Faust di V. Pirrotta

L’Inferno ovunque. ‘Faust’ di Marlowe al Teatro Biondo di Palermo

La vicenda dell’eroe negativo e della sua eterna dannazione contenuta ne La tragica storia del Dottor Faust di Cristopher Marlowe godette di grande notorietà sulla scene per poco più di una cinquantina d’anni a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, almeno finché il gretto moralismo dei puritani non chiuse i battenti ai teatri. Il Novecento, passando ovviamente per la più nota e letta ripresa goethiana, ha tributato nuovamente grandi onori all’autore e non sono stati pochi i registi e gli attori che hanno voluto cimentarsi con il delirio di onnipotenza e di onniscienza che hanno reso Faust un personaggio estremamente complesso e affascinante.

E anche molto simpatico, diciamolo senza remore. Se persino un poeta come Dante, di ferreo rigore morale, aveva ammirato nel suo Ulisse, dannato e ridotto a lingua di fuoco per l’agire fraudolento, questa sete inestinguibile di sapere, non può stupire che l’attrazione magnetica per i temerari che spingono sempre più il là l’asticella del traguardo da raggiungere, costi quel che costi, si sia perpetuata e rinvigorita attraverso i secoli. L’uomo contemporaneo, sostenuto da una scienza di matrice positivista e sempre più lontano da ipotetiche remore morali, del mito faustiano è ovviamente intriso fino al midollo e l’andare oltre è assurto a valore assoluto, oltre la natura, oltre la malattia, oltre la vecchiaia, oltre la morte, a dispetto della saggia lezione di moderazione e misura proposta da altri grandi del passato.

Prodotto dal Teatro Biondo, Faust ovvero arricogghiti u filu, sanguigna e densa rilettura del testo di Marlowe operata da Vincenzo Pirrotta, inaugura degnamente la stagione nella sala Strehler dello stabile palermitano e si colloca nella giusta dimensione di un’ulteriore riflessione sull’argomento, attuale oggi come lo era già stato secoli addietro.

Nell’accostarsi al testo, Pirrotta ha operato una drastica scrematura, ha agito, espellendole, sulle parti legate alla dispersiva congerie dei tanti interlocutori del protagonista, sul racconto delle beffe operate ai danni dei potenti della terra, sulla processione dei peccati mortali, e ha ricomposto, questa volta con devota fedeltà, uno spartito drammaturgico per poche voci, quelle necessarie a tracciarne il tormentoso percorso.

Pirrotta dirige egregiamente se stesso e l’ottima Cinzia Maccagnano – nei ruoli di Mefistofele e Lucifero – firma scene e costumi e imbandisce un banchetto infernale dalle atmosfere fortemente caratterizzate da pochi oggetti di scena pregni di significato e dalle musiche originali di Luca Mauceri che costruiscono un itinerario sonoro di grande suggestione parallelo a quello interiore del personaggio.

Nella preziosa scansione del dialetto ritmico che ormai Pirrotta indossa come una seconda pelle, Faust incarna la voluttà del libero arbitrio e sguinzaglia la sua ambizione, quella che gli farebbe mordere, senza esitazione e come novello Adamo, il frutto dell’albero della conoscenza. Al sapiente Faust non bastano più le vette altissime della filosofia, della teologia e della medicina, forse ridare la vita ai morti… questo sì potrebbe essere un vero traguardo! Allora l’esoterismo e l’evocazione delle forze del male saranno l’ultimo tentativo praticabile per placare il bisogno di ricchezza e di potere, per soddisfare la vocazione al divino attraverso la negazione del Divino stesso.

Dall’Angelo buono e dall’Angelo Cattivo, lo specchio illuminato d’azzurro e quello solcato dal rosso posti alle estremità destra e sinistra del proscenio, giungono i suggerimenti per la via della salvezza e per quella della perdizione, ma Faust ha già fatto la sua scelta nel momento in cui ha percepito gli angusti confini del vivere umano, nel momento in cui ha capito che essi non avrebbero mai potuto contenere il suo bisogno d’assoluto. Neanche l’ombra di tristezza che attraversa il viso di Mefistofele, quando rievoca il dolore per l’impossibilità di godere della visione divina e quando ribadisce l’esistenza dell’inferno come condizione possibile in ogni luogo e in ogni momento, può convincerlo a desistere.Ventiquattro anni da trascorrere con l’alleanza di Lucifero e dopo l’anima potrà essere consegnata al signore delle tenebre. Tanto non esiste una vita dopo la morte, cosa dovrebbe temere Faust?

Il patto deve essere firmato col sangue e Pirrotta porge una soluzione scenica di grande effetto, perché vomita materialmente quel sangue che non vuole sgorgare, che si coagula in un raccapricciante segnale di avvertimento seguito dal rinnovato appello alla fuga di una voce interiore ancora vigile. Quella voce che sopravvive in un roco rantolo di pentimento, in un’invocazione che suona ormai blasfema viaggiando sulle vibrazioni acustiche alle quali Pirrotta ha abituato il suo pubblico.

Ma la discesa è già iniziata e prenderà la forma di un’ascesa gloriosa veloce come un battito di ciglia, perché a questo infine si riducono i lunghi ventiquattro anni di godimento pattuiti con Lucifero.

Cinzia Maccagnano, che unisce alla padronanza recitativa belle movenze da danzatrice, traccia la via della tentazione e dei suoi tentacolari aspetti. E’ un Mefistofele che può assumere voce e movenze da maschera della commedia dell’Arte o forme tentatrici da donna fatale, è un inquietante Lucifero celato da bende funebri che si libra sull’altalena dopo il suo trionfo, quasi a ribadire che per lui, signore del male, si tratta solo di un gioco come un altro.

Pirrotta ha fatto dunque una scelta registica netta: soppresso qualsiasi elemento farsesco si concentra sul lato oscuro e spettrale del suo eroe, sulla coscienza dilaniata, sull’orgoglio supremo e infine sulla disperazione e nel far questo utilizza lo spazio come alleato.

Tutti gli oggetti del culto sacro, maneggiati da chi ha rinnegato Dio pur percependone voce e sostanza, sono presenti ma capovolti nella loro destinazione d’uso: sul bastone da negromante Faust si abbarbica con le braccia per farne bracci di croce e farsi a sua volta Cristo crocifisso; le lapidi pietose del culto dei morti si issano arroganti per divenire specchi vanesi; l’ampolla atta a contenere il sangue sgorgato per suggellare il demoniaco patto è quella dell’offertorio, l’ampolla del vino che diventa sangue nel misterioso rituale della transustanziazione; l’aspersorio e l’incensiere sono gli strumenti del battesimo e della benedizione della salma, cioè quelli dell’entrata e dell’uscita nel patto cristiano tra Dio e i suoi figli; i lumini votivi delimitano un cerchio luminoso atto a contenere l’ultima celebrazione possibile, quella dell’ultima ora di vita.

Nella bellissima scena conclusiva, Faust raccoglie il filo rosso della propria esistenza. Esso non porta gioiosamente all’uscita dal proprio labirinto esistenziale ma dritto dritto all’abisso della propria cattiva coscienza. Se il biblico Giosuè aveva chiesto a Dio di fermare il corso del Sole per concludere vittoriosamente la battaglia contro gli Amorrei, Faust formula analoga richiesta affinché possa compiersi il tempo del suo pentimento o affinché la pena, per quanto lunga e terribile, possa essere sottratta all’eternità, l’attributo infernale per il quale Faust ha maggiormente orrore.

Ma l’uomo sa di non potere ottenere grazia e si avvia muto e sconfitto tra le braccia di Mefistofele che lo accoglie senza trionfo, consapevole di una disperazione che appartiene anche a lui, angelo ribelle che ha voltato le spalle ad aeternum alla contemplazione divina.

Faust

ovvero

Arricogghiti u filu

di Vincenzo Pirrotta

da La tragica storia del Dottor Faust di Cristopher Marlowe

con Cinzia Maccagnano e Vincenzo Pirrotta

musiche originali di Luca Mauceri

regia, scene e costumi di Vincenzo Pirrotta

assistente alla regia Marta Cirello

produzione Teatro Biondo Palermo

repliche fino al 4 novembre

Autore: Agata Motta

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“Berta Isla” di Javier Marìas

 

Vite che si sciolgono nell’oscurità. ‘Berta Isla’ di Javier Marìas, editore Einaudi

 

Berta Isla è un nome di donna, una parentesi aperta e mai più richiusa, una speranza di normalità inseguita con ostinazione.

Berta Isla possiamo immaginarla con le fattezze della bella donna ritratta in copertina. Fuma appoggiata ad una ringhiera e il fumo le nasconde parte del volto. L’immagine svela subito gli elementi fondanti della narrazione – sebbene il lettore non sia ancora in grado di coglierli e decifrarli – e li racchiude in quello sguardo assorto, nella miriade di punti interrogativi che hanno riempito i giorni di una vita sospesa tra l’ansia di sapere e il bisogno di ignorare ciò che potrebbe sconvolgere certezze caparbiamente edificate. E’ solo un richiamo seduttivo che ancora non oltrepassa quello puramente estetico, mentre alla fine si tornerà a fissare quello sguardo con complice amarezza.

Con Berta Isla, ponderoso e bellissimo romanzo pubblicato da Einaudi, lo spagnolo Javier Marìas, che già in Italia era stato apprezzato per il pregevole ma non esaltante Domani nella battaglia pensa a me, raggiunge livelli di scavo psicologico, al maschile e al femminile con identica intensità (cosa non facile o almeno non a tali altezze), che inchiodano il lettore alle pagine con il desiderio rabbioso di rivelare ai due protagonisti, Berta e Tom, ciò che uno non sa dell’altro e viceversa.

Berta e Tom si sono innamorati quasi bambini, in quello sbocciare dell’adolescenza che rende l’amore assoluto e immortale, privo di incrinature, ottuso e irragionevole. Si promettono l’un l’altra senza riserve, in una Spagna su cui incombono le milizie franchiste ma nella quale si accendono le prime fiamme della ribellione, nel mitico 1969 in cui le mode che percorrevano i giovani e l’Europa erano sostanzialmente riconducibili alla politica e al sesso. Studiano in luoghi diversi, Madrid lei e Oxford lui, coltivano grandi ambizioni e possiedono una visione precisa del loro futuro insieme che la lontananza non può intaccare, nemmeno quando concedono le loro rispettive verginità a compagni occasionali. Si amano certo, ma si rispettano sessualmente, come è giusto che sia in una giovane coppia di fidanzati della buona borghesia. Ancora non sanno che la distanza sarebbe stata “la cifra di gran parte della loro vita insieme…insieme ma dandosi le spalle”.

Tom ha una spettacolare capacità di assimilare le lingue straniere e di riprodurre accenti e cadenze dialettali, una dote istrionica che, oltre a provocare il divertimento collettivo degli amici, susciterà l’interesse dei suoi docenti e dei servizi segreti della Corona inglese. Un giovane così non può essere sprecato all’interno dell’ambasciata, un giovane così deve essere reclutato nonostante il suo rifiuto, anche a costo della più abietta menzogna e del più sporco inganno.

Javier Marías

Ci sono vite che sembrano destinate al silenzio e quella di un agente segreto, in modo particolare, deve restare oscura a chiunque, anche alla moglie e ai figli. Il grande segno che questi  “eletti” devono lasciare nella storia dell’umanità, dietro le quinte di guerre – suscitate, deviate, impedite – o di fondamentali acquisizioni di segreti di stato, deve riempirli di un orgoglio che non potrà mai valicare i confini del proprio Io, che non potrà mai essere raccontato e condiviso. I reclutatori sanno quali corde toccare per gonfiare e saturare l’autostima sino a renderla presunzione, come trasformare l’abiezione in eroismo di cui godere in solitudine in una sorta di onanistico titanismo. Solo autori talentuosi sono in grado di affidare magistralmente la voce narrante ad entrambi i personaggi e di intervenire direttamente come narratore esterno quando il racconto deve superare la soggettività delle focalizzazioni interne. Solo grandi maestri della scrittura sanno scavare dentro gli esseri umani e i loro misteri, mantenendo in ombra ciò che non può essere detto e immergendosi in quell’oscurità per rivelare come essa possa vestire i panni del quotidiano, come possa essere plausibile muoversi nel buio con la disinvoltura dei ciechi, che della luce possono fare a meno perché l’oscurità è la loro condizione naturale e non sanno nemmeno immaginarne una diversa.

La moltiplicazione della propria identità diverrà lo status naturale di Tom, l’attesa e la rinuncia ad una parte cospicua della vita del marito sarà quello di Berta.

Ma come può una donna continuare ad amare incondizionatamente un uomo che vive ingannando  persone delle quali estorce la fiducia se non addirittura l’amore, che probabilmente ha ucciso a sangue freddo prima di indossare i panni del marito e del padre affettuoso, che resta lontano per mesi senza fornire notizie impegnato in azioni prive di qualsiasi remora morale? E come può Tom agire con fede e convinzione pur sapendo di non aver potuto scegliere la propria strada, di essere stato costretto ad entrare nell’ingranaggio, di essere stato derubato del futuro che aveva con pazienza e amore cominciato a costruire?

Sono interrogativi che pesano come macigni e infine, per questo novello Mattia Pascal non toccato dalla grazia dell’umorismo, la moglie può ipotizzare (perché le parole tra loro sono sempre state merce rara o oggetto di dissipazione) una consapevolezza  tragica, quella di appartenere “a quel tipo di persone che non sono protagoniste neppure della propria storia… che scoprono che la loro storia non meriterà di essere narrata”.

“E’ il destino delle vite, come la mia e come la sua – conclude Berta – che, come tante altre, stanno solo in attesa”.

Ed ecco che l’immagine di copertina balza adesso agli occhi del cuore: Berta aspetta, la nuvola di fumo avvolge la sua interminabile attesa di donna che intuisce e che preferisce in fondo non sapere, dentro il fumo le vite evanescenti e sulfuree dell’uomo amato, inconsistenti eppure tossiche. Ci siamo ma non ci siamo, agiamo ma è come se non avessimo agito. La filosofia incomprensibile dei servizi segreti ha preso il sopravvento anche nei residui di esistenza reale, molto denaro in cambio della dedizione alla causa e del silenzio. Non ci saranno racconti rocamboleschi da imbandire allo sguardo sorpreso dei figli, né ringraziamenti per il probabile sangue versato, né compensi per chi ha incrociato una strada senza sbocco restandone vittima.

Restano insieme Tom e Berta, sgomenti e impotenti, oltre la morte vera o presunta (meglio non rivelare all’ipotetico lettore), un uomo e una donna vicendevolmente aggrappati senza essersi mai del tutto conosciuti.

Una scrittura corposa e vertiginosamente ipotattica per uno stile intrigante che non lascia niente al caso: un gran bel libro.

Autore: Agata Motta

https://www.scriptandbooks.it/2019/01/02/vite-che-si-sciolgono-nelloscurita-berta-isla-di-javier-marias-editore-einaudi/

Un’estate con Omero di S. Tesson

Rabbia e ricostituzione sullo scudo di Efesto. ‘Un’estate con Omero’ di Sylvain Tesson

I classici e il nostro tempo. Sono ancora attuali, ci insegnano qualcosa?

Prendiamo Omero e i suoi poemi, raccontiamoli alla luce delle vicende contemporanee e il gioco è fatto, magari basta forzare un tantino la mano e puntualmente le pagine irte di poesia del Poeta cieco si prestano a spiegare le costanti dell’animo umano e le dinamiche della sfera sociale e politica attraverso un percorso che procede per analogie e per differenze.

L’obiettivo che Sylvain Tesson, scrittore, giornalista e viaggiatore instancabile, si è prefisso nel suo ultimo saggio Un’estate con Omero, edizioni Rizzoli,è proprio quello di dimostrare per l’ennesima volta (come se esistessero ancora dubbi da dissipare!) che i grandi classici sono tali perché trattano temi universali che possono parlare all’uomo contemporaneo con la stessa efficacia di sempre. Già nella Prefazione, riferendosi ad Omero, Tesson ci ricorda che “ogni evento contemporaneo trova eco nei suoi versi o, per meglio dire, ogni sussulto della Storia è il riflesso di una sua premonizione… In questo risiede il genio di Omero: nell’aver tracciato, nei suoi canti, i contorni dell’uomo. Nulla è mutato da allora”.

L’avventura letteraria intrapresa, che Tesson ritiene indispensabile considerata la battuta d’arresto subìta dallo studio del mondo greco e latino negli ultimi decenni (il mondo della scuola, manovrato  dall’imperscrutabile giudizio di chi ci governa da siderali distanze, ne è, suo malgrado, partecipe e testimone) consiste dunque nella riproposta degli snodi fondamentali della trama e talvolta nella citazione sic et simpliciter dei versi immortali di Omero resi funzionali al teorema che si vuol dimostrare. Il linguaggio è sempre semplice ed estremamente accessibile, la platea dei lettori potrebbe allargarsi anche a studenti volenterosi.

Così, dall’eremo felice delle Cicladi – la scelta del luogo non è ovviamente casuale – l’autore si immerge nella ri-lettura e restituisce man mano le proprie osservazioni prima attraverso l’analisi puntuale dei singoli poemi e poi con focalizzazioni tematiche non sempre coese e talvolta persino ripetitive nella trattazione ma di certo robuste e persuasive nell’impianto. Davvero semplice, ma il meccanismo è tutto qua. Tesson agisce come un insegnante intento a chiosare il testo e a fornire spunti di riflessione ai propri allievi.

Basta essere dotati di una sufficiente cultura classica e si può accompagnare ad occhi chiusi Tesson in questo viaggio nella bellezza, nella poesia e nel divino, un viaggio in cui riafferrare la barra del timone delle nostre vite strapazzate e vorticose perché il messaggio finale si racchiude in questo: Omero insegna a vivere, basta saperlo ascoltare con la disposizione primitiva e ingenua degli antichi che ascoltavano i versi degli aedi. E ascoltarlo con un’attitudine pagana, attitudine che si traduce nell’accogliere il mondo senza pretese o aspettative. “Tutto è bello, quanto si vede, dice Priamo, re di Troia. Sì, tutto è bello e le parole sono asservite a questo svelamento, incaricate di esprimere il caleidoscopio della vita”.

Spontaneamente la nostra preferenza va alla seconda parte del testo, quella meno scolastica, quella in cui l’autore apre nuovi orizzonti interpretativi o illustra il proprio concetto di attualità.

‘Iliade’ del Teatro del Carretto

L’ineluttabilità dello scontro all’interno delle società umane è vissuto come destino di cui la Storia fornisce continuamente prova, il prosperare delle grandi divinità (o dei leader politici) sulle macerie del mondo è un necessario dato costante, la generica questione del bisogno di guerra insito nell’uomo è sempre aperta se si guarda con mente serena l’universo geopolitico nel quale ci muoviamo, l’offesa perpetrata dall’uomo alla Natura si rivela come la più recente guerra di Troia ed è letta come ultimo atto di hybris collettiva. L’uomo pensa di essere un dio o un demiurgo e, così facendo, dimentica l’affermazione del filosofo Protagora che ribadisce invece che “l’uomo è misura di tutte le cose” o almeno dovrebbe esserlo, visto che tra i moniti sempre presenti nei poemi alcuni non tollerano deviazioni: non bisogna turbare l’ordine delle cose, non vanno oltrepassati i limiti, le colpe, spesso legate proprio a queste azioni, dovranno comunque essere espiate.

La tensione tra destino e libero arbitrio costituisce uno dei nuclei tematici più interessanti perché cozza di netto con “la glorificazione dell’autonomia individuale” dei nostri tempi; gli eroi greci aveva compreso che gli “dei conducono la danza”, che si può provare a persuaderli con sacrifici e preghiere ma che alla fine la libertà consiste “nel mettersi in cammino verso l’ineluttabile”, senza che ciò tolga nulla all’incessante movimento verso l’appagamento dei propri desideri, alla  possibilità di scelta, alla spontanea partecipazione alla suddetta danza. Insomma, “vivere consiste nell’andare, cantando, verso il proprio destino” e la sottomissione agli dei guerrafondai e interventisti può persino sollevare l’uomo dalle proprie responsabilità Oggi sottrarsi alle proprie responsabilità sembra l’occupazione preferita dai politici per i quali, senza scomodare il Fato, ciò che non funziona è attribuibile alle circostanze  avverse o a chi li ha preceduti.

Altro nucleo tematico forte è quello relativo all’oblio e alla gloria che conduce, nell’eroe greco, alla necessità della scelta della Memoria, intesa come bisogno di affidare il proprio nome alla Storia e come necessità di riappropriazione di se stessi e delle proprie radici, concetti che oggi suonano assai stonati. Per l’uomo di Zuckerberg- l’inventore di Facebook, cioè della versione digitale dello specchio d’acqua di Narciso – i social network si presentano “come meccanismi di disgregazione automatica della memoria: appena postata, l’immagine viene dimenticata” in omaggio al culto dell’odierno “presentismo”.

In tempi recenti, ci ammonisce Tesson, siamo propensi all’identificazione con la parte debole dei grandi protagonisti del passato e delle loro divinità antropomorfe, con le loro imperfezioni. “Anche il divino e il meraviglioso mostrano i propri limiti”, ecco perché Omero sa essere vicino e familiare. Dovremmo infatti prestare orecchio a chi, come Achille, pur avendo fatto della Gloria il proprio faro e la propria ossessione, riconosce dal buio dell’oltretomba che niente ha più valore di una vita semplice e rimpiange la propria incapacità alla rinuncia.

L’eroe classico comunque resta affascinante per le sue virtù canoniche: la forza, il valore, il coraggio e la bellezza di Achille, l’astuzia, l’arte oratoria, la sete di conoscenza, l’ostinazione di Ulisse. A ciascuno di noi la possibilità di riconoscersi nell’uno o nell’altro, a ciascuno la scelta del poema che meglio riflette l’indole e le aspirazioni: la rabbia devastante dell’Iliade, la ricostituzione dell’ordine nell’Odissea. In fondo sono due facce della stessa medaglia, due aspetti complementari del mondo, quel mondo ricchissimo e vario raffigurato sullo scudo che Efesto forgia per Achille.

Accontentarsi del mondo e nulla sperare ci dice Omero attraverso le parole e i gesti dei suoi eroi, potrebbe sembrare l’atteggiamento pessimista del perdente e invece è la formula giusta per godere appieno dei doni della vita.

Autore: Agata Motta

http://www.inscenaonlineteam.net/inscena/2019/01/03/rabbia-e-ricostituzione-sullo-scudo-di-efesto-unestate-con-omero-di-sylvain-tesson-ed-rizzoli/