia, in ogni tempo, è un affare tutto umano. Solo Dio ha il potere di cambiare l’ordine della natura, se vuole.

Dal confronto tra le due estremità opposte del XX secolo scaturiscono anche tante pagine leggere e venate di ironia in gradevole dissonanza con l’orrore narrato invece in modo asciutto e levigato.

Lo spaesamento legato all’approccio con il mondo tecnologizzato, con il linguaggio mutato dall’inserimento di neologismi (soprattutto gli anglicismi dichiaratamente poco amati dall’autore), con le diverse consuetudini sociali rende il personaggio tenero ed irresistibile, un alieno da fumetto con grandi capacità di adattamento e spiccato senso dell’umorismo.  Ed è proprio qui, nella terra di nessuno tra il prima e il dopo, che il titolo, apparentemente legato ad una poesia e, in modo esile, ad un gioco infantile condiviso con il cugino, si carica di un significato pieno e affascinante: la vita di un risorto, vicino alla scadenza come un alimento, non può che essere guardata dall’alto.

Come il compianto aviatore Frolov, Innokentij sorvola il nuovo mondo in cui si è risvegliato, dall’azzurro senza crepe del cielo il punto di osservazione cambia totalmente, la distanza si fa amica e concede saggio disincanto, mentre il dettaglio deve assolutamente essere messo a fuoco, le piccole cose insignificanti nel comune sentire devono essere recuperate e consegnate alla memoria dei posteri con un certosino lavoro di scrittura in fondo non troppo lontano dalla professione che il ragazzo Innokentij avrebbe voluto svolgere, quella del pittore. La vita si può dipingere o raccontare e l’uomo intraprende entrambe le vie per fissare ciò che scivola tra le dita senza lasciare traccia, per bloccare l’enigmatico senso dell’esistenza tramite descrizioni atte ad ancorare e a sostanziare quell’assurda combinazione di minuzie e di eventi chiamata vita. E lo fa per una figlia in arrivo che probabilmente non conoscerà mai.

Non ha senso scrivere di grandi avvenimenti, di quelli ne verrà a sapere comunque. Le mie descrizioni dovranno riguardare qualcosa che nella storia non trova posto, ma nel cuore rimane per sempre.

È questo il ruolo della memoria individuale? Non è il solo affascinante interrogativo posto dall’autore che chiama a riflettere sull’azione del singolo nella storia collettiva e su quanto un determinato contesto storico-politico possa incidere sul senso morale dell’individuo.

L’unica certezza che possiamo ricavare è che quanto di bello e di profondo accade tra gli uomini non necessita di definizioni ma soltanto di cura e di dedizione. L’unica certezza è il miracolo dell’amore in tutte le sue forme.

Evgenij Vodolazkin

L’aviatore

Brioschi Editore

20,00 €

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Madres paralelas di Pedro Almodovar

Madres paralelas di Almodovar: tra maternità, destino e memoria collettiva

@Agata Motta 02-11-2021

Alla maternità come conflittualità mai sanata, come forza creatrice e tornado distruttivo, come evento destinato a segnare nel bene e nel male la vita di una donna ha rivolto il suo sguardo penetrante Pedro Almodóvar che, con Madres paralelas, ha aperto la mostra del cinema di Venezia presieduta dal coreano Bong Joon-ho. Ed è una coincidenza che piace sottolineare questa della presenza dei due grandi maestri che si incrociano a Venezia, perché anche l’acclamato regista premio Oscar per Parasite aveva messo a fuoco la relazione madre-figlio – in una modulazione torbida e viscerale – nell’inquietante Madre, presentato a Cannes nel 2009 ma giunto nelle nostre sale soltanto la scorsa estate. Storie, atmosfere e recitazioni diversissime con un unico elemento comune: non c’è niente di semplice nell’essere madre, non c’è niente di normale in questo affare tutto femminile in cui l’uomo può anche non esserci.

La travolgente Penelope Cruz, che ha conquistato la coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile, infonde determinazione, forza e bellezza al personaggio di Janis, un’affermata fotografa quasi quarantenne, impegnata in una battaglia civile per la conservazione della memoria storica legata ad un oscuro capitolo ancora aperto della guerra civile spagnola. Una fossa comune, di cui tutti nel suo paese d’origine conoscono l’ubicazione, contiene le ossa del suo bisnonno e dei tanti altri desaparecidos catturati dai falangisti in una tragica notte di luglio. Proprio dall’uomo che le apre una prospettiva concreta per l’apertura della fossa, Arturo, seducente antropologo forense interpretato con millimetrica precisione da Israel Elejalde, Janis riceve l’inatteso dono della gravidanza che vive con grande gioia pur nella consapevolezza che la bambina non avrà un padre. Arturo, infatti, è sposato e la moglie è in chemioterapia, cosa che lo induce a non abbandonarla e a ventilare la possibilità dell’aborto a Janis. Ad affiancare senza alcun affanno la Cruz, una giovane attrice rivelazione dagli immensi occhi chiari, Milena Smit, che sintetizza con sorprendente maturità interpretativa il percorso accidentato e complesso di Ana, adolescente dallo sguardo perso e ferito da una doppia ingiuria, quella dell’indifferenza di genitori che la tollerano e la considerano un inciampo alla carriera e quella di una gravidanza che è conseguenza di eccessi alcolici e di uno sporco ricatto sessuale.

Le due donne si conoscono in ospedale ormai prossime al parto. Entrambe sono single e non hanno cercato la gravidanza, ma, mentre la prima vive il momento con entusiasmo, la seconda manifesta malessere e pentimento. E non potrebbe essere diversamente: il concepimento per Janis è stato gioioso, spontaneo e appagante, per Ana invece è stato forzato, innaturale e predatorio. Potrebbero sembrare esse stesse madre e figlia, perché Ana è assetata di quelle attenzioni che non ha mai ricevuto e Janis è lieta di fornire a quella madre/bambina ciò di cui ha bisogno. Ma il loro rapporto, che potrebbe concludersi dopo quelle poche ore di condivisione e di attesa, prenderà una direzione inattesa e conoscerà altre intese. Il destino (ma è davvero proprio soltanto il destino?) le farà incontrare ancora: uno scricciolo ferito a morte che tenta di ricominciare a vivere attraverso l’indipendenza economica e una donna matura che custodisce una menzogna insopportabile. Resteranno insieme ma come coppia, con una bambina da accudire (sì, una soltanto) e un affetto che cresce nella complicità e nella tenerezza. Le grandi bocche fameliche tanto care al regista si incontreranno per baci e parole che pretendono più di una semplice convivenza nella stessa casa, più del reciproco aiuto di due single in difficoltà organizzative.

Dopo Dolor y gloria, gioiello introspettivo e film necessario come personale percorso terapeutico, Almodóvar mantiene in Madres paralelas il rigore e la misura tanto distanti dalla sua prima cinematografia – arruffata, eccessiva e dissacrante – e conserva un equilibrio, visibile persino nelle scelte dei colori e delle ambientazioni, che giova alla pulizia del discorso narrativo e alla compiutezza di un registro registico che appare, in questa fase di maturità artistica, estremamente persuasivo.

Torna, e in questo si riconosce la consueta cifra stilistica dell’autore, l’addensarsi dei fatti, alcuni assai improbabili, quasi bizzarre forzature, che si riverbera negli accadimenti interiori di vite che continuano a scorrere tra verità sottaciute che deviano il corso degli eventi. Tutto in Almodóvar è vita concreta e pulsante, le gioie e le grandi tragedie convivono e si tengono a braccetto senza mai suggerire la rinuncia, unica vera colpa di cui non macchiarsi. Un ottimismo di fondo guida sempre la fantasia creativa del regista madrileno, una luce, che coincide con le varie declinazioni dell’amore, che sorregge e orienta personaggi feriti che non vogliono rassegnarsi a sopravvivere. Succedono molte cose in Madres paralelas dopo l’apparente quiete del primo tempo, ma persino gli accostamenti più inverosimili (una su un milione la probabilità di morte in culla, una su chissà quante quella dello scambio di neonati in ospedale) nelle sue sceneggiature sembrano disinvolti e naturali. Fatti, dunque, fatti assai personali che incontrano fisicamente la storia collettiva nella bellissima sequenza finale in cui un piccolo corteo, di impianto pittorico, porge omaggio alle ossa dei propri antenati, ossa che, in una breve, folgorante visione ridiventano gli uomini di un tempo. Si è figli di una donna, sempre, e si è figli della propria terra, sempre. Un unico grembo partorisce le piccole storie degli individui e la grande storia delle nazioni.

Tornano i luoghi del cuore, la città con i suoi ritmi frenetici e il paese con i suoi tempi dilatati e sospesi, come in Dolor y gloria, e sembra quasi che Almodóvar voglia riprendere un discorso non concluso per dilatarne i confini, per passare dal particolare all’universale, dal dettaglio della propria vicenda personale al campo lungo della storia e dei conti irrisolti con il franchismo e con il debito contratto con i desaparecidos. E in questo passaggio si inserisce la tematica della differenza generazionale che determinerà una grande frattura emotiva tra le donne quando Ana mostrerà disinteresse per eventi lontani da cui non si sente minimamente sfiorata. Ma Ana appartiene appunto alla generazione della memoria informatica a breve termine, del sesso che può assumere le sembianze mostruose del revenge porn, della coscienza sociale che latita se non alimentata.

Tornano gli spazi concessi al teatro, luogo per eccellenza di verità e finzione, e i lunghi monologhi incastonati come gemme nella sceneggiatura che apre un varco al palcoscenico e alla riflessione sul mestiere dell’attore. Qui è la splendida Aitana Sánchez-Gijón, la madre attrice di Ana, a bucare lo schermo, sia quando irrompe nella stanza d’ospedale per annunciare il successo di un provino prima ancora di informarsi della salute della partoriente sia quando esprime la sua vera essenza – piacere a tutti – nel magnetico primo piano che conduce all’ascolto di quel provino che attinge alla magia di García Lorca. Eccola la madre senza istinto materno, una sorta di anti-madre che sceglie la carriera ma che avverte la lacerazione della sua scelta e la condanna negli occhi della figlia. Si può essere madri senza entusiasmo, quasi per dovere e anche questa è una forma di tragedia, perché copione vuole che una madre sia felice di esserlo, a qualsiasi costo.

Tornano i volti di attrici care al regista: Julieta Serrano, come in Dolor y gloria in una breve ma vibrante interpretazione, è una donna ormai vecchia e vicina alla morte che desidera riappacificarsi con il proprio passato di figlia di uno scomparso; Rossy de Palma è la donna in carriera che procura a Janis i servizi fotografici da effettuare ma è anche l’amica del cuore, tanto vicina e coinvolta da suscitare la gelosia di Ana.

Torna a brillare l’universo femminile per il desiderio di indipendenza, per la capacità di lottare, per la predisposizione alla comprensione, e in esso si inserisce la limpida figura di Armando, che si avvicina alla realtà di puro istinto, che spiana lentamente il suo futuro in modo propositivo e, secondo la sua logica, leale.

Sulle vorticose esistenze dei suoi personaggi, che convivono con le proprie colpe e i propri dilemmi morali, Almodóvar non posa mai uno sguardo indagatore e snuda le coscienze senza mai giudicare perché esistono sempre delle valide motivazioni alla base di gesti, parole, scelte. E se anche non esistessero, il regista si limiterebbe a guardare e a riprendere la vita che gli scorre accanto.

Sui resti identificati dei desaparecidos e sul volto inconsapevole di una bambina si posa l’amore, l’unica vera cerniera tra il passato e il presente, l’unica soluzione onnicomprensiva ai capricci della vita.

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La rappresentazione di Romana Petri

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Il ritorno della famiglia Dos Santos. “La Rappresentazione”, nuovo romanzo di Romana Petri

@Agata Motta 09/09/2021

Un tempo le rappresentazioni erano sacre, con il loro corredo di significati simbolici e di intenti didattici per la moltitudine incolta, ma già la filosofia ne aveva fatto terreno privilegiato di indagine con interpretazioni fertili e continuamente plasmabili. Ma non sono le varie accezioni filosofiche ad intrigare Romana Petri nel suo recente romanzo La rappresentazione (l’ultimo della saga portoghese che comprende il magnifico Ovunque io sia e il malinconico Pranzi di famiglia), edizione Mondadori, quanto piuttosto quegli elementi in un certo senso teatrali che si biforcano in una duplice direzione: quella della rappresentazione del sé per gli altri, con quei brandelli di certezze che fungono da argine o da approdo quando la ricerca della propria identità annaspa e si frastaglia conducendo a derive esistenziali, e quella della rappresentazione del sé per sé stessi con la creazione di un’immagine rassicurante che possa placare ansie e dubbi e contemporaneamente lenire dolori antichissimi e recenti.

Per i lettori della Petri questo romanzo è un ritorno in famiglia, la famiglia Dos Santos, già seguita e amata nei due romanzi precedenti, e un ritorno nei luoghi cari all’autrice, scorci e dettagli di un Portogallo remoto, carezzevole, fascinoso, dolce ma patinato di nostalgie. Portati via dalla morte i personaggi scomodi e bizzarri (lo schizofrenico zio Humberto e il donnaiolo nonno Manuel Ramalhete), due posti in meno da occupare negli insostenibili ed imbarazzanti pranzi di famiglia ormai ridotti all’osso, la scena è tutta per i tre fratelli – i gemelli Vasco e Joana e la sorella maggiore Rita – per il loro ingombrante padre Tiago, uomo arrogante che ama esibire la propria ascesa politica ed economica,e per la nuova acquisita Luciana Albertini, moglie di Vasco e artista vicina all’apice del successo.

Le relazioni interne della famiglia, già guastatesi con la morte di Maria do Ceu, inarrivabile madre coraggiosa e struggente del primo romanzo, si spezzano quasi del tutto dopo la mostra della Albertini in cui i membri della famiglia del marito vengono ridicolizzati e i freschi sposi sono costretti a trasferirsi nella Roma della Garbatella in cui la vorace artista va a caccia di altre aspirazioni con l’inseparabile Barabba, anziano cane quasi umano (un Osac più domestico e saggio, per i lettori de Il mio cane del Klondike) in grado di dialogare con la padrona con sguardi assai significativi e sempre complici.

Ma l’amore, più di ogni altra cosa, è esso stesso rappresentazione: come mostrarsi all’altro? Nei propri lati migliori e seducenti o in quelli più oscuri e misteriosi? E non sarebbe meglio essere sé stessi? Forse sì, ma bisognerebbe sapere con certezza chi siamo stati, chi siamo adesso e chi saremo in futuro.

Il passato di Vasco (e in parte quello della gemella) è tutto racchiuso in un grumo corrosivo di rabbia e di rimpianto per una madre che ha fatto della cura della primogenita sfortunata Rita (nata con il volto sfigurato e costretta a subire decine di dolorosissimi interventi chirurgici) il proprio credo, fino al punto di rendere gli altri due figli invidiosi di quella deformità che assorbiva tutte le attenzioni e le energie materne; il presente è occupato da quella piccola donna geniale che è entrata nella sua vita come una folata di vento rigenerante e, in un angolino appartato della mente, dal sogno, sorgente e agonizzante, dell’apertura di una galleria di travolgente successo; il futuro è ovviamente un’incognita per tutti, ma su Vasco è semplice effettuare previsioni, perché nel pantano stagnante in cui si muove con indolenza gli unici sassi gettati ad incrinarne la superficie sono quelli di un cucciolo di gatto di cui innamorarsi perdutamente (la versione felina e giovane del vecchio Barabba su cui regnare da sovrano incontrastato) o quello costituito dalla voce da sirena della sorella gemella, amata in maniera morbosa, che lo calamita a sé con la speranza di spezzare lo scomodo legame con la moglie italiana che ha infangato la famiglia e con quella di ottenere finalmente l’attenzione e la gratitudine paterna.

L’amore, dunque, si diceva, l’amore dall’aperto sipario in cui recitare per sé stessi e per l’altro.

Così mentre la Albertini (quasi sempre chiamata per cognome dalla voce narrante in un sopravanzo di rappresentazione) indossa il suo cliché artistico con leggerezza e convinzione interpretandolo fino a farlo suonare falso e istrionico, il bellissimo Vasco dalla malconcia dentatura (che non mostra mai per non appannare la propria alta considerazione estetica) studia diversi copioni alla ricerca di un ruolo da protagonista senza trovarne nessuno adatto alle proprie esigenze di vita comoda e lussuosa a ridottissimo dispendio di energie. Il richiamo della terra d’origine è sempre più forte, come quello della gemella Joana, che ha dovuto subire l’onta del tradimento del marito (presto restituita al mittente) nonostante la perfetta bellezza, e dell’odiato padre Tiago, detto il “Dinosauro” per il suo autoritario conformismo, che possiede l’innegabile pregio di un portafoglio sempre gonfio di denaro e di carte di credito cui poter attingere dopo essersi umiliati a dovere.

Tra tutti i personaggi scolpiti dalla Petri svetta, per puntualità di analisi e capacità introspettiva, Vasco, riconducibile alla moltitudine di inetti della letteratura primonovecentesca (o, se vogliamo andare più lontano, il riferimento d’obbligo è Oblomov del russo Ivan Aleksandrovič Gončarov) fratello nel “sentire” la vita e le sue lusinghe di Mattia Pascal e parente stretto nella percezione delle proprie inadempienze di Zeno Cosini, un mix irresistibile di narcisismo e autocommiserazione in costante lotta con le schiaccianti figure del padre (ed ecco fare capolino ancora Italo Svevo e un po’ di Franz Kafka) e della moglie che rappresenta il porto materno da una parte e la fonte perenne di invidia mal repressa dall’altra.

Talvolta sembra quasi che la Albertini funzioni più come polo oppositivo del marito che come personaggio a sé stante e tutte le stravaganze compiute per “esigenze di identificazione” – calarsi nel personaggio di Teresa d’Avila, in una sorta di applicazione del metodo Stanislavskij nel campo artistico, e percorrerne quasi le impronte per dipingere dei quadri sulla santa – non la rendono più autentica. E in questa direzione non aiuta neanche il proposito, ad un certo punto non più perseguibile per motivazioni superiori, di uccidere chi ha causato la morte dell’amato padre. Quelli che avrebbero dovuto essere i suoi punti di forza, lo sguardo candido e privo di malizia, l’amore assoluto per l’arte, l’indulgenza nei confronti del marito francamente un po’ cialtrone, la rendono quasi un’aliena, tanto che la coalizione dei Dos Santos contro di lei, che, come acutamente nota Joana, non hanno bevuto le sue “pose” artefatte ed esibite, sembra quasi un necessario (quanto immorale) atto di epurazione nei confronti del “diverso perturbante”. Ed è quasi un paradosso, perché il personaggio della Albertini ha una sua dichiarata fonte di ispirazione nell’omonima artista perugina amica dell’autrice e se da un parte ciò rende perfettamente credibili i tortuosi percorsi mentali di elaborazione dei dipinti, grazie ai quali il lettore viene risucchiato dal processo creativo, dall’altro stride l’adesione all’immagine in fondo scontata di artista un po’ matta ma geniale che si delinea senza strappi o evoluzioni. Evoluzione invece presente e ben articolata quando sotto il riflettore non è più l’artista ma la donna innamorata e poi delusa, infine pronta ad una ripartenza che contiene già in sé un’eco del perduto amore.

Superata la fase della rabbia e forte del calore ancor presente emanato dal privilegio dell’abnegazione materna, Rita invece continua a piacere e a convincere nell’affetto discreto dispensato ad una famiglia che sostanzialmente la tollera, nella gestione oculata del suo denaro, nella consapevolezza che quel poco di bene che le arriva è una concessione della vita e non un diritto, nella rinuncia a qualsiasi compenso risarcitorio nei confronti di una natura per lei tragicamente matrigna.

La limpida scrittura della Petri rende compatta la partitura narrativa che si snoda senza mai incespicare e spinge il lettore ad inoltrarsi velocemente tra le pagine. Talvolta torna su temi e motivi già esposti con piccole modulazioni, perché anche nella vita vera ciascuno possiede pensieri ricorrenti ed ossessioni che costituiscono nuclei importanti della personalità e pezzi ineliminabili di un vissuto talvolta indigesto.

A conclusione di questo lungo, avviluppante percorso nella trilogia della Petri, non ce ne vogliano gli altri personaggi, ci piace conservare la tua immagine, Maria do Ceu, che guardi e sorridi da lontano carezzando il volto martoriato della tua Rita. Ovunque tu sia.

Romana Petri
La rappresentazione
Mondadori 2021
Pagine: 408
€ 20,00

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Danteide di Piero Trellini

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Il succulento stivale dantesco. ‘Danteide’ di Piero Trellini, Bompiani editore

@ Agata Motta (28-07-2021)

Cosa si potrebbe scrivere sul Sommo Poeta senza rischiare di sembrare ripetitivi, banali, pretenziosi? Come tirare fuori dal cappello qualcosa di originale dopo le migliaia di pubblicazioni che  hanno esplorato e interpretato ogni riga della sua produzione letteraria?

Impresa impossibile, anzi quasi impossibile, perché in  Danteide, un’opera edita da Bompiani per la quale appaiono improprie e limitative sia la categoria del romanzo che quella del saggio, Piero Trellini, giornalista e già autore Mondadori con La partita. Il romanzo di Italia-Brasile, riesce a parlare di Dante quasi senza parlare di Dante, o meglio – come lo stesso autore spiega – prova “ad accantonare la sua vita e ad esplorare il mondo in cui, per poco più di mezzo secolo, quella vita ha abitato”.

Dante è un uomo eccezionale vissuto in un contesto storico altrettanto eccezionale: quello universale dello scontro tra le autorità supreme – papato e impero – e quello italiano della emergente realtà comunale che vuole imporsi su quella feudale con tutto il suo corredo di re, papi e imperatori pronti a fiondarsi sul succulento stivale. Già il titolo rimanda all’epica e Dante stesso, nell’immagine che di sé fornisce al lettore, vuol porgersi come personaggio epico (“superdante” lo definisce Trellini), in qualche modo si autocelebra nell’eccezionalità di un viaggio che la grazia divina non avrebbe potuto concedere ai comuni mortali.

Il testo si apre in modo bizzarro con il ritrovamento, avvento nel 1865, sesta ricorrenza del centenario dantesco, di una cassetta contenente le ossa di Dante e si dilunga sul delirio di analisi e misurazioni che privilegiano la scatola cranica, il magnifico contenitore di cotanto ingegno. Si ipotizza il peso del cervello e si compara a quello di uomini comuni o di altri personaggi illustri, i luminari dell’epoca si aggirano indaffarati intorno ai preziosi resti mortali del sommo poeta e infine si concede ad essi la definitiva sepoltura nel luogo destinato già da secoli: la basilica di San Francesco a Ravenna. Ridata pace alle spoglie, Trellini si avventura nella minuziosa – maniacale per la verità – ricostruzione del contesto storico, sociale, politico, economico, climatico che precedette la nascita di Dante e di quello coevo all’infanzia, alla giovinezza e all’età adulta, con un’ovvia incursione nella biografia di Beatrice e Gemma Donati, le due donne, quella angelicata e quella reale, che segnarono la vita poetica e quella quotidiana del poeta.

Gemma Donati

Trellini si aggrappa a tutto quanto abbia un fondamento di realtà, dagli studi scientifici alle testimonianze dell’epoca, dalle cronache agli annali, dai rogiti ai testamenti, dai memoriali alle fonti iconografiche per un totale di 4953 documenti in un continuo e sinuoso intersecarsi di materiali eterogenei (l’elenco bibliografico è tanto lungo e argomentato da costituire un capitolo a sé stante), che a suo parere risultano più veritieri e attendibili delle scarne notizie sulla vita dell’Alighieri che in realtà manca di una robusta documentazione. Manovrare una mole tanto vasta di informazioni talvolta nasconde insidie dalle quali Trellini non riesce a sfuggire totalmente e alla lunga alcune pagine si fanno pesanti e l’elenco infinito di nomi, scontri, battaglie, vendette, matrimoni combinati, parentele crea confusione, l’attenzione del lettore si sforza nel mantenere compatto il filo di una narrazione che divaga, si apre a digressioni tortuose per poi tornare al nucleo centrale e non sempre giova la maestria nell’alternanza di periodi complessi o estremamente scarni o il sottile velo di ironia di cui spesso è intriso il linguaggio, talvolta semplice e scorrevole altre altisonante e dal lessico desueto. L’autore intuisce la possibilità di confondere il lettore e introduce i brevi capitoli con qualche ammiccante riga riassuntiva o addirittura con ampi e dettagliati schemi che potrebbero vagamente somigliare alle mappe concettuali di scolastica memoria. In moltissime pagine sembra quasi che ci si allontani dal punto di partenza e che nel parlare dei personaggi che ruotarono intorno a Dante e alla Commedia si finisca con l’emarginare proprio Dante, che, come sottolinea Trellini, è l’oggetto dell’indagine “in quanto uomo nel suo tempo”. Ma è proprio questo il fascino del testo, la sua specialissima peculiarità che lo rende ghiotto agli appassionati che possono trovarvi infinite sollecitazioni intellettuali.

Forti e molto coinvolgenti appaiono infatti i capitoli dedicati ai personaggi immortalati nella Commedia, come Sordello, Farinata degli Uberti, Federico II, i membri della famiglia Donati, il conte Ugolino, Bonagiunta Orbicciani, Bonconte da Montefeltro, Carlo d’Angiò, Corradino di Svevia, Costanza d’Altavilla, Bernardo di Chiaravalle (l’inventore della “licenza di uccidere” concessa ai Templari attraverso la teoria del malicidio) e moltissimi altri, uomini e donne giunti a noi attraverso i versi danteschi dei quali emerge il complicato e talvolta rocambolesco vissuto da cui il poeta ha consapevolmente isolato segmenti, intrisi di giudizi morali connessi alla propria concezione politica ed etica, quei segmenti che meglio si prestavano al disegno globale dell’opera o all’edificazione della propria immagine da consegnare ai posteri. A dominare su tutto la caparbia volontà di un’affermazione letteraria che doveva sembrare al Poeta urgente e assolutamente legittima.

Bellissimi e intriganti appaiono i capitoli dedicati alla nascita del dolce stil novo, con il riferimento a studi autorevoli che riportano all’eresia catara (mai citata e condannata nella Commedia) e alla relazione creata tra poeti che usando un linguaggio metaforico forse non alludevano all’amore per una donna ma per un’idea impossibile da rivelare al mondo senza pagarne le conseguenze estreme, alla battaglia di Campaldino e alla figura tutta umana del milite Dante, all’ingresso nella vita politica segnato dalle figure di Giano della Bella e del maestro Brunetto Latini, alle costanti difficoltà economiche che determinarono alcune scelte e alcuni passi altrimenti non compiuti, alle origini delle discordie tra Cerchi e Donati, alla forte influenza delle fonti islamiche nella struttura della Divina Commedia, all’ultima difficile missione che gli costò la morte per malaria. E poi ancora, i capitoli resi persino divertenti da un sarcasmo sparso a piene mani come sale sull’insalata sugli intrallazzi che portarono all’elezione dell’eremita Pietro da Morrone al soglio pontificio con il nome di Celestino V e quelli sullo scellerato e megalomane successore – in realtà costruttore della propria  elezione – Bonifacio VIII.

Danteide non aggiunge molto alle conoscenze sin qui acquisite, ma dalla combinazione di tutti i materiali consultati e sviscerati, dal loro armonioso comporsi in quadri straripanti ma perfettamente coerenti al disegno generale, dal tono semiserio della narrazione emanano uno spudorato e mai compiaciuto amore per il Poeta e un piacere giocoso e allegro per il complesso e innovativo metodo utilizzato. La sensazione netta è che Trellini abbia molto studiato senza mai rinunciare al divertimento, che abbia inventato un suo personale e gratificante modo di intrattenersi con la pandemia (il libro è stato redatto durante i lunghi periodi di isolamento e moltissimo materiale è stato consultato in rete) che, a differenza di quanto invece è stato fatto da moltissimi scrittori ripiegati sull’interiorità e sugli effetti del virus nelle relazioni umane, ha aperto le porte al mondo, affollato e brulicante di fatti e persone che quasi sentiamo respirare, e al tempo, srotolato nella direzione di un passato lontano che percepiamo vivo e pulsante.

La grande storia e le vicende personali di un uomo che farà grande agli occhi del mondo la letteratura italiana si intrecciano in modo sorprendente come fili di ragnatela fino all’esilio, punto di snodo senza ritorno, senza il quale probabilmente la Divina Commedia non sarebbe mai nata.

Dopo la condanna Dante non sapeva dove andare e la sua vita era perduta: ma ormai aveva con sé tutto ciò che gli occorreva. Era nella sua testa.

Piero Trellini

Danteide

Bompiani editore

20,00 €

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Patria di Fernando Aramburu

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Lo struggimento dell’ultima volta. Patria di Fernando Aramburu

@ Agata Motta (16-06-2021)

Uno sparo come tanti, un attentato dell’ETA come tanti, una notizia come tante, di quelle che fanno tendere le orecchie per pochi minuti, provare uno spasmo di compassione per la vittima e poco dopo abbassare la saracinesca dei pensieri con un’alzata di spalle su un evento che non è il primo e, si dà per scontato, non sarà l’ultimo.

Quello sparo è il fulcro narrativo sul quale Fernando Aramburu, apprezzato scrittore spagnolo, fa ruotare la preziosa partitura di Patria, edito da Guanda e insignito di numerosi premi tra cui lo Strega Europeo 2018, un romanzo straripante e contenuto allo stesso tempo che mette a fuoco la lunga parentesi del terrorismo indipendentista basco e la sua conclusione con uno sguardo assorto e accorato che stringe in un unico abbraccio vittime e carnefici come se fossero parte di una stessa incandescente materia, pedine di un gioco dell’oca che non prevede traguardi da raggiungere ma un continuo avanzare ed indietreggiare sul cartellone geopolitico di uno dei capitoli più sanguinosi e controversi della storia recente. Un unico abbraccio che non ha un sapore risarcitorio o assolutorio, a seconda della parte in causa su cui si concentra l’indagine emotiva, ma che indica una precisa volontà di fusione tra esseri umani che parlano orgogliosamente la stessa lingua e che vivono un unico dolore esacerbato dall’odio, che mostra la strada dell’incontro, del perdono e della reciproca comprensione nonostante le oceaniche distanze che hanno consentito e nutrito una guerra fratricida. Aramburu rifugge dall’uso di facili espedienti atti a suscitare empatie e consensi, ma si limita a registrare in modo asciutto situazioni e stati d’animo, torna più volte, come in una sequenza cinematografica riproposta con variazioni talvolta appena percettibili, su quello sparo e sulle conseguenze devastanti che avrà sulle due famiglie coinvolte: quella del Txato, il piccolo imprenditore restìo a piegarsi del tutto alle sconcertanti ed esose richieste di finanziamento della lotta armata, e quella dell’amico fraterno Joxian, padre del terrorista coinvolto nell’attentato. I mondi, un tempo convergenti e in perfetta armonia, dei protagonisti si allontanano all’improvviso, polverizzati dall’eco insostenibile di quello sparo, dilaniati da ragioni opposte e da polverosi silenzi che pesano sulle coscienze come zavorre senza possibilità di redenzione. Un breve riposo pomeridiano, un caffè riscaldato, un saluto frettoloso, pochi passi e lo sparo. Gesti semplici e quotidiani che si caricano dello struggimento dell’ultima volta: l’ultimo riposo, l’ultimo caffè, l’ultimo saluto, gli ultimi passi e il penoso carico delle parole non dette, degli impegni sospesi, dei progetti non più realizzabili, dei sentimenti pudicamente dominati che dopo vorrebbero urlare a gran voce la propria intensità.

Dopo la bizzarra parentesi de Il trombettista dell’Utopia, romanzo che indaga sulle relazioni familiari – un’ossessione intima per Aramburu –  sulle ambizioni frustrate e sulle opportunità che possono presentarsi all’improvviso come inaspettate alternative di vita, lo scrittore, che da tempo vive in Germania, con Patria esplode come un bengala nel buio della notte raggiungendo vertici artistici di rarissima intensità. Aramburu ha avvertito l’esigenza di esplorare il proprio universo di appartenenza territoriale attraverso una ricerca minuziosa e puntuale di fonti e informazioni con la consapevolezza sempre presente di riaprire crepe dolorose su un terreno tanto arido quanto friabile e ferite mai sanate in chi quel periodo ha vissuto con costante sconcerto o con fiduciose attese di riscatto. E vi ha innestato, senza nasconderlo, tantissime occasioni di riflessioni universali che il lettore, grato, non può non cogliere ed apprezzare.

La narrazione si snoda in capitoletti che avanzano nel tempo per poi tornare indietro in flashback per lo più germogliati da associazioni emozionali, flashback che ripropongono spesso gli stessi fatti ma offerti da differenti punti di vista per coglierne  il diverso riverbero nelle coscienze dei personaggi. Intrigante ed efficacissimo risulta il linguaggio semplice e pulito – paratattico o più articolato in ritmi sempre diversi, quasi una sinfonia – che passa dalla prima alla terza persona nello stesso breve capitolo, anzi, attraverso uno stupefacente miracolo sintattico, nello stesso periodo e il lettore avverte come una piccola intrusione del personaggio che reclama la possibilità di esprimersi senza l’intermediazione del narratore esterno, di testimoniare piuttosto che delegare ad altri il racconto delle proprie percezioni, di ricostruire attraverso la  propria personalissima ottica le angosce senza fine del lutto e della colpa, di ripercorrere instancabilmente gli attimi che hanno determinato lo stravolgimento di tante vite.

Anzitutto quelle di Bittori, la vedova, e di Miren, la madre del terrorista, entrambe figure indimenticabili di gigantesca statura: la prima impegnata in una caparbia ricerca di verità irta di insidie sentimentali, la seconda incaponita in un amore materno viscerale che non sente ragioni e che non si piega neanche all’evidenza della violenza; la prima, tentata in gioventù dalla religione e dalla vita monastica, se ne allontana, perché non può esistere un Dio che consenta il Male o che lo contempli con indifferenza, la seconda nutre i suoi deliri di una spiritualità che sconfina nella superstizione, dialoga con i santi e con un anziano sacerdote in grado di individuare giustificazioni al sangue versato nella lotta. Tutti comunque saranno risucchiati da quello sparo – i figli della vittima e i fratelli del terrorista – tutti condizionati irrimediabilmente da quell’attimo che imprimerà una sterzata brusca e decisiva a percorsi apparentemente piani e senza ostacoli. Xabier, oppresso da un senso di responsabilità che gli impone la cura premurosa per la madre vedova, diverrà uno scialbo medico votato al lavoro, con una relazione amorosa che non saprà mantenere e la tendenza a trovare conforto nell’alcol senza però divenire alcolizzato; la sorella Nerea, coccolata e molto amata dal defunto padre, non presenzierà nemmeno al suo funerale, stritolata tra il desiderio di mantenere intatta nella memoria la solare immagine paterna e il timore delle conseguenze che potrebbe avere il suo essere figlia di una “vittima del terrorismo” sui nuovi amici di Saragozza. E poi ci sono gli altri, gli ex vicini di casa, gli ex compagni di gioco: Arantxa, che assisterà impotente alla dissoluzione della sua straordinaria bellezza dopo un ictus paralizzante, l’unica in grado, nonostante la malattia, di tessere incessanti trame di riconciliazioni, e Gorka, l’introverso fratello minore che farà della scrittura in lingua basca la sua personale forma di affezione alle radici e che riuscirà lentamente a rivelare alla tradizionalissima famiglia la propria relazione omosessuale. Ognuno insomma reagirà a modo proprio, con la rimozione, il silenzio, il vitalismo, l’ostinazione, la rinuncia, la fuga, ognuno cercherà risposte analgesiche senza necessariamente avere la fortuna di trovarle.

Impossibile resistere alla tentazione di restituire per  immagini  personaggi così vivi e storie così travolgenti, per cui è sembrato del tutto naturale trasformare le pagine  in una serie tv, disponibile (in spagnolo) in streaming in otto episodi che presto potrebbero approdare anche in Italia.

Bisognerebbe dimenticare la Patria, se essa significa odio e violenza, e ricordare di appartenere al Mondo. O forse basterebbe guardarla da lontano e con occhi nuovi, cercare di comprenderla senza giudicare, leggerne le contraddizioni senza lasciarsene travolgere, amarla senza comode indulgenze. Bisognerebbe avere la capacità di accettare un evidente dato di fatto: oggi la Patria non può più essere quel romantico concetto ottocentesco che ha fatto insorgere popoli e sventolare bandiere, oggi la Patria dovrebbe coincidere con lo Stato al quale sentiamo di appartenere, con la casa interiore da portare sulle spalle come le chiocciole, con il luogo dello spirito più che con quello del corpo. Senza dimenticare la propria lingua (o meglio ancora il proprio dialetto), gli autori che hanno cementato un comune sentire, la musica che ha accompagnato fantasie bambine e pensieri adulti, i paesaggi che continueranno a popolare i ricordi, il languore del nostos che rende l’uomo una splendida, fragile creatura.

 

Fernando Aramburu

Patria

Guanda Editore, 2017

€ 19,00

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