“A cu’ appatteni?” è una domanda che, al Sud, viene posta per capire qual è la famiglia nella quale si è nati. Chi sono i genitori, o i nonni. Il cognome, di per sé, segna un’appartenenza: una casa in cui tornare. Illumina un’intera generazione, dall’ultimo nato al primo di cui si ha memoria, attraverso ramificazioni tortuose e, a volte, sussurrate come segreti scomodi e inconfessabili. È la domanda che viene fatta al protagonista di questo romanzo, l’attore Aurelio Vitale, che nel 2002 ritorna nella sua terra natia e osserva la sua casa svuotarsi degli arredi. Si siede al bar della piazza e il cameriere gli chiede, appunto, “A cu’ appatteni?”, “No sacciu” risponde.
Aurelio prova a riannodare il filo della storia della sua famiglia nella Sicilia degli anni ’40, dove l’Italia fascista e la guerra sono un presente drammatico per Rodolfo, Annamaria, Antonio, Emma, Palmina, la mamma Maria, il padre Giovanni, lo zio arciprete, la domestica e un maestro di musica. Ognuno con i suoi sogni, aspirazioni e opinioni politiche.
Raccoglievamo le more (edito da Kalós, 2025), esordio notevole di Agata Motta, è un romanzo corale in cui le voci dei personaggi si alternano, invitando il lettore nell’intimità di una casa che rappresenta le molte vite comuni negli anni della Seconda guerra mondiale, un periodo storico che infrange la giovinezza e imprigiona il presente.
E se ci abituassimo al male? Se cominciassimo a pensarlo come una cosa normale? Che strada imboccherà il genere umano e cosa significherà umanità in quest’era nuova in cui il sangue si potrà versare come vino dentro i calici panciuti dei potenti?
Agata Motta è una giornalista e scrittrice catanese, nonché docente di Lettere a Palermo. Dopo aver pubblicato testi teatrali e saggi, firma il suo primo romanzo, classificatosi nel 2017 tra i dodici inediti finalisti del Premio Neri Pozza.
Il puzzle di una famiglia nella Sicilia del fascismo
L’autrice ha scelto di dare voce a tutti i suoi personaggi – attraverso una prosa raffinata, quasi poetica, e al contempo cruda – senza eleggere un vero protagonista. Sono infatti i frammenti di queste microstorie, come tessere di un puzzle restituito dal passato, a ricomporre le paure e le speranze di un’altra epoca, di una famiglia e di una nazione intera.
Il prologo e l’epilogo di questo romanzo – dove a parlare è appunto Aurelio – mostrano la necessità di recuperare quella vita perduta, solo immaginata, ma tanto amata e dunque ricostruita. Aurelio, mentre osserva quella casa svuotarsi, sta in realtà vedendo sfumare l’ultima possibilità che ha di ricostruire quel passato e quegli affetti, una seconda pelle che, come il cognome, ti identifica e salva.
La chiave di questo romanzo si cela dietro l’imperfetto utilizzato nel titolo, un tempo verbale che rivela un senso di nostalgia verso quegli odori, sapori, abitudini, sogni, un bisogno di ricostruire una nuova identità. Un titolo che riesco il passato e apre una parentesi nel presente tortuoso – quello del romanzo, come quello che stiamo vivendo – restituendo ai piccoli personaggi di questa storia una vana possibilità di essere ancora bambini e gioire dell’inaspettato.
Raccoglievamo le more tra i cespugli spinosi e spesso c’era chi si graffiava fino a sanguinare, ma le sfide sono sfide e vinceva chi riempiva in meno tempo la tazza, piena, fino all’orlo. Ci disperdevamo su sentieri diversi e il primo che finiva dava l’avviso salendo sul muretto della chiesa sconsacrata a gridare la propria vittoria.
Motta racconta delle piccole sfide tra bambini che, anche in tempi di guerra, non si lasciano sfuggire l’occasioni di sfidarsi nella raccolta delle more. Un gesto che evoca il bisogno di strappare ancora un attimo di infanzia, goderselo fino alla fine, lontani dallo sguardo affranto e timoroso degli adulti.
Un esordio narrativo dedicato alla memoria
Non avevo mai considerato la faccenda dell’appartenenza, non mi ero posto il problema. Si appartiene a un luogo, a una famiglia, al lavoro, agli amori, agli amici, agli ideali? O solo a sé stessi, ai propri pensieri, ai propri meschini interessi?
Arrivati al dunque, Aurelio non ha ancora una risposta all’“A cu’ appatteni?”, non l’avrà mai perché ha perso l’occasione di sentirsi famiglia. Un’energia mancante e un vuoto presente. Ma questo romanzo è una sospensione necessaria, prima di ripartire. Permettere a questi fantasmi di esistere ancora una volta è l’unico modo che ha a disposizione per andare avanti, «scomparire per farvi risorgere».
Raccoglievamo le more (acquista) è un romanzo aspro e struggente, che riaccende il bisogno di recuperare le proprie radici per ricostruire una storia universale, simbolo di rinascita. E per riaccendere la speranza, anche in tempi in cui la guerra sembra tornare minacciosa all’orizzonte.
È dedicato a chi è riuscito ad andare lontano, pur portando con sé i ricordi — anche i più dolorosi — di un tempo complesso e carico di sentimenti. A chi coltiva la memoria come fosse l’ultima preghiera della sera.
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Ed ecco la protagonista terrestre, Alessia Alibrandi, archeologa che tenta di ricostruire la storia dei Sicani e di dimostrare come questa popolazione abbia avuto rapporti con la civiltà minoica. Durante la sua caparbia ricerca, ostacolata da ruspanti intimidazioni mafiose, si imbatte però in un’affascinante leggenda legata alla figura della Fabariota (la donna di Favara, la prima “fimmina scrittora”) che in epoche remote scriveva a uso e consumo delle donne che andavano a consultarla nel suo antro misterioso. Che non sia solo leggenda sarà chiaro sin dall’inizio, perché la grottesca rappresentazione al teatro Valle (momento iniziale e conclusivo della vicenda che assume pertanto un andamento circolare) ha per oggetto proprio il contenuto dei manoscritti ritrovati. Anche lei scrive un diario, ma con finalità inconsciamente terapeutica. “Pochi sanno ascoltare veramente”, afferma Alessia, “Invece la pagina riceve la confidenza docilmente. È rispettosa”. La paralisi della volontà – che tanto la avvicina allo sveviano Zeno Cosini – la depressione, i conflitti con le figure parentali pian piano emergono, prendono forma e ricevono voce, il meccanismo della terapia psicanalitica viene affidato alla scrittura. Anche il linguaggio di Alessia non disdegna certe raffinatezze e magniloquenze, anzi sembra quasi che nei diari prenda corpo uno stile che deliberatamente si contrappone a quello più fluido, incalzante, a tratti fortemente paratattico della narrazione onnisciente, nella quale prevale il punto di vista della protagonista cui si affiancano le incursioni dirette dell’Osservatore celeste che giudica, svela le menzogne autoassolutorie della sua pupilla, freme nell’impossibilità di deviare il corso degli eventi perché il libero arbitrio, facoltà umana incontestabile, deve comunque essere garantito.
