“Archimede” di Costanza DiQuattro

“Archimede – La solitudine di un genio” di Costanza DiQuattro

@ Agata Motta, 18 giugno 2025

Quanto può essere impervio e doloroso abitare la vita quando la ricerca della verità diventa un bisogno insopprimibile? E per il genio, che si scopre sempre inadeguato a quella che per gli altri esseri umani è la spianata e limpida distesa dei giorni, quanto può essere straziante l’anelito continuo all’infinito e all’eterno, a uno spazio e a un tempo che tenta di comprendere e contenere?

Nello spettacolo Archimede – La solitudine di un genio di Costanza DiQuattro, diretto da Alessio Pizzech e inserito nella stagione estiva del Teatro Biondo attualmente in corso nel chiostro della GAM di Palermo, le ultime ore dell’illustre matematico siracusano sono ripercorse attraverso un monologo che apre il sipario sull’intimità di un personaggio di cui le fonti raccontano pochissimo. Attraverso gli scarni dati biografici l’autrice costruisce un testo denso, compatto e immersivo che mostra anche l’uomo celato dietro il genio, le sue fragilità e i suoi pensieri, la sua precaria collocazione in una società conformista che stenta a definirlo, che alterna l’ammirazione per una straordinaria intelligenza, corteggiata dai potenti a fini utilitaristici, al disprezzo per quelle stravaganze che hanno il sapore della follia.

Un soldato romano irrompe nella sua abitazione durante il sacco di Siracusa, alleata di Cartagine, e sembra quasi impaurito da quegli strani strumenti che ingombrano la stanza, da quella personalità così diversa e dirompente. La spada e la fune con cui cinge i polsi alla sua preda non lo rendono più forte, così, rapito dalle parole, depone l’arma e si dispone all’ascolto. E Archimede parla, inonda la scena di parole, racconta delle scoperte avvenute per caso, in momenti di quotidianità, del mesto ma saldo e tenero legame coniugale, della passione amorosa per una schiava acquistata ad Alessandria che istruisce paziente per donarle l’unica vera libertà praticabile, del richiamo della propria terra, fertile di luce e profumi, del rimpianto per quella paternità mancata che avrebbe donato un senso al suo percorso terreno e che si concretizza in un sogno ricorrente denso di struggente malinconia, del bisogno frustrato di amicizia. Tutto il suo universo insomma, consegnato al casuale ascolto di un nemico che per poche ore diviene stupito contenitore di confidenze, rimorsi, amarezze, sogni e speranze. A lui rivolge l’esortazione di portare a Roma la bellezza della terra dei greci “dove tutto è nato e tutto finirà”.

Non è certo agevole entrare nella pelle un personaggio così complesso, eppure Mario Incudine regala un’interpretazione superba, recitazione e canto mirabilmente fusi a restituire ogni piega, ogni sofferenza, ogni stupore, ogni dubbio di un uomo che quasi si vorrebbe accanto per consolarlo della solitudine ingiusta, di una vita che getta a caso i suoi dadi, di un destino che a capriccio sorteggia eletti e sconfitti, nani e giganti. Incudine, autore anche delle musiche eseguite dal vivo da Antonio Vasta, utilizza tecnica e cuore, alterna le morbidezze espressive legate ai ricordi al ritmo incalzante del puparo nelle rievocazioni di imprese epiche, come il noto episodio degli specchi ustori usati contro le navi romane proposto in una scena tanto bella e perfetta da lasciare senza fiato, fa vibrare ogni singola parola di un testo che parlando di un lontano passato acquisisce il sorprendente sapore del presente. I Romani esercitano la forza con sacra devozione, a muoverli il desiderio di conquista, il resto non conta. La scia di sangue e di morte che la guerra produce è solo un effetto collaterale da non tenere in considerazione. Il mondo di ieri come quello di oggi, la guerra è ancora lì, non è diventata un’orrida parola impronunciabile, non si è trasformata in monito per il futuro, la tracotanza di chi detiene il potere non suscita indignazione, la bellezza violata dalla distruzione non commuove. “Dove stiamo andando?”, è in questa domanda che bisognerebbe sempre porsi che può insinuarsi la salvezza, interrogarsi sul perché delle proprie azioni contribuirebbe a dotarle di senso e di validità.

Con accortezza e generosità la regia di Pizzech non impone ma suggerisce, lascia che testo, musica e interpretazione, nel loro felicissimo connubio, catalizzino l’attenzione del pubblico, assecondati dalle scene essenziali ma caratterizzanti di Andrea Stanisci che cura anche i costumi legati all’epoca. Così il luogo di studio e di invenzione si configura anche come il posto in cui ritrovare i pezzi sparsi della propria anima.

Il dubbio sulla bontà delle proprie invenzioni, la paura che possano essere messe a servizio del male, il senso di colpa che lo precipita nel buio della disperazione fanno di Archimede un uomo autentico e sincero e conferiscono ulteriore spessore a uno spettacolo che sa accendersi anche di momenti di ariosa leggerezza attraverso il canto potente e ammaliante dello stesso Incudine e grazie all’uso affettuoso del dialetto in certi passaggi, come nella rievocazione del re Gerone, che con l’uso di una lingua anacronistica e di registro popolare viene ironicamente catapultato nel mondo dei comuni mortali.

L’amore, la bellezza, la cultura costituiscono il testamento spirituale lasciato da Archimede al giovane soldato (Tommaso Garré), presenza muta cui affidare gli unici momenti di amicizia di un uomo, ormai prossimo alla morte, destinato dalla propria grandezza alla solitudine.

Archimede

di Costanza DiQuattro

con Mario Incudine

regia: Alessio Pizzech

scene e costumi: Andrea Stanisci

musiche: Mario Incudine eseguite dal vivo da Antonio Vasta

produzione: CTB Centro Teatrale Bresciano/La Contrada Teatro Stabile di Trieste/ Teatro della Città/ in collaborazione con teatro Donnafugata/produzione esecutiva A.S.C. Production Arte Spettacolo Cultura

“La Fabariota” di Anna Di Mauro

La Fabariota di Anna Di Mauro

@Agata Motta, 13 luglio 2025

Chi non si è mai ritrovato a scrivere qualche pagina di diario per fissare un ricordo, per fare chiarezza sui propri tumulti interiori, per analizzare persone e situazioni? Anna Di Mauro nell’originale e trascinante romanzo La Fabariota, Carthago edizioni, inserisce questa modalità narrativa non tanto o non soltanto per restituire dignità letteraria a un genere poco frequentato ma soprattutto per un bisogno di esplorazione della scrittura in quanto tale, la scrittura che è “luce feconda che non si spegne mai”, quella che salva e monda, quella cui aggrapparsi nei momenti di sconforto e di disperazione, quella cui si affidano umori e sapori di una vita spesso insufficiente a contenere gli sconfinamenti dello spirito. Sì, perché la dualità insita nell’uomo, intesa come conflitto tra ragione e sentimento o come compresenza di corpo e anima, è ben presente nel testo e ne costituisce uno dei tratti caratterizzanti.

Abbiamo dunque un Osservatore celeste, un tempo umano e dotato di chiaroveggenza, che viene affiancato a una giovane donna in piena crisi sentimentale e professionale, per contenerne gli impulsi suicidari o semplicemente per raddrizzare il timone di una perigliosa navigazione attraverso una singolare forma di “assistenza empatica”. Non può materialmente intervenire, quindi si danna e si dispera o cerca di stemperare la tensione con piglio ironico. Scrive un diario per “registrare fedelmente il tempo trascorso con la sua cavia”. Un angelo custode non ancora del tutto maturo per il suo compito che si attrezza culturalmente rimpinzandosi di libri, un angelo custode simpatico nella sua imperfezione che usa un linguaggio ampolloso e se ne compiace come se le esuberanze stilistiche, le arditezze lessicali, le ridondanze aggettivali potessero contribuire all’accelerazione del suo percorso di uscita dalla zona grigia in cui si trova. La finalità del suo diario è pertanto di perlustrazione non solo della creatura sotto la sua tutela ma anche di se stessa (perché in realtà di un’osservatrice si tratta e non è un caso l’attenzione maggiore riservata al “femminile”) e del proprio livello di affinamento.

Ed ecco la protagonista terrestre, Alessia Alibrandi, archeologa che tenta di ricostruire la storia dei Sicani e di dimostrare come questa popolazione abbia avuto rapporti con la civiltà minoica. Durante la sua caparbia ricerca, ostacolata da ruspanti intimidazioni mafiose, si imbatte però in un’affascinante leggenda legata alla figura della Fabariota (la donna di Favara, la prima “fimmina scrittora”) che in epoche remote scriveva a uso e consumo delle donne che andavano a consultarla nel suo antro misterioso. Che non sia solo leggenda sarà chiaro sin dall’inizio, perché la grottesca rappresentazione al teatro Valle (momento iniziale e conclusivo della vicenda che assume pertanto un andamento circolare) ha per oggetto proprio il contenuto dei manoscritti ritrovati. Anche lei scrive un diario, ma con finalità inconsciamente terapeutica. “Pochi sanno ascoltare veramente”, afferma Alessia, “Invece la pagina riceve la confidenza docilmente. È rispettosa”. La paralisi della volontà – che tanto la avvicina allo sveviano Zeno Cosini – la depressione, i conflitti con le figure parentali pian piano emergono, prendono forma e ricevono voce, il meccanismo della terapia psicanalitica viene affidato alla scrittura. Anche il linguaggio di Alessia non disdegna certe raffinatezze e magniloquenze, anzi sembra quasi che nei diari prenda corpo uno stile che deliberatamente si contrappone a quello più fluido, incalzante, a tratti fortemente paratattico della narrazione onnisciente, nella quale prevale il punto di vista della protagonista cui si affiancano le incursioni dirette dell’Osservatore celeste che giudica, svela le menzogne autoassolutorie della sua pupilla, freme nell’impossibilità di deviare il corso degli eventi perché il libero arbitrio, facoltà umana incontestabile, deve comunque essere garantito.

L’autrice insomma gioca con le molteplici possibilità espressive, se ne avverte l’ironia pungente e il tangibile divertimento a conferma di quanto, al di là dell’affasciante storia e dei tanti personaggi tratteggiati con finezza, sia proprio alla scrittura che dedica la sua maggiore cura. Una diffusa leggerezza permea le pagine quasi a voler dimostrare che anche le tematiche più serie e dolorose possono essere filtrate da un intelligente distacco capace talvolta di scovarne il lato comico. E risulta spontaneo intravedere il suo sorriso sornione dietro le parole dell’Osservatore celeste che in fondo, pur avendo una sua identità che si svelerà solo alla fine, non è pretestuoso considerare un alter ego, così come è semplice ipotizzare che nei luoghi teatro delle azioni – Roma, Agrigento, Favara, Sperlonga, Venezia – abbia seminato pezzi del proprio cuore.
Ambientato negli anni Sessanta – riconoscibili grazie ad accenni politici quali la presidenza di J.F. Kennedy ma soprattutto attraverso i riferimenti cinematografici, dalla morte di Marylin alla via Veneto delle celebrità – il romanzo è intriso di riferimenti letterari, filosofici e artistici che costituiscono l’ossatura della formazione umana e culturale dell’autrice, probabili stelle polari della sua visione della vita. Sfilano così sotto gli occhi del lettore Pirandello nella moltiplicazione del proprio sé, nella taciuta pazzia di zia Tecla e nel concetto di famiglia trappola, Freud nelle continue tessiture sui sogni, Sartre nella nausea esistenziale, Kierkegaard nel necessario dramma della libertà di scelta, e ancora Marx, Dostoevskij, Dante, Sciascia, Vittorini, Caravaggio, Modigliani e altri ancora, una polifonia di rimandi e citazioni cui Di Mauro dà sostanza in quanto sostanza di una vita di studi e riflessioni.

I personaggi, i cui nomi e cognomi sono spesso rivelatori – Alibrandi, ali per volare, brando per combattere; Narcisi, il bellimbusto capace di amare solo se stesso – vengono talvolta individuati con epiteti temporaneamente calzanti allo stato d’animo e alla situazione. Attraverso i loro vissuti l’autrice accende i riflettori sulle grandi tematiche universali come la malattia, la morte, l’immortalità dell’anima, l’amore, la memoria, le radici. Su tutto si distende l’ala instancabile del tempo sovrano, che sa essere anche “nemico e ingannatore”. Gli scavi ne sviscerano i segreti per restituirli al presente e al presente giungono le parole intessute dalla Fabariota, parole tese a consolare e sostenere un universo femminile da sempre afflitto.

La consapevolezza sarà l’attrezzo fornito dall’Osservatore celeste all’incespicante e titubante Alessia, la consapevolezza dei propri bisogni, delle proprie emozioni, dei propri conflitti, la consapevolezza dell’importanza del passato, indispensabile a chi, come lei, vi scava dentro per mestiere, e infine la capacità di distinguere “ciò che fa star bene da ciò che fa star male”, un’arte che solo chi sa vivere pienamente possiede.

La Fabariota
Anna Di Mauro
Carthago edizioni
pp.298
20,00 €

https://www.scriptandbooks.it/2025/07/13/la-fabariota-di-anna-di-mauro/

Recensione di Lucia Accoto

Recensione di Lucia Accoto su Raccoglievamo le more
“La vita si spezza e si ricompone. Rimetterla in piedi costa fatica. I cocci avranno il nome del confine che passa tra il prima e il dopo. L’intervallo che definisce lo spazio del tempo misura la portata di luci e ombre. Disordine, ordine, compiutezza ed entusiasmo sono le fenditure tra una linea e un’altra lungo le quali prendono posto la rassegnazione e la rivalsa. Due poli opposti che non conoscono legami, che sono parole e opere di sudore e di sangue. Quando si frantumano gli anni più belli si fa sentire l’aria polare che ghiaccia il respiro rendendolo faticoso. L’instabilità comporta una sospensione che mette a soqquadro la spinta verso la normalità. I frammenti di una vita rotta da fatti che non hai potuto controllare nemmeno nelle circostanze in cui godevi di un minimo di autonomia si scagliano in un presente che è la somma di tutte le ore. Il passato lo conosci e il futuro lo temi. L’esistenza così sfilacciata esaurisce l’orizzonte, incrina le spalle e allontana la vista delle lapidi che scuriscono l’intraprendenza dell’ambizione.
In Raccoglievamo le more di Agata Motta conosci la storia di una famiglia che ha conosciuto le ferite in un’epoca in cui il fascismo impera e la guerra è vicina. Sicilia, anni Quaranta. I Vitale sono uniti, sono numerosi. Il loro è un guscio forte, almeno in apparenza. Poi, le cose cambiano anche per loro. I rapporti si incrinano e le aspettative di vita anche. Scoppia la Seconda Guerra mondiale investendo l’esistenza di tutti. I fatti che sono stati assorbiti da una quotidianità sbiadita e composta da schegge di piccole storie che attraversano il vissuto della famiglia proiettata verso la speranza.
Qualcuno, però, non sa più a chi appartiene. Adesso che anche l’ultima persiana della casa dei Vitale è stata chiusa, si ritrova spettatore della fine di un ciclo di storia.
Il romanzo ingoia il passato per superare l’inferno in cui il futuro deve, poi, orientarsi per forza per respirare La storia, un vero gioiello della narrativa, è l’immagine riflessa di vite che si ritrovano sparse come bambini alle giostre. La scrittura è affascinante, travolgente, vera. È l’esatto richiamo al mondo di fuori che straripa quando quello fatto di inchiostro è così pieno che vorresti solo essere uno dei personaggi così ben “pittati” che diventano tuoi amici, confidenti, compagni e fratelli”.
La mia recensione su:

Recensione su Magma Magazine di Serena Votano

MAGMA MAGAZINE
Eruzioni letteraria
La memoria che inciampa in un verbo imperfetto

«Raccoglievamo le more» di Agata Motta

7 minuti di lettura

“A cu’ appatteni?” è una domanda che, al Sud, viene posta per capire qual è la famiglia nella quale si è nati. Chi sono i genitori, o i nonni. Il cognome, di per sé, segna un’appartenenza: una casa in cui tornare. Illumina un’intera generazione, dall’ultimo nato al primo di cui si ha memoria, attraverso ramificazioni tortuose e, a volte, sussurrate come segreti scomodi e inconfessabili. È la domanda che viene fatta al protagonista di questo romanzo, l’attore Aurelio Vitale, che nel 2002 ritorna nella sua terra natia e osserva la sua casa svuotarsi degli arredi. Si siede al bar della piazza e il cameriere gli chiede, appunto, “A cu’ appatteni?”, “No sacciu” risponde.

Aurelio prova a riannodare il filo della storia della sua famiglia nella Sicilia degli anni ’40, dove l’Italia fascista e la guerra sono un presente drammatico per Rodolfo, Annamaria, Antonio, Emma, Palmina, la mamma Maria, il padre Giovanni, lo zio arciprete, la domestica e un maestro di musica. Ognuno con i suoi sogni, aspirazioni e opinioni politiche.

Raccoglievamo le more (edito da Kalós, 2025), esordio notevole di Agata Motta, è un romanzo corale in cui le voci dei personaggi si alternano, invitando il lettore nell’intimità di una casa che rappresenta le molte vite comuni negli anni della Seconda guerra mondiale, un periodo storico che infrange la giovinezza e imprigiona il presente.

E se ci abituassimo al male? Se cominciassimo a pensarlo come una cosa normale? Che strada imboccherà il genere umano e cosa significherà umanità in quest’era nuova in cui il sangue si potrà versare come vino dentro i calici panciuti dei potenti?

Agata Motta è una giornalista e scrittrice catanese, nonché docente di Lettere a Palermo. Dopo aver pubblicato testi teatrali e saggi, firma il suo primo romanzo, classificatosi nel 2017 tra i dodici inediti finalisti del Premio Neri Pozza.

Il puzzle di una famiglia nella Sicilia del fascismo

L’autrice ha scelto di dare voce a tutti i suoi personaggi – attraverso una prosa raffinata, quasi poetica, e al contempo cruda – senza eleggere un vero protagonista. Sono infatti i frammenti di queste microstorie, come tessere di un puzzle restituito dal passato, a ricomporre le paure e le speranze di un’altra epoca, di una famiglia e di una nazione intera.

Il prologo e l’epilogo di questo romanzo – dove a parlare è appunto Aurelio – mostrano la necessità di recuperare quella vita perduta, solo immaginata, ma tanto amata e dunque ricostruita. Aurelio, mentre osserva quella casa svuotarsi, sta in realtà vedendo sfumare l’ultima possibilità che ha di ricostruire quel passato e quegli affetti, una seconda pelle che, come il cognome, ti identifica e salva.

La chiave di questo romanzo si cela dietro l’imperfetto utilizzato nel titolo, un tempo verbale che rivela un senso di nostalgia verso quegli odori, sapori, abitudini, sogni, un bisogno di ricostruire una nuova identità. Un titolo che riesco il passato e apre una parentesi nel presente tortuoso – quello del romanzo, come quello che stiamo vivendo – restituendo ai piccoli personaggi di questa storia una vana possibilità di essere ancora bambini e gioire dell’inaspettato.

Raccoglievamo le more tra i cespugli spinosi e spesso c’era chi si graffiava fino a sanguinare, ma le sfide sono sfide e vinceva chi riempiva in meno tempo la tazza, piena, fino all’orlo. Ci disperdevamo su sentieri diversi e il primo che finiva dava l’avviso salendo sul muretto della chiesa sconsacrata a gridare la propria vittoria.

Motta racconta delle piccole sfide tra bambini che, anche in tempi di guerra, non si lasciano sfuggire l’occasioni di sfidarsi nella raccolta delle more. Un gesto che evoca il bisogno di strappare ancora un attimo di infanzia, goderselo fino alla fine, lontani dallo sguardo affranto e timoroso degli adulti.

Un esordio narrativo dedicato alla memoria

Non avevo mai considerato la faccenda dell’appartenenza, non mi ero posto il problema. Si appartiene a un luogo, a una famiglia, al lavoro, agli amori, agli amici, agli ideali? O solo a sé stessi, ai propri pensieri, ai propri meschini interessi?

Arrivati al dunque, Aurelio non ha ancora una risposta all’“A cu’ appatteni?”, non l’avrà mai perché ha perso l’occasione di sentirsi famiglia. Un’energia mancante e un vuoto presente. Ma questo romanzo è una sospensione necessaria, prima di ripartire. Permettere a questi fantasmi di esistere ancora una volta è l’unico modo che ha a disposizione per andare avanti, «scomparire per farvi risorgere».

Raccoglievamo le more (acquista) è un romanzo aspro e struggente, che riaccende il bisogno di recuperare le proprie radici per ricostruire una storia universale, simbolo di rinascita. E per riaccendere la speranza, anche in tempi in cui la guerra sembra tornare minacciosa all’orizzonte.

È dedicato a chi è riuscito ad andare lontano, pur portando con sé i ricordi — anche i più dolorosi — di un tempo complesso e carico di sentimenti. A chi coltiva la memoria come fosse l’ultima preghiera della sera.

https://www.magmamag.it/la-memoria-che-inciampa-in-un-verbo-imperfetto/

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